Parco Archeologico Religioso CELio

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sabato, agosto 13, 2022

RACCONTI di: Papa Gregorio Magno - La sua vita. Le sue intuizioni. La sua eredità



1. I testi
I documenti che costituiscono ciò che è stato definito dagli studiosi Libellus responsionum ad Augustinum Episcopum, sono stati pubblicati dai Maurini, Opera Omnia, tomo II, Paris 1705 e da J.P. Migne PL 77, Paris 1851 e infine editi dalle Monumenta Germaniae Historica, Epistolae, tomi I e II, Berlin 1891 e 1899 e dal Corpus Christianorum, series latina, voll. CXL e CXL A, Turnhout 1982, edizione quest’ultima riprodotta in Grégoire le Grand, Registre des Lettres Tome I** (Livres I et II). Introduction, texte, traduction, notes et appendices, par Pierre Minard , SC 371, du Cerf, Paris 1991, Appendix XI, pp.490-521.

L’edizione italiana di una parte dell’epistolario gregoriano che ci interessa in questa sede, e precisamente le lettere commendatizie dirette ad alcuni vescovi della Gallia per favorire il passaggio di Agostino diretto nella terra degli Angli, è stata pubblicata col testo latino a fronte in Opere di Gregoro Magno, volume V/2, a cura di Vincenzo Recchia, Città Nuova 1996,pp.368-377. L’intera documentazione è invece accessibile in lingua italiana all’interno del volume Venerabile Beda, Storia ecclesiastica degli Angli, Traduzione e note a cura di Giuseppina Simonetti Abbolito, Introduzione di Bruno Luiselli, Città Nuova 1987, pp.71-117. Un’utile introduzione alla figura e all’opera di Gregorio Magno è il libro di Jeffrey Richards, Consul of God. La Life and Times of Gregory the Great, London 1980, tradotto in italiano dalla Sansoni col titolo Il console di Dio. La vita e i tempi di Gregorio Magno, Firenze 1984. Più divulgativo è invece Emilio Gandolfo, Gregorio Magno papa in un’epoca travagliata e di transizione, Città Nuova, Roma 1994.

2. I commenti
Vera Paronetto, una collaboratrice dell’Istituto Italiano per la storia antica, è intervenuta diverse volte sulle tematiche presenti nel <libellus>. Ricordiamo: Gregorio Magno. Un maestro alle origini cristiane d’Europa, con Introduzione di Jean Leclercq, Edizioni Studium, Roma 1985, con un capitolo (VII) intitolato: Gli anglosassoni. La conversione (pp.93-107); Gregorio Magno e gli Anglosassoni in cui ha anche presentato la traduzione di 18 Epistole con i tipi dell’ editrice Borla, Roma 1990; infine il libro postumo: Gregorio Magno. Lettere, con Prefazione di Angelo Di Berardino, Edizioni Studium, Roma 1992.

Questa studiosa, evidente ammiratrice di Gregorio Magno, sostiene che Gregorio era stupito che i vescovi delle vicinanze non sentissero l’impegno di annunziare il Vangelo ai pagani, pur ammettendo che non si riesce a capire se il papa si riferisca senz’altro ai Franchi e non, per esempio, ai Celti dell’Irlanda cristiana quando allude all’inerzia dei vicini (Ep. 6, 49: sacerdotes e vicino neglegere; Ep6, 57: pastoralem sollicitudinem non habere ). Gli anglosassoni comunque non avevano ancora ricevuto neppure quell’informazione incompleta e distorta del cristianesimo assorbita dai Goti e dai Longobardi ariani: erano letteralmente idolatri (cfr Gregorio Magno. Un maestro alle origini cristiane d’Europa, o.c., pp.95-96).

“Gregorio - scrive la Paronetto - scrutando l’orizzonte, andò oltre il confine stesso dell’area culturale romana di allora, perché aveva un senso profondo della universaltà del sacerdozio... Egli riteneva l’impegno missionario costitutivo per la chiesa; sentiva in tutto il vigore iniziale il mandato di Cristo agli apostoli (Mc, 16,15). D’altra parte non ammetteva che una buona impresa venisse interrotta: <Chi non porta a termine -aveva un tempo ammonito - una buona azione iniziata, è simile a colui che distrugge: per la disgregazione che si genera nel terreno della negligenza > (Regula Pastoralis 3,34)...Ma non si limitò alle parole di incoraggiamento. Scese nelle loro difficoltà. Fece di tutto perché nelle tappe del loro viaggio trovassero buona accoglienza, perché soprattutto fossero forniti di interpreti e affidò ad Agostino, costituito abate, numerose lettere per i principi e per i vescovi di Francia, secondo le tappe previste (o.c., pp.95-98 passim ).

