Pubblicato su:
UUJ/Urbaniana University Journal
Nova Series
LXVII 3/2014
(Articolo per EUNTES
DOCETE entro la fine di settembre 2014)
Guido Innocenzo Gargano camaldolese
Una premessa
L’ipotesi, ma
anche la sfida, da cui parto in questo mio intervento, è che, essendo Dio, nella Tradizione
ebraico-cristiana, simultaneamente giusto e misericordioso, non sia mai possibile, in questa Tradizione, vivere la
propria fede senza che il comportamento del credente sia in armonia con la
volontà di Dio coniugando a sua volta simultaneamente giustizia e misericordia. E suppongo anche che campo per eccellenza per
affrontare questa problematica altamente teologica, e quindi non semplicemente
giuridica, sia quella che oggi attiene al rapporto di coppia tra coniugi legati
sacramentalmente nel matrimonio. Tutti, in teologia, sono concordi che, trattandosi di un
sacramento, c’è in questo legame coniugale una parte che appartiene a Dio e una
parte che appartiene all’uomo. E tutti sono analogamente concordi nel
comprendere questo legame alla luce del mistero dell’unione di Cristo con la
Chiesa, così come concordano che, all’origine di questo particolarissimo legame,
stanno i due misteri principali della fede cristiana ortodossa e cioè: Unità e Trinità di Dio; Incarnazione,
passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo Figlio di Dio e nostro Signore.
Tutto
questo dovrebbe significare che, quale che possa essere un problema teologico
dibattuto all’interno della fede cristiana, esso non possa essere risolto se
non tenendo conto di questi due Misteri principali, appunto, della nostra fede.
Ma questo comporterebbe anche che in ogni manifestazione della fede cristiana
si debba verificare, sempre e in che misura, vi sia o meno armonia appunto con
i Misteri principali della fede. In particolare, si dovrebbe aggiungere che, a
proposito del sacramento del matrimonio, non si potrà mai risolvere alcun
problema prescindendo dal fatto che la coppia cristiana debba essere sempre, in
ogni sua manifestazione, una sorta di immagine (eikona nel senso di <già> e <non
ancora>) dei due Misteri principali della nostra fede proposti e approfonditi con
lo studio della Triadologia e della Cristologia.
La problematica
relativa al rapporto tra due coniugi legati dal sacramento del matrimonio,
discussa con i due presupposti appena accennati, sarebbe enorme. E dunque in questo intervento non posso che
indicarne appena qualche aspetto. Cosa che farò leggendo il tutto alla luce del
riferimento alla visione di un Dio, simultaneamente giusto e misericordioso,
che sta all’origine dell’intera problematica teologica ebraico-cristiana (Cfr Es 34,6-7).
Prendo come punto di partenza di questo intervento il testo di Mt 19, 3-12 che riporto dividendolo in due parti (una prima,
composta da Mt 19, 3-9, e una seconda,
più breve, composta da Mt 19, 10-12).
1.
Mt 19, 3-9
“Allora gli si
avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: <E’ lecito
a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?> Egli rispose.
<Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e
i due diventeranno una sola carne? Così non sono più due, ma una sola
carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto>. Gli
domandarono: <Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di
ripudiarla?>. Rispose loro: <Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha
permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. Ma io vi
dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima,
e ne sposa un’altra, commette adulterio>”.
Gli Esseni Moderati e
Gesù
A proposito di questa pericope, abbastanza complessa,
richiamo appena due contesti che potrebbero aiutare non poco a partire da una
prospettiva più adeguata nell’osservare l’insieme della problematica.
Il primo è dato
dall’ipotesi di una appartenenza di Gesù di Nazareth alla corrente degli Enochichi con particolare riferimento ai
cosiddetti Esseni Moderati, a
proposito dei quali sappiamo adesso qualcosa di più grazie agli studi che, a
partire da Paolo Sacchi[1]
e dai suoi discepoli, in particolare Gabriele Boccaccini[2],
si stanno sviluppando a livello internazionale[3].
Questa ipotesi imporrebbe una maggiore attenzione al contesto culturale e
religioso in cui agiva Gesù di Nazareth e, soprattutto, al dibattito sull’autorità
e autorevolezza delle due Leggi ritenute allora fondamentali in Israele: quella
inscritta nelle stelle e quella inscritta nelle tavole mosaiche.
A quale delle due bisognava dare il primato? E inoltre: la
legge mosaica aboliva, confermava o interpretava quella inscritta nelle stelle?
Le risposte eventualmente date non erano prive di conseguenze, soprattutto nel
comportamento pratico. Infatti la Legge inscritta nelle stelle aveva la qualità
di essere considerata eterna e solida per sempre, perché ritenuta stabile ed
eterna come le stelle, e stava alle origini della divisione del tempo, delle
prescrizioni della vita pratica scandita dalle stagioni, nell’alternanza del
giorno e della notte, nel succedersi delle settimane, nella diposizione delle
feste, nelle prescrizioni rituali di ogni tipo etc[4].