Visto a distanza di secoli - conclude la studiosa italiana - questo sbarco può apparire <the retort of the West to the challenge of the Northmen, the last act in the drama of Roman conquest in Britain> (F.H.Dudden). I monaci volevano portare solo il messaggio di Cristo, ma in realtà da allora quel popolo uscì dalla lunga oscurtià storica succeduta alla fine del dominio romano e incominciò il processo di unificazione, che dal piano religioso doveva utilmente riflettersi nel civile”(ivi ).

Parlando poi del metodo missionario indicato da Papa Gregorio la Paronetto rileva: “Nelle lettere che Gregorio indirizzava ai suoi monaci missionari possiamo leggere, portate sul terreno pratico, le norme che aveva vergato nelle opere programmatiche; un altro esempio di quel continuo inserire nell’esperienza la parola di Dio, che è una caratteristica gregoriana” (o.c., p.99).

Anche il prof. Vincenzo Recchia, curatore dell’edizione bilingue dell’epistolario gregoriano per i tipi della Città Nuova, è convinto che l’opera di Gregorio “non è un’opera dettata solo da sollecitazioni esterne, come pensava il Grisar, ma l’espressione di un programma ispirato, a quanto si deduce dalle fonti citate, dalla lectio divina. Per esempio nelle invettive contro i ricchi, che si incontrano in altri Padri, come Ambrogio, per fare soltanto il suo nome, si avverte l’eco della topica ricorrente della diatriba filosofica. Ambrogio attinge decisamente da Cicerone. Gregorio attinge invece esclusivamente dalla Bibbia e, sotto l’ispirazione della Parola divina, guarda agli avvenimenti della storia e alla cronaca quotidiana in cui, a quanto ci è dato desumere dal <Registrum>, interviene con tempestività e, finché gli è possibile, con efficacia” (<Opere di Gregorio Magno V/I, Lettere (I-III)>, a cura di Vincenzo Recchia, Città Nuova editrice Roma 1996, pp. 84-85).

Più impegnativa è la elaborazione teologico-spirituale che gli stessi documenti hanno suggerito a P.Benedetto Calati (in Gregorio Magno e il dialogo del monachesimo medievale, <Vita Monastica> n.88 (1967) 5-24) il quale ne approfitta per esporre un vero e proprio trattato sull’incontro fra il monachesimo - chiesa occidentali e i nuovi popoli che premono ed entrano infine oltre i confini stabiliti dall’impero romano.

“Gregorio - esordisce lo studioso camaldolese - non è che una delle voci, anche se la più autorevole, che propongono un monachesimo missionario. Le stesse constatazioni le offrono altre esperienze monastiche a lui contemporanee. In Inghilterra, per esempio, il monachesimo celtico si era sviluppato nello stesso modo” (o.c.,p.8). “La comunità monastica, prosegue P.Calati, si presenta anzitutto con un programma essenzialmente ecclesiale. E’ la chiesa che s’incarna in essa trovandovi la costante <epifania> carismatica e insieme visibile dei suoi elementi più sacri” (o.c.,p.10). Quindi aggiunge: “Il <clan> monastico è quello d’Israele nel suo ruolo profetico, è la tribù scelta per il servizio santo, perché sia segno perpetuo dell’alleanza con tutti i popoli della terra. Unità perciò tra la comunità monastica e la comunità di Cristo (il Signore e gli Apostoli) nel compimento dell’unica Storia della salvezza.

Questo è forse il punto essenziale del messaggio vitale che la Chiesa seppe offrire ai nuovi popoli nella formazione dell’Europa, grazie specialmente al suo monachesimo. Col suo supremo grado di servizio sacerdotale Gregorio Magno papa e monaco - spiega lo studioso camaldolese - doveva dare un senso di continuità profetica tra il vecchio e il nuovo, nascente continuamente per il mistero di Cristo nella Chiesa. Gregorio Magno si sentirà perciò ispirato alla pari di un profeta dell’Antico Testamento e non temerà di applicare alla Chiesa dei suoi tempi la stessa visione profetica di Ezechiele per individuare nella fusione dei nuovi popoli con gli altri le <ossa aride> che al contatto con la Parola di Dio prendono vita sino a diventare un popolo, una tribù santa, la <tribù messianica>.

Dinanzi agli ultimi fulgori del <palatium> imperiale, Gregorio, romano autentico, ed ora monaco e gran Sacerdote, si sente in possesso della grazia profetica e commenta, come nessun Padre aveva fatto, il Nuovo Tempio della profezia di Ezechiele, vedendo compiuti e realizzati nella conversione della gentilità a Cristo e nella immissione dei popoli nuovi nelle acque di salvezza della chiesa, i nuovi tempi messianici...

Con questo messaggio di speranza dei cieli e della terra nuova, la <familia> monastica di Gregorio andrà in Inghilterra e da qui in Germania, per stabilirvi le <tende> del Dio d’Israele che si compiace di abitare in mezzo agli uomini...L’innesto dei nuovi virgulti sarà fatto decisamente su quel tronco d’Israele che già l’Apostolo aveva presentato ai pagani dei primi tempi, ma esso sarà garantito nella sua vitalità da quella vita apostolica che il monaco non cesserà mai di sperimentare.

Gregorio - prosegue il P.Calati - aveva una teologia profonda della gentilità o dei Gentili. Il loro ingresso nella Chiesa costituiva una delle principali preoccupazioni dei suoi commentari biblici...Gregorio fondava il grande discorso spirituale sulla salvezza dei gentili e quindi dei nuovi popoli, sulla considerazione che anche loro erano <chiamati> per essere degli <eletti> nel compimento dell’opera salvifica di Dio... Certo i Padri, e Gregorio è uno di loro, non potettero fare a meno della civiltà romana, perché era in quel clima e in quell’atmosfera che essi nascevano, ma per loro si trattava soltanto di una cornice e di una strada su cui camminare. Se invece interroghiamo il contenuto del quadro e chi è di fatto che cammina e come cammina, allora non troviamo più l’<occidente> e l’imperialismo romano, ma il profeta della Chiesa che, con la stessa coscienza dei profeti biblici, si lascia portare dallo Spirito e profetizza sui tempi nuovi e sui nuovi popoli, cosciente di completare ciò che la Divina Scrittura dice del primo Israele...

Nella conversione degli Angli, dei Germani, dei Longobardi che si univano così ai <poveri romani>, Gregorio vedeva - conclude lo studioso camaldolese - il momento propizio per il canto dell’<alleluia> che dall’Antico Israele veniva trasmesso ai barbari, considerati in questo senso <nuovo> Israele. Non si tratta dunque di un semplice processo storico naturale, ma è il frutto di una mozione illuminata dello Spirito, che fa comprendere il tempo della maturazione degli altri popoli, cioé il <kairòs>, il tempo opportuno della loro salvezza. Questo è l’<evangelium> classico, questa è la perseverante prospettiva profetica della Chiesa. La meditazione sapienziale della Bibbia, intesa come unità dei Testamenti con la vita della Chiesa, dà infine ad essa la sicurezza profetica che non deve legarsi e incarnarsi mondanamente nelle forme transitorie di cultura e di civiltà, ma tenersi sempre in uno stato di <esodo> per il continuo ingresso in nuove <terre promesse> che l’attendono pur permeando, con la sua presenza <in mistero> ogni cosa” (o.c., pp. 11-23 passim).

3. I brani più significativi
L’apostolicità del modo di essere dei quaranta monaci celimontani, sotto la guida di Agostino, non poteva non essere accompagnata dalla stessa fecondità sperimentata dagli Apostoli a Gerusalemme.