La Legge inscritta nelle tavole di pietra di Mosè era considerata invece,
nonostante il suo pieno inserimento nella prima, come caratterizzata dal legame
con la storia sia del popolo che del singolo membro del popolo, comprese le situazioni di limite e di peccato delle
quali doveva necessariamente tener conto e verso le quali si piegava con quella
accondiscendenza che Mosè aveva imparato dal modo di agire di Dio che era
insieme giusto e misericordioso, ma con un primato (vogliamo chiamarlo morale?)
della misericordia rispetto alla giustizia. In realtà la Legge promulgata e
applicata da Mosè non fu mai quella delle prime tavole, quelle celesti, ridotte
in pezzi dallo stesso Mosè, ma fu quella delle seconde tavole incise sulle due
pietre che tenevano realisticamente conto
della storia dell’uomo. Non solo, ma
quelle stesse seconde tavole avevano avuto bisogno, e ne hanno ancora bisogno
oggi nella tradizione ebraica, della cosiddetta Legge orale ricevuta nella
trasmissione interpretativa che passava da maestro a maestro, a partire appunto
dall’interpretazione data dallo stesso Mosè.
Da qui il secondo punto di contestualizzazione: Gesù da che
parte stava? E, soprattutto, che significato avevano le sue esplicite
interpretazioni del testo della Torà mosaica e della tradizione orale ad essa
corrispondenti, quando introduceva – almeno secondo l’evangelista Matteo – le
sue interpretazioni con la formula stereotipata: <Avete inteso che fu detto>… seguito da: <Ma io vi dico> (Mt 5,
21-44 passim), di cui abbiamo una eco
anche nel testo da cui siamo partiti in Mt
19,9?[5]
Punto che non può fare a meno di tener conto di parole molto
nette di Gesù che dichiara in Mt 5,
17-19:
“Non crediate che io
sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a
dare compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la
terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto
sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e
insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei
cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel
regno dei cieli”.
Simili parole di Gesù potrebbero tradire la presenza di
un’eco della polemica contemporanea che distingueva la posizione degli Esseni Moderati dalla posizione di altri
movimenti di pensiero interni ad Israele.
Inserendosi in questi dibattiti, come sembra ovvio, Gesù non prende una
posizione alternativa netta, ma anzi cerca di collegarsi con pari rispetto a
tutte e tre le tradizioni: la Legge
inscritta nelle stelle, quella incisa da Mosè sulle pietre, e quella cosiddetta
orale. Che Gesù non intendesse polemizzare in queste cose lo si può dedurre
anche da ciò che lui stesso dichiara, come abbiamo visto, in Mt 5,17: <Non
sono venuto ad abolire, ma a dare compimento> (Mt 5,17), con l’aggiunta che precisa: “finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota
o un trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto” (Mt 5,18).
Dunque Gesù non abolisce nulla, ma conferma. E tuttavia si
deve aggiungere inevitabilmente qualche precisazione in più. Infatti ci si può
subito chiedere: a quale perennità o stabilità della Legge si riferisce Gesù?
Si può essere sicuri che si riferisca alla Legge mosaica? Oppure si riferisce anche
alla Legge inscritta nelle stelle? E, terzo, quale era la sua posizione a
proposito della Legge orale? Dovremmo forse concludere che il maestro di
Nazareth si riferisce a tutte e tre? E se Gesù privilegiasse soprattutto il
confronto con la Legge orale, perché caratterizzata dalle interpretazioni e
attualizzazioni costanti che sono presenti da sempre in Israele[6],
cosa dedurne per una comprensione adeguata non soltanto della dichiarazione presente in Mt 5,17, ma anche del colore di fondo
con cui leggere tutto il suo discorso
della montagna? In tutte queste ipotesi restiamo comunque posti di fronte
ad una serie di interrogativi che non si può fare a meno di tenere presenti se
si vuole abbozzare una qualche risposta, comprensibile anche per noi oggi,
nella nostra contemporaneità
Intanto dobbiamo cercare di capire subito cosa significhi
<dare compimento> (plērōsai)[7].
Si tratta di ciò che noi identifichiamo appunto con il vocabolo <compimento> (secondo la traduzione
della CEI)? Si tratta di <completamento>, vocabolo che potrebbe orientare anche verso una sorta
di <complementarietà> delle due/tre Leggi, senza porle necessariamente in
contrapposizione tra di loro? Oppure si tratta di un invito a considerare con
realismo la situazione umana verso la quale si orienterebbe Gesù stesso nel
legare sistematicamente la perennità della Legge inscritta nelle stelle con
l’accondiscendenza della Legge scritta/orale di Mosè alla debolezza dell’uomo?
La motivazione con cui Gesù richiama l’accondiscendenza di Mosè è molto
significativa, a questo proposito. Infatti Gesù stesso spiega che Mosè ha
piegato le esigenze della Legge inscritta nella natura delle cose fin dal
principio per la durezza del vostro cuore
(Mt 19,8), cioè per tener conto
della capacità di comprensione dell’uomo. Infatti sembra che Gesù non abbia
fatto altro che porre i suoi interlocutori di fronte alla constatazione che
Mosè stesso, scolpendo le seconde tavole sulle pietre (cfr Es 32, 15-19 + Es 34,
1. 4-7) avrebbe, sia pure obtorto collo,
preso atto della durezza del cuore, accondiscendendo ad essa, senza tuttavia
rinunziare a regolare il tutto con realismo, attraverso la richiesta della
sottoscrizione di un atto di ripudio.
Le due Tavole di Mosè
La differenza tra le prime e le seconde tavole ricevute da
Mosè sul Sinai diviene a questo punto molto importante. Infatti delle prime tavole
si dice che erano “tavole scritte sui due lati, da una parte e
dall’altra” (Es 32,15); e inoltre
che “Le tavole erano opera di Dio, la
scrittura era scrittura di Dio, scolpita sulle tavole” (Es 15, 16). Delle seconde tavole invece
si dice che “Il Signore disse a Mosè:
<Taglia due tavole di pietra come le prime. Io scriverò su queste tavole le
parole che erano sulle tavole di prima, che hai spezzato>” (Es 34, 1). Apparentemente sembra che si
tratti delle stesse tavole, ma in realtà altro erano le tavole opera di Dio e altro erano le due tavole di pietra che Mosè si era
dovuto costruire da sé, sia pure su comando di Dio. E’ ancora più importante
tenere presente che è con queste seconde
tavole che Mosè sale sul monte Sinai per stipulare l’alleanza. Dice il
testo dell’Esodo: “Mosè tagliò due tavole
di pietra come le prime; si alzò di buon mattino e salì sul monte Sinai, come
il Signore gli aveva comandato, con le due tavole di pietra in mano” (Es 34, 4).
E non si tratta soltanto di questo, perché occorre aggiungere
che è proprio attraverso queste seconde tavole che si stabilisce l’alleanza
sinaitica. Prosegue infatti il testo dell’Esodo: “Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui (Mosè),
proclamando: <Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento
all’ira e ricco di amore e di fedeltà, che conserva il suo amore per mille
generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia
senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli
fino alla terza e alla quarta generazione>. Mosè si curvò in fretta fino a
terra e si prostrò. Disse: <Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, Signore, che
il Signore cammini in mezzo a noi. Si, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e
il nostro peccato: fa di noi la tua eredità>” (Es 34, 5-9).[8]
Le conseguenze di una
scelta
Vorrei suggerire che prendere posizione per l’una o l’altra
di queste alternative non è senza conseguenze. Infatti è dalla risposta che si
dà all’una o all’altra di queste alternative che si avrà la possibilità di
chiarire:
a) quale interpretazione dare all’espressione di Gesù in Mt 5,17: Non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento;
b) come valutare il riferimento alla durezza del cuore in Mt 19,8a: Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso;
c) quale forza dovrà avere l’osservazione di Gesù in Mt 19, 8c: all’inizio non era così.
Per tentare di
compiere un passo avanti nella riflessione su questa serie di
interrogativi richiamo anzitutto la
possibilità o meno di stabilire una connessione tra ciò che si leggerà in Mt 19,11 e ciò che Gesù stesso aveva dichiarato
in Mt 5, 19: Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà
agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi
invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
La prima osservazione che si impone, a questo proposito, è
che in Mt 5,19 Gesù non parla di <esclusione> dal regno dei cieli, ma soltanto
di situazione di minimo o di grande nel regno dei cieli. L’osservazione
ha una sua importanza perché Gesù, immediatamente dopo, e cioè in Mt 5,
20, dichiarerà con una certa solennità: Io
vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei
farisei, non entrerete nel regno dei cieli, escludendo in modo esplicito (non entrerete/ ou mē eiselthēte), in
questo secondo caso, dal regno dei cieli coloro che si fermano semplicemente
alla giustizia perseguita dai farisei
e non riescono ad andare oltre fino a scoprire la misericordia, agendo di conseguenza.
Il fatto che Matteo distingua l’essere nel regno dei cieli dal
non entrarci affatto, non può essere senza importanza. In realtà l’evangelista
ci fa sapere, con questa sua distinzione, che ci sono dei precetti minimi la
cui osservanza o meno non toglie del tutto la possibilità di entrare nel regno
e ci sono invece degli atteggiamenti di
fondo che possono escludere totalmente dall’entrare nel regno e che, tra questi
atteggiamenti, ci sono proprio quelli dei farisei i quali, come ben sappiamo da
tutto il dibattito tra loro e i discepoli di Gesù, intendevano difendere
soprattutto, o forse unicamente, gli aspetti legati alla giustizia
relativizzando, e perfino escludendo, quelli legati alla misericordia. Da qui la deduzione ovvia dell’esistenza di
una sorta di gerarchia dei valori. Ci sono cioè, per Matteo, alcuni valori che
permettono di entrare nel regno di Dio, pur venendo considerati piccoli o
grandi, e ci sono altri valori che, se disattesi, escludono totalmente dal
regno e, tra questi ultimi, ci sono proprio quei valori che pretendono di
tenere conto della giustizia, intesa in modo farisaico, senza considerare con
altrettanto impegno la misericordia.