Scrive il venerabile Beda:
“Molti cominciarono ad affluire ogni giorno per ascoltare la parola e, abbandonata la religione pagana, credettero e si unirono alla santa Chiesa di Cristo. Si dice che il re, pur rallegrandosi della loro fede e conversione, tuttavia non costringesse nessuno al cristianesimo; soltanto abbracciava di un amore più vivo i credenti, quasi suoi concittadini del regno dei cieli. Infatti aveva appreso dai maestri e autori della sua conversione che il servizio di Cristo deve essere volontario e non coatto. Né indugiò, ma donò a quei dottori una sede consona a Doruvernis (Canterbury), che era la sua capitale” (o.c., p.76).

I monaci romani avevano appreso dunque molto bene l’insegnamento di Papa Gregorio sull’autentico modo apostolico di annunziare il Vangelo, cioé di farlo anzitutto vivendolo, e di essere estremamente rispettosi e discreti nel proporre la fede cristiana in modo che non vi fosse alcuna imposizione, ma solo una sollecitazione dell’apertura libera del cuore.

Né un Papa ecumenico, come da tutti viene riconosciuto Gregorio Magno, avrebbe potuto insegnar loro altrimenti. Agostino, a onor del vero, non sembra che abbia applicato sempre adeguatamente questa parte dell’insegnamento di Papa Gregorio. Ma a parte le intemperanze caratteriali del primo Arcivescovo di Canterbury, e probabilmente anche di altri suoi confratelli partiti da Roma, che cosa si può dedurre dal <libellus> sul progetto e sui metodi intesi da Gregorio quando inviò e poi seguì con estrema attenzione i suoi monaci evangelizzatori degli Angli?

Le risposte di Gregorio alla prima domanda formulata da Agostino al suo ritorno dalla consacrazione episcopale rimanda anzitutto all’insegnamento apostolico costituito sia dai loro scritti sia dal loro concreto esempio di vita:

“Devi istituire la regola, che fu già dei nostri padri all’inizio della Chiesa nascente: <tra di loro nessuno diceva suo qualcosa di ciò che possedevano, ma avevano tutto in comune>...troviamo scritto che si divideva fra tutti a seconda del bisogno di ognuno” (o.c., p.78).

La risposta di Gregorio alla seconda domanda di Agostino relativa all’atteggiamento da adottare nei confronti delle <diverse consuetudini delle chiese> aggiunge, scendendo maggiormente nel pratico:

“Conosci fratello l’uso della chiesa romana, nella quale ben ricordi di essere stato educato. Ma sono del parere che tu con sollecitudine debba scegliere ciò che avrai trovato, sia nella chiesa romana che in quelle della Gallia, e in qualsiasi altra, che possa essere più gradito a Dio onnipotente, introducendo e istituzionalizzando nella chiesa degli Angli, che è ancora nuova nella fede, gli usi più importanti che avrai appreso da altre chiese”.

Gregorio stabilisce poi un principio fondamentale:
“Non si deve preferire una cosa in ragione del luogo, ma i luoghi in ragione delle buone cose che vi sono. Perciò scegli - conclude il papa di Roma - da ogni singola chiesa gli usi retti, pii, religiosi e questi deponili, come raccolti in un <bouquet>, nella mente degli Angli, perché diventino una consuetudine” (o.c., pp.78-79).

E a proposito del codice penale Gregorio stabilisce infine che:
“è dalla persona del ladro che devi valutare in che modo debba essere corretto” facendo seguire la sua disposizione da un richiamo squisitamente evangelico alla carità anche nel caso in cui si debba far valere il rigore del codice penale: “Anche quando si punisce severamente bisogna agire con carità, non spinti dall’ira, ...come i buoni padri sono soliti fare con i figli”. In modo che sia “la carità a suggerire la misura della punizione per evitare di compiere alcunché che non sia ragionevole”. Né succeda che l’offeso “riceva di più di quanto ha perduto” (o.c., pp.79-80).

Un metodo che rivela un’attenzione squisitamente neotestamentaria nell’amministrazione della giustizia, dal momento che pone anzitutto la centralità della persona, da giudicare sempre “con carità”.

Che se poi ci si debba piegare sapienzialmente alle esigenze della giustizia, lo si faccia ricordando che appunto di giustizia si deve trattare e non invece di vendetta causata dall’ira o, peggio ancora, di un’occasione opportuna per incrudelire sull’avversario pretendendo “più di quanto è stato sottratto”.