Adesso però dobbiamo anche chiederci di quali precetti stia
parlando il maestro e capire se si tratta soltanto dell’osservanza della Torà
scritta/orale con il contorno della siepe delle cosiddette <mitzvòt>; oppure se il maestro di
Nazareth intenda comprendere anche certi precetti intesi piuttosto come
concessioni, tipo quella di usufruire del permesso di ripudiare la propria
moglie, a condizione che venga scritto l’atto
di ripudio come prescrive il testo di
Dt 24,1.
All’inizio non era così
La sottoscrizione dell’atto prescritto da Mosè, ritenuta
sufficiente per restare parte del popolo di Dio, potrebbe essere intesa come
un’osservanza di quei precetti minimi
che non escludono dal regno pur caratterizzando come minimo colui che vi entra per questa strada. E questo stabilirebbe
la differenza rispetto a coloro che, cercando nella Torà scritta/orale unicamente
la giustizia senza aprirla alla misericordia, ne resterebbero inevitabilmente fuori. Questi ultimi infatti si ritroverebbero in
compagnia di coloro che, non interpretando come concessione misericordiosa la
richiesta dell’atto di ripudio, ma riducendola a pura formalità, o peggio
ancora cassandola, resterebbero fuori dal popolo, e quindi dal regno, come chi,
limitandosi alla semplice osservanza formale del precetto, oppure eliminandone
la caratteristica di accondiscendenza, non ne ha colto quella dimensione che va
oltre la semplice giustizia degli scribi e dei farisei, secondo il detto di
Gesù: “Se la vostra giustizia non
supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”
(Mt 5, 19b). Va da sé che ne resterebbero inevitabilmente
fuori anche tutti coloro che non intendessero dare alcuno spazio, con la loro
rigida applicazione della giustizia, a quella particolare accondiscendenza che Gesù richiede come scelta necessaria per
entrare nel regno. Cosa che succede soprattutto quando si agisce senza tener
conto delle conseguenze ovvie che ricadono, per esempio in un rapporto di
coppia, sulle spalle della persona più debole, esponendola all’adulterio o,
ancora peggio, imponendole un’unione adultera (Cfr Mt 5,32) che escluda del tutto la tenerezza che accompagna
necessariamente la misericordia.
Ritornando alla nostra intuizione iniziale potremmo così ritenere che l’insegnamento di Gesù metta
in stretta connessione l’intenzione del Creatore, richiamata dalle parole: all’inizio non era così (Mt 19, 8c), con la corretta
interpretazione dell’accondiscendenza voluta e decisa da Mosè: Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha
permesso (Mt 19,8a). E questo non
soltanto per non togliere nulla alla forza della dichiarazione di Gesù in Mt 5,17: Non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento, ma anche per
aggiungere il richiamo ad un insegnamento, costante nella tradizione cristiana,
che riguarda l’unità tra Dio Creatore e
Dio Redentore, uniti nel contemporaneo rispetto della giustizia e della misericordia, accompagnato dal primato,
appunto, della misericordia.
Il primato della
misericordia
La riflessione che abbiamo portato avanti finora non può fare
a meno di svilupparsi aggiungendo che, in questi casi, si è costretti sempre a
non restare soltanto all’esterno di una considerazione giuridica, ma a
considerare con la massima delicatezza possibile il coinvolgimento della
coscienza personale. Infatti siamo sempre e comunque di fronte ad una realtà
che cade sotto il principio morale sintetizzato dalla massima comune: De internis non iudicat Ecclesia. Da qui
la necessità di entrare in queste cose in punta di piedi con timore e tremore
come se si fosse di fronte a qualcosa di profondamente sacro e inviolabile,
tenendo conto di un principio al quale la tradizione cattolica ha sempre
richiamato gli operatori pastorali: Paenitenti
credendum est.
La risposta di Gesù sembra in realtà autorizzare proprio simili conclusioni.
Infatti a prima vista Gesù sembra escludere che, nel caso del divorzio, si
possa parlare di ingresso nel regno con il richiamo esplicito al testo di Gen 2, 24 che si rifà alla Legge inscritta nelle stelle:
<Non divida l’uomo quello che Dio ha
congiunto> (Mt 19,6). Quando
però, sollecitato dai suoi interlocutori che gli chiedono: <Perché allora Mosè ha ordinato l’atto di
ripudio e di ripudiarla> ( Mt
19, 7), Gesù cercando la motivazione di fondo di quel primo principio, si
accorge che di fatto quella prescrizione mosaica manifestava
un’accondiscendenza che è propria di Dio.