La sapienza dell’autore della <Regula Pastoralis> sintetizza da par suo, con le stesse premesse, anche una serie di criteri ai quali attenersi nei casi assai delicati relativi al matrimonio tra fratelli o consanguinei, dal momento che conclude: “La santa chiesa in questa vita terrena corregge con fermezza alcuni peccati, altri li tollera per clemenza, altri li nasconde per riguardo e sopporta e dissimula, sì che spesso riesce a tenere a freno il male che combatte sopportando e dissimulando” (o.c.,p.81; cfr anche la risposta all’ottava domanda di Agostino sul caso della donna incinta che chiede l’amministrazione di un sacramento: o.c., pp.84-90; e alla nona domanda circa la polluzione che suole verificarsi durante il sonno: o.c., pp.90-93).

Un’attenzione alla persona, vista anche nel suo diritto alla felicità, come si può facilmente dedurre dalle motivazioni che Gregorio porta per spiegare la necessità di una concertazione fra diversi vescovi nella consacrazione di uno di loro:

“Per disporre le cose dello spirito con prontezza e saggezza possiamo trarre esempio anche dalle cose della carne. Quando infatti si celebrano matrimoni nel mondo, vengono invitate alcune persone già sposate, perché coloro che hanno preceduto gli sposi nella via del matrimonio si uniscano alla gioia dell’unione successiva. Perché allora anche nell’ordinazione spirituale, con la quale l’uomo si unisce a Dio per mezzo del sacro ministero non dovrebbe essere presente chi possa godere per il progresso spirituale del vescovo che viene ordinato, ed effondere preghiere a Dio onnipotente perché lo protegga?” (o.c.,p.82).

Ma soprattutto un’attenzione alla persona che metta in guardia dalla pretesa di “mettere la falce del giudizio in una messe che è stata affidata a un altro” (o.c. p.83) stabilendo un principio ecclesiologico di enorme portata che suona nella pratica così:

“Qualsiasi cosa si debba fare con autorità, venga fatta d’accordo col vescovo territoriale (Arles), perché non sia omesso ciò che ha disposto l’antica istituzione dei padri” (o.c.,p. 84).

La sintesi che chiude la risposta di Gregorio alla nona domanda di Agostino è un breve trattato sulla psicologia del peccato che riassume le analisi altrettanto precise dei Padri spirituali greci e rilancia un insegnamento che rimarrà patrimonio prezioso di tutta la cristianità medievale:

“Ogni peccato si compe in tre modi, per suggestione, per piacere o per consenso. La suggestione viene per opera del diavolo. Il piacere a causa della carne. Il consenso per opera dello spirito. Infatti la prima colpa la ispirò il serpente. Eva fu allettata come carne. Adamo invece acconsentì come spirito. Perciò è necessario discernere attentamente, sì che l’animo sia giudice di se stesso tra suggestione e diletto, diletto e consenso.

Quando lo spirito maligno ispira il peccato alla mente, se non segue alcun piacerea causa del peccato, il peccato non è stato in alcun modo compiuto. Quando invece la carne comincia a godere, allora il peccato comincia a nascere. Se poi uno consente anche deliberatamente, allora è evidente che il peccato è stato compiuto. Quando pertanto la mente è sotto la suggestione del peccato, se ne trae piacere lo nutre, se acconsente lo compie fino in fondo. E spesso avviene che la carne tragga diletto da ciò che lo spirito maligno semina nel pensiero, e tuttavia la mente non acconsente a questo piacere.

D’altra parte, poiché la carne non può trarre diletto senza la mente, la mente, anche se riluttante ai piaceri della carne, in qualche modo è avvinta contro voglia al godimento carnale, sì che razionalmente si oppone al consenso e tuttavia resta avvinta al piacere, e geme fortemente di essere avvinta. Perciò anche quell’eccezionale soldato dell’esercito celeste (Paolo) gemendo diceva: <Vedo un’altra legge nelle mie membra, che si oppone alla legge della mente e mi conduce prigioniero nella legge del peccato, che è nelle mie membra> (Rom 7,23). Ma se era prigioniero non poteva combattere, e invece combatteva; perciò era prigioniero e combatteva contro la legge della mente, cui si opponeva la legge che è nel corpo. Ma se combatteva non era prigioniero. Ecco perciò che l’uomo, come ho detto, è insieme prigioniero e libero; libero per la giustizia che ama; prigioniero, per il piacere che sopporta contro voglia” (o.c., pp.92-93).