Da qui: da una parte la constatazione che Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso
di ripudiare le vostre mogli (Mt
19, 8); dall’altra l’assenza di qualsiasi decisione di cassare una simile
prescrizione mosaica coerente con ciò che ha già dichiarato solennemente nel
discorso della montagna: “Non crediate
che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire,
ma a dare pieno compimento” (Mt
5,17). Due atteggiamenti che escludono la possibilità di leggere la nostra
pericope da una prospettiva unicamente giuridica o, peggio ancora, tassativa,
come si è stati inclini a considerarla nella tradizione cristiana occidentale, e
in quella cattolica in particolare. In questo caso saremmo infatti di fronte ad
una interpretazione del testo che esulerebbe totalmente dal contesto globale
della vita e dell’insegnamento di Gesù, così come appare dal NT, e dal contesto
culturale e religioso in cui agiva ed insegnava il maestro di Nazareth, come
risulta dal linguaggio analogo a quello utilizzato da Matteo nel discorso della
montagna – compresa la frase stereotipata: ma
io vi dico (Mt 19,9). Non si può negare inoltre
che proprio l’accondiscendenza, e dunque il primato della misericordia,
caratterizzassero l’insegnamento di Gesù
distinguendolo da quello di tutti, o quasi, i maestri suoi
contemporanei. E’ lo stesso evangelista Matteo a documentarci, del resto, sulla
particolare gerarchia dei valori perseguita da Gesù nella risposta ai suoi interlocutori
che, in altre occasioni, lo accusavano con parole precise e dirette: “ <I
tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato> ai
quali rispondeva con parole altrettanto decise e dirette: <Non avete letto quello che fece Davide,
quando lui e i suoi compagni ebbero fame?...Se aveste compreso che cosa
significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato
persone senza colpa. Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato>” (Mt 12, 1-8 passim).
Premesso questo e chiedendosi se, secondo l’insegnamento e le
scelte di vita di Gesù, si possano dare situazioni nelle quali sia possibile agire
in modo difforme da ciò che prescrive la Legge inscritta nelle stelle,
regolandosi invece secondo la Legge inscritta nelle pietre da Mosè e
interpretata (Legge orale) dai Profeti, la risposta potrebbe essere: <Sì>.
Ad una condizione: che venga privilegiata la dinamicità della misericordia sulla
staticità della Legge. Infatti il costante insegnamento della Legge di Mosè e della
Tradizione interpretativa dei Profeti, fatta propria da Gesù di Nazareth, è che
si debba comunque privilegiare il valore della misericordia anche a scapito del
riferimento ad una Legge scritta che non dovesse permettere di tener conto
adeguatamente dei bisogni dell’uomo; bisogni che potrebbero richiamarsi alla
scelta dei compagni di Davide, per esempio, che ebbero fame e mangiarono
trasgredendo la materialità della Legge (cfr 1Sam 21,1-6 = Mt 12,1-8), o all’insegnamento di profeti come Osea che dichiarava
a nome di Dio: <misericordia io voglio
e non sacrificio>(Os 6,6 = Mt 12, 7). Lo sganciamento dell’uomo dalla presa rigida della
cosiddetta littera della Legge è in
realtà un leit motiv di tutto
l’insegnamento di Gesù di Nazareth. Ne fanno testo, e proprio nell’evangelista
Matteo, non soltanto il discorso programmatico della montagna, ma anche, nel
testo appena riportato, la dichiarazione solenne dello stesso Gesù: “Il Figlio dell’uomo è signore del sabato”
(Mt 12,8).
Il passaggio dalla
<littera> allo <spiritus>
Sappiamo che il Discorso
della montagna è stato abitualmente letto come una sorta di inasprimento delle
prescrizioni della Legge, ma io sono convinto che esso sia, in realtà, un
generosissimo programma di liberazione dalle strettoie della littera della Legge scritta/orale
trasmessa da alcuni in Israele. Esso permette infatti un allargamento straordinario
degli orizzonti, sia interni che esterni, ai quali è invitato a volgere il suo
sguardo l’uomo pio e osservante di tutti i tempi. Non si tratta assolutamente allora
di inasprimento, ma piuttosto di richiesta a superare gli stretti confini del dovere per aprirli agli spazi amplissimi
della gratuità dell’ amore
confrontata con la disponibilità del Padre che si lascia dirigere dalla
generosità a tal punto da non fare alcuna differenza tra coloro che noi chiameremmo
buoni o cattivi, giusti o peccatori. L’affinamento del cuore e della mente
richiesto da Gesù nel suo discorso della
montagna non farebbe altro dunque che rifarsi, estendendolo, a quella
logica intrinseca alla fede che aveva permesso a Mosè di tener conto della durezza del cuore dei membri del suo
popolo, piegando con condiscendenza la Legge alla loro situazione concreta, e
così permettendo a tutti di restare uniti con l’insieme del popolo di Dio
nonostante le cadute e il ritmo diverso del proprio cammino personale.
I Padri della Chiesa si riferivano proprio a questa diversità
di ritmo, che caratterizzava l’andatura del gregge del patriarca Giacobbe,
quando interpretavano il cammino dei credenti in modo tale che né i giovani fossero
impediti troppo nel dar sfogo alla propria voglia di correre, né gli anziani
fossero distaccati troppo a causa della pesantezza dovuta alla malattia o alla
vecchiaia. In un contesto di questo tipo riceve certamente un colore di fondo
assai diverso la risposta di Gesù in Mt 19,8 interpretata in occidente come
un irrigidimento rispetto alla concessione fatta da Mosè, anziché come una
dimostrazione di consenso espresso da colui che aveva già dichiarato in Mt 5, 17 di non essere venuto per
abolire la Legge o i Profeti, ma piuttosto per dare a quelle indicazioni e
prescrizioni pieno compimento.
Infatti sia il comportamento di Mosè sia quello di Gesù tendevano all’unico
scopo di non escludere nessuno dalla possibilità di restare all’interno del
popolo di Dio nonostante la durezza del
cuore, fino al punto, nel caso di Mosè, da concedere il permesso di ripudiare le vostre mogli (Mt 19,8).
Contestualizzare la pericope di Mt 19, 3-9, privilegiando
l’accondiscendenza, significherebbe in realtà aprirsi ad un modo molto meno
rigido di interpretare il seguito del detto di Gesù: all’inizio non era così, con ciò che segue: <Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria
moglie… e ne sposa un’altra, commette adulterio> (Mt 19,9). Dovrebbe far
testo infatti, in questo caso, lo stesso criterio utilizzato
nell’interpretazione del discorso della
montagna, criterio che non cancella, anzi sottolinea, il dettato della
Legge scritta/orale, considerandolo valido e determinante e tuttavia
proponendone un superamento, che certamente non è da tutti ma che tuttavia
resta l’obiettivo inteso dal Legislatore e registrato nella Legge inscritta
nelle stelle, cioè nella natura. Con una differenza però piuttosto
significativa, dal momento che il richiamo alla Legge naturale, fondata
sull’autorità di un’espressione gesuana
come il ma io vi dico, viene proposto come un oltre rispetto a ciò che Mosè ha dovuto accettare per venire
incontro alla durezza di cuore dei suoi destinatari. Differenza che è
un’ulteriore conferma del dibattito in corso ai tempi di Gesù tra coloro che si
ritenevano anzitutto discepoli di Henoc e coloro che insistevano nel riferirsi
a Mosè.
Tra <skopòs< e
<telos>
Le due Leggi, quella incisa nelle stelle e quella di Mosè,
potevano essere proposte in modo
complementare così che potessero, in qualche modo, chiarirsi reciprocamente. E
questo spiegherebbe forse meglio anche la presenza, al termine del discorso
della montagna, della cosiddetta Regola
d’oro (Mt 7, 12) a sua volta
accolta e superata con l’aggiunta del senso positivo impressole da Gesù. Gesù
non nega dunque la gravità di chi è imprigionato nella durezza di cuore e tuttavia non lo condanna esplicitamente. La sua decisione è
un’altra: accettare la propria debolezza e tuttavia non dimenticare mai che
l’obiettivo fissato (skopòs) è una
cosa, ma l’obiettivo raggiunto (telos) è un’altra. Aggiungendo che ci
sono alcuni, lo vedremo, i quali per
strade diverse, che possono essere legate alla natura, legate alla violenza
degli uomini, oppure legate ad una scelta libera, sono di fatto posti da Dio
come profezia di una realtà nuova che va oltre i confini della natura e della
storia umana, nonostante che siano pochi quelli che riescono ad intravederla: “Chi può capire capisca” (Mt 19,12).
Dallo skopòs al telos
Ciò che ho appena detto potrebbe comportare anche la presenza
di un colore di fondo più adeguato per leggere l’intero testo di Mt 19,
3-12 , dato dal contesto del Discorso
della Montagna, con l’implicito invito a tenere conto simultaneamente:
a)
sia
di ciò che dichiara la littera della
Legge mosaica, con tutto quello che si dovrebbe sistematicamente cercare in
essa come spiritus;
b)
sia di ciò che va riferito all’intenzione del
Creatore, con tutto ciò che attiene alla cosiddetta Legge naturale o lex naturae incisa nelle stelle;
c)
sia di ciò che attiene alla realistica
situazione dell’uomo storico, con tutti i suoi limiti e le sue manchevolezze,
compresa la durezza di cuore;
d)
Sia
infine del completamento della giustizia con
la misericordia.
Ma cosa leggiamo in realtà concretamente nel Discorso della montagna a proposito del
tema trattato in Mt 19, 3-12?
Scrive Matteo:
“Avete inteso che fu
detto: <Non commetterai adulterio>. Ma io vi dico: chiunque guarda una
donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se
il tuo occhio ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene
infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il corpo venga
gettato nella geenna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala
e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra,
piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. Fu pure detto:
<Chi ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la
espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio (Mt 5,
27-32)”.
Lasciando tra parentesi ciò che l’evangelista scrive tra una
dichiarazione e l’altra[9],
suggeriamo di considerare come colore di fondo di questi versetti la
conclusione di Mt 5,48: <Voi, dunque, siate perfetti (teleioi) come è perfetto (teleios) il Padre vostro celeste”[10].