La presenza dello spirito di Gregorio Magno
Un esempio straordinario della presenza e dello sviluppo dello spirito monastico ‘gregoriano’ si ha senza dubbio nella figura di Winfrido Bonifacio di Fulda del quale ci piace riportare appena qualche breve testo significativo di carattere biografico.

Scrive per esempio Willibaldo, primo biografo del monaco Bonifacio, a proposito del suo eroe:
“Unito in comunione di spirito con gli altri servi di Dio, Winfrido prestò devoto servizio al Signore, partecipando con assidua attività alle veglie sacre e applicandosi alla lettura delle Scritture divine, che meditava con immensa passione, tanto che finì per distinguersi lodevolmente per la grandissima erudizione nelle Scritture e per l’abilità nell’esporle.Era assai istruito nell’arte grammaticale e nella modulazione appassionata e facile dei metri, nella semplice esposizione della storia e nella maniera tripartita dell’interpretazione spirituale dei testi.Poté infine essere anche per altri maestro delle paterne tradizioni e capace di insegnare, lui che prima, come discepolo, non ricusava di essere nel novero di coloro che sono soggetti a un maestro...

Crebbe talmente in lui l’affabilità verso i fratelli e la richezza della sua dottrina nelle cose celesti, che si diffuse sempre più la fama dei suoi santi discorsi in molti monasteri, sia di uomini, sia di vergini di Cristo. Moltissimi monaci, dotati di maggiori possibilità per la loro libertà e forza virile, spronati da un vivo desiderio di leggere le Scriture, affluivano presso di lui e, attingendo a una fonte saluberrima di scienza, leggevano ed esaminavano molti volumi delle Scritture. Ma le monache, appartenenti al sesso debole, alle quali era negata la possibilità di avvicinarlo spesso, ispirate dall’amore divino, fecero in modo che fosse loro presentato quest’uomo così sapiente e, leggendo i suoi scritti, si dedicarono prontamente alla stessa ricerca delle cose divine, meditando i misteri segreti di Dio” (Vita e lettere di san Bonifacio, Traduzione, introduzione, note di Enrica Mascherpa, Edizioni La Scala, Noci (Bari) 1991, pp.59-63 passim).

“La grazia di Dio lo elevò così in alto – prosegue il biografo - che, secondo l’insegnamento e l’ammonimento dell’egregio dottore delle genti, prendendo come modello le sane parole con la fede e la carità che sono in Gesù Cristo, con sollecitudine, si sforzò di presentarsi davanti a Dio come un uomo degno di approvazione, un lavoratore che non ha di che vergognarsi, uno scrupoloso dispensatore della parola di verità.

Progredendo felicemente per l’ardua via che conduce alla conoscenza delle cose celesti, ispirandosi all’esempio dei santi, egli offrì ai popoli, come precursore, una linea direttiva: aprì la porta del Signore Dio nostro, per cui entreranno i giusti, dopo esservi penetrato egli stesso. Dall’infanzia fino all’età avanzata, imitò in modo non comune la sapienza dei padri che lo avvano preceduto, mentre studiava a memoria continuamente ogni giorno le parole scritte, per ispirazione divina, dai profeti e dagli apostoli, gli scritti che narravano la gloriosa passione dei martiri, come pure la tradizione evangelica del Signore nostro Dio e, secondo l’avvertimento dell’apostolo, <sia che mangiasse, sia che bevesse, sia che facesse qualche altra cosa>, offriva a Dio, tanto con la mente che con la bocca, lodi e gloria con devota esultanza, secondo quanto dice lo scrittore di un salmo: <Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode>.

Nutrì un amore così ardente per le Sacre Scritture, che molto spesso e con ogni sforzo cercava di ascoltarle traendone esempi da imitare e ciò che è stato scritto ad ammaestramento dei popoli rielaborò con mirabile sapienza e con abilissimo uso di immagini, predicando con efficacia” (o.c.,pp.65-66).