La vita dei discepoli non potrà pretendere di muoversi in
modo diverso da quello del Padre seguito fedelmente dal Figlio che essi
ritengono loro unico maestro. Per cui anche il raggiungimento dell’ obiettivo (telos) cui devono tendere (skopòs), secondo il progetto inteso dal
Padre/Creatore all’inizio/ ap’archēs,
comporterà un itinerario più o meno lungo e faticoso come quello percorso dal
Figlio/Redentore Gesù. Non c’è dunque,
neppure per loro, la possibilità di sovrapporre skopòs e telos senza
considerare la distanza che dovrà essere superata durante il tempo della
propria vita sulla terra.
In altre parole: il telos,
cioè il conseguimento concreto dell’obiettivo pensato da Dio, deve
inevitabilmente fare i conti con la lentezza propria di una realtà umana
sottomessa al tempo e allo spazio. Una lentezza che, nel caso specifico dei
discepoli di Gesù, non può fare a meno di tener conto anche della fragilità
dovuta al peccato. Il conseguimento della volontà esplicitata all’inizio da Dio
Creatore (ho ktisas ap’archēs),
richiamato da Gesù in Mt 19, 4, potrà comportare, a questo punto, tutta
la fatica necessaria, compresa la possibilità di un fallimento, che viene
richiesta dall’impegno a tendere l’arco tenendo l’occhio fisso sull’obiettivo (skopòs) prima di poterlo colpire al
centro (telos) e così passare dal
desiderio di cogliere l’obiettivo fissato alla realizzazione piena di esso. Infatti soltanto allora si potrà
parlare di raggiungimento del progetto inteso da Gen 2, 24: “Per questo l’uomo
lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una
sola carne>, con tutta la dinamicità progressiva che questo progetto
comporta.
Si potrebbe allora concludere che la <durezza del cuore> (Mt 19,8a)
rivelatasi lungo il tragitto di questo passaggio dallo skopòs al telos, che aveva
costretto Mosè a reinterpretare il desiderio di Dio Creatore in modo tale da
non imporre a nessuno una incresciosa esclusione dal popolo di Dio, potrebbe
interferire non poco nella realizzazione o meno dell’obiettivo fissato. Da qui
la sua decisione di ammettere, nel caso specifico di una crisi di coppia, il
ripudio, condizionandolo alla sottoscrizione di un atto formale. E si potrebbe mai pensare allora che Gesù,
venuto “non per abolire la Legge o i
Profeti…ma a dare pieno compimento (plērōsai)” ad essi (Mt 5,17), abbia potuto abolire la
concessione di Mosè, proprio in un punto che qualificava chiaramente, e in modo
determinante, la sua predicazione e cioè la misericordia? Il contesto dei gesti
e delle parole di Gesù nei confronti di chi apparterrebbe a tutti gli effetti
alla categoria dei peccatori pubblici, dovrebbe allora essere inteso in modo
tale da confermare parole solenni e altamente provocatorie come le seguenti: “siate figli del Padre vostro che è nei
cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui
giusti e sugli ingiusti” (Mt 5,
45), accompagnandole con la giustificazione che Gesù stesso avrebbe dato al suo
modo di comportarsi: “Non sono i sani che
hanno bisogno del medico, ma i malati “(Mt
9,12).
Alcune possibili
conseguenze
Le indicazioni pastorali, che potrebbero a prima vista
apparire nuove e perfino rivoluzionarie, in realtà non sarebbero altro che la
conferma esattissima dell’insegnamento del NT ricevuto certamente con
sensibilità diversa in Oriente e in Occidente, ma che conferma l’unità del
respiro dei due polmoni della Chiesa, l’uno e l’altro preoccupati di agire in
tutto e per tutto secondo lo spirito appunto dell’unico Vangelo. Infatti non cambia,
in tutto questo, il giudizio di Gesù sulla negatività di una decisione che
contrapporrebbe la volontà del Dio Creatore, che ha inciso la sua Legge nelle
stelle, alla volontà del Dio Redentore, che accetta l’accondiscendenza di Mosè
verso un popolo di dura cervice. I
Padri delle Chiese Orientali lo avevano capito molto bene, dal momento che
avevano sempre contrastato i perfezionisti e gli spiritualisti di tutti i tipi
che facevano di tutto per separare il Dio Creatore dal Dio Redentore. La
soluzione in realtà non sta nello sposare l’irrigidimento degli spiritualisti e
dei fondamentalisti di tutti i tipi, ma nel fare la giusta e necessaria
distinzione tra peccato e peccatore che è una delle eredità più preziose del
NT.
Un secondo aspetto del
problema
Per affrontare brevemente un altro aspetto della nostra
problematica leggiamo anzitutto ciò che dice lo stesso evangelista Matteo,
presentando l’obiezione dei discepoli all’insegnamento di Gesù e la risposta
del Maestro.
2.
Mt 19, 10-12
“Gli dissero i suoi
discepoli: <Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non
conviene sposarsi>. Egli rispose loro: <Non tutti capiscono questa
parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso. Infatti vi sono eunuchi che
sono nati così dal grembo della madre e ve ne sono altri che sono stati resi
tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno
dei cieli. Chi può capire, capisca>” (Mt 19, 10-12).