Sulla precocissima vocazione monastica di Winfrido si innestò assai presto una prepotente vocazione alla <peregrinatio> già caratteristica dei monaci contigui d’Irlanda. L’<estraneamento> (la xenìa della tradizione monastica greca) cominciò ad essere ricercata soprattutto come sradicamento dalla propria patria con conseguente partenza per terre lontane che potevano coincidere con lunghi pellegrinaggi verso santuari famosi come le tombe degli Apostoli a Roma, oppure con l’insediamento monastico in terre di missione dove i monaci si stabilivano senza pensare più a ritornare in patria. Una <peregrinatio< in cui si trovavano sintetizzati alcuni valori cristiani fondamentali come l’esilio, la predicazione e il martirio. (Cf. J.Leclercq, Aux sources de la spiritualité occidentale, VI, Paris 1964, p.64; indicato da E.Mascherpa, o.c., p.73).

Lo stile di Papa Gregorio sembra che si sia inciso, quasi, nelle mura stesse del suo monastero romano. Sembra incredibile, eppure il monastero di San Gregorio al Celio non ha mai cessato, in quattordici secoli, di essere luogo per antonomasia della preghiera monastica, dell’accoglienza dei poveri e dei perseguitati, e della disponibilità ecumenica, fino ai nostri giorni.

Quando nel corso dei secoli ottavo e nono, per esempio, esplose nell’impero bizantino, e soprattutto nella città imperiale di Costantinopoli, la crisi iconoclasta, con conseguenti persecuzioni feroci nei confronti di monaci e artisti che non intendevano rinunziare a produrre e a venerare le sante icone, il monastero romano di San Gregorio al Celio, divenne luogo sicuro e pacifico in cui monaci orientali e occidentali poterono perseguire nel loro impegno artistico e religioso senza alcun disturbo e con l’aggiunta di un arricchimento reciproco che li portò a verificare in concreto la verità del famoso versetto salmodico: “guardate com’è bello stare tra fratelli!”.

La vocazione ecumenica del monastero gregoriano del Celio ha proseguito a svilupparsi lungo i secoli, anche quando tutto intorno nella cristianità esplodevano incomprensioni più o meno gravi accompagnate da tragiche fratture e divisioni e guerre fratricide. La documentazione, leggibile nelle lapidi che ancora oggi arricchiscono il bellissimo chiostro barocco dell’ingresso alla Chiesa di San Gregorio al Celio, ne è testimonianza viva.

In tempi recentissimi, a partire soprattutto dagli anni del Concilio Vaticano II, il monastero di San Gregorio al Celio divenne sempre più frequentemente meta di pellegrinaggi ecumenici e luogo di dialogo fra le diverse componenti teologiche e spirituali della Chiesa cattolica. Possiamo ricordare nome famosi come Giuseppe Dossetti, Davide Turoldo, Ernesto Balducci, Giuseppe Lazzati e Cipriano Vagaggini. Ma se ne dovrebbero aggiungere molti, molti altri.

Monaci impegnati nell’ecumenismo, come fratel Roger Schutz di Taizé, non poterono fare a meno di incontrare sulla loro strada a Roma il monastero di San Gregorio al Celio.

Un’intera congregazione anglicana, quella di Holy Cross stabilì, agli inizi degli anni settanta del XX secolo, un vero e proprio gemellaggio con la comunità monastica gregoriana che fra l’altro si sviluppò in una joint community, a Berkeley in California (USA).

Amici dei monaci camaldolesi, cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei, isalmici, o semplicemente <laici>, hanno fatto di San Gregorio al Celio il luogo discreto e sereno di una comunicazione dialogica estremamente seria sia dal punto di vista culturale che spirituale.

Negli anni novanta del secolo scorso si è tetnatato di dare inizio, nel monastero di Gregorio ad una piccola realtà monastica cattolica di rito greco-romeno. E qualcosa di quel tentativo sta andando avanti, sia pure con enorme fatica, ma con tutto l’appoggio spirituale possibile da parte dei monaci residenti a Roma, nel Maramures in Romania. Il signora sa quali potranno esssere o meno i suoi sviluppi.

In verità sembra, in ogni caso, che il monastero di San Gregorio al Celio abbia avuto nei secoli passati, e prosegua ad esercitare anche oggi, una sorta di supplenza provvidenziale in favore di movimenti e persone in difficoltà, che trovano nella casa di Gregorio Magno la possibilità di prepararsi seriamente e serenamente a missioni più impegnative nella realizzazione del progetto misterioso di Dio.

Cominciarono a vivere questa provvidenziale provvisorietà della presenza nella casa di Gregorio i quaranta monaci inviati come missionari nella terra degli Angli.

Proseguirono nella stessa esperienza i monaci bizantini che fuggivano la persecuzione iconoclasta.

Il Medioevo vide addirittura dei conclavi, famoso quello dal quale risultò eletto Papa Innocenzo III, trovare rifugio sicuro fra le mura del monastero celimontano.

Dalla comunità dei monaci camaldolesi di San Gregorio al Celio fu scelto un papa (Gregorio XVI) in tempi assai difficili per la Chiesa cattolica. Basti pensare che si era negli anni immediatamente successivi alla Rivoluzione Francese e alla cosiddtta bufera napoleonica, ma anche negli anni della Repubblica Romana e della crisi definitiva dello Stato Pontificio! Nonostante la sua difesa ad oltranza della tradizione ecclesiatica romana papa Gregorio XVI, ricordando la sensibilità missionaria del suo antico predecessore, del quale aveva con venerazione il nome, fu il primo ad aprire in modo deciso la possibilità di un clero e dunque di una gerarchia autoctona ai popoli nuovi dei paesi lontani dell’Africa nera e dell’Asia raggiuntio dai missionari cattolici.

Negli anni bui dell’occupazione tedesca il monastero camaldolese fece la sua parte, insieme a mille altre realtà religiose romane, nel nascondere gli ebrei romani per sottrarli alla persecuzione nazista.

Più recentemente il monastero di San Gregorio ha accolto i primi passi della Comunità di Sant’Egidio, in tempi critici per quella comunità. E negli ultimi anni ha dato origine agli Incontri Celimontani intesi come forum in cui scienziati dei diversi ambiti del sapere possano esporre i risultati delle proprie ricerche ed aprirle al pubblico dibattito, senza condizionamenti di alcun tipo.

Dopo aver ospitato per decenni, su impulso di Mons. Montini (Paolo VI), dei giovani universitari, cattolici e non, in difficoltà economica, il monastero camaldolese romano ha favorito la presenza nella sua ex foresteria, adesso di proprietà del comune di Romaa, delle Missionarie della carità di Madre Teresa di Calcutta, perché trovassero in Roma un luogo, sia pure provvisorio, per esercitare il loro prezioso servizio in favore dei poveri.

Infine può essere opportuno ricordare che alcuni Arcivescovi di Canterbury non hanno mancato di compiere un devoto pellegrinaggio alla Casa Madre della loro Chiesa Anglicana durante loro visite ufficiali alla Chiesa di Roma e al Papa. Ultima, in ordine di tempo, è stata la solenne celebrazione del vespro compiuta nella Chiesa di San Gregorio, alla presenza del Papa Giovanni Paolo II, di Sua Grazia Dr.George Leonard Carey la sera del 5 dicembre 1996.

L’accoglienza, che per i monaci benedettini camaldolesi, eredi di Gregorio Magno fin dal lontano 1500, costituisce un loro carisma particolare, è viva e vitale dunque ancora oggi, a ben quattordici secoli di distanza.

Per chi fosse interessato al particolare modo di vivere la vita monastica nella tradizione di Gregorio Magno, può essere utile infine ricordare che dall’ultimo Capitolo Generale dei Monaci Benedettini Camaldolesi (2005), la casa di San Gregorio al Celio è stata eretta a Priorato con diritto a ricevere novizi e professi. Il che significa che , grazie alla tradizionale <stabilitas> benedettina, chi chiede di essere monaco a San Gregorio al Celio è garantito in modo costituzionale a poter vivere la propria vita monastica fra le mura benedette della casa del patrizio Gregorio della Gens Anicia, del ceto senatoriale di Roma.

Padre Innocenzo Gargano

igargan@tiscalinet.it

 

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Priore Monastero

San Gregorio al Celio

P.za san Gregorio 1

00184 Roma

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