La domanda cruciale che nasce da questo testo è: quale
importanza dare alla dichiarazione di Gesù che
“Non tutti capiscono questa
parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso”( Mt 19,11)? Il seguito della risposta, costituito dal riferimento
agli eunuchi, ha portato spesso gli
esegeti a interpretare la dichiarazione di Gesù appiattendola unicamente alla
condizione degli eunuchi (vergini e
celibi) per evidenziare la libertà concessa da Gesù, con la sua vita e con il
suo insegnamento, ad andare oltre il precetto stabilito nel libro della Genesi in due testi ben precisi e
conosciutissimi: Gen 1, 28: “Dio li benedisse e disse loro: <Siate
fecondi e moltiplicatevi>” e Gen
2, 24: “L’uomo lascerà suo padre e sua
madre e si unirà a sua moglie , e i due saranno un’unica carne”.
Gesù ha fatto certamente riferimento a queste prescrizioni
presenti nel libro della Genesi,
citando esplicitamente il secondo testo, ma lo ha fatto riferendosi alla
situazione della coppia umana! Contesto che non si può ignorare per far cadere
l’accento della sua risposta unicamente su una parte della problematica, come è
successo in gran parte nella ermeneutica comune della tradizione cristiana. Conosciamo del resto gli
eccessi che hanno prodotto certe interpretazioni massimaliste, in questa
materia, come quella degli encratiti[11]
che la Chiesa ufficiale ha dovuto correggere con decisa autorità. La richiesta
dei discepoli era stata sufficientemente precisa ed era il risultato dello shock provato dal riferimento alla Legge
scolpita nelle stelle anziché alla Torà scritta/orale di Mosè!.
Anche in questo caso però Gesù non abolisce affatto
l’accondiscendenza di Mosè verso la durezza di cuore dei membri del popolo, ma
ne approfitta per richiamare la costante del suo insegnamento che consiste nel
non accontentarsi mai della semplice prescrizione letterale della Legge, ma di
proseguire sempre nella ricerca fino a scoprirne il senso profondo di essa, già
presente fin dall’inizio nell’intenzione di Dio Creatore (Cfr Mt 19, 8b), che non può in nessun modo
trascurare la centralità della persona umana. Si tratta di un itinerario e non
di una prescrizione tassativa, cosa che è
perfettamente in linea con lo stile del Discorso della montagna. Il chiarimento di Gesù: “Non
tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso” si riferisce dunque non soltanto alla
situazione degli eunuchi, ma anche a quella di tutti i suoi discepoli perché si
sentano liberi nei confronti di ogni tipo di Legge, sia quella incisa nelle
stelle, così statica e inflessibile, sia quella scritta/orale di Mosè che
permetteva invece di venire incontro con
realismo a determinate situazioni umane. L’esemplificazione prodotta da Gesù,
che distingue ben tre categorie di eunuchi,
autorizza in realtà a dare una interpretazione molto più ampia di quella
cosiddetta tradizionale. Infatti Gesù spiega che si può dare una vocazione all’eunuchia inscritta nella natura; una
vocazione imposta purtroppo dagli uomini; una vocazione scelta per il regno dei
cieli. Una simile triplice situazione, constata da Gesù, porta in modo
chiarissimo ad una vera e propria de-colpevolizzazione totale nei confronti di
qualsiasi tentativo di “legiferare” in materia, se questo fosse fatto senza
tener conto della persona umana interessata, in quanto tale.
Il superamento inteso
da Gesù
Gesù va chiaramente verso un superamento della riduzione
delle tre situazioni esemplificate alla sottomissione supina e fatalistica
legata o alla natura fisica o alla violenza degli uomini o, infine, alla
cosiddetta inclinazione individuale. Infatti
tutte e tre le situazioni possono essere valutate in modo tale che si
trasformino in ciò che oggi chiameremmo <vocazione/elezione>. Cosa che
però può risultare chiara solo a “coloro ai quali è stato concesso”. Ma
cosa comporta questa particolare concessione?
Si tratta di una concessione paternalista
relativa a ciò che dovrebbe apparire come una promozione dall’alto?
Oppure si tratta di una concessione che abilita non solo a prendere atto della
propria condizione, ma anche a tentare di elevarla, nonostante tutto, con una scelta libera e personale? Infatti
che cosa può essere stato concesso, in
ciascuna di queste situazioni, all’essere umano, se non la libertà di essere
semplicemente se stesso, nonostante tutto, rispondendo alla vocazione
identitaria originaria voluta dal Dio Creatore?
Rispondere positivamente a tutto questo significa che né la
Legge inscritta nelle stelle né la Legge scritta/orale di Mosè, né la propria
cosiddetta inclinazione naturale, ma soltanto una scelta, libera e liberata,
della propria condizione acquista valore “per
il regno dei cieli”. Anche l’umiliazione di dover fare ricorso
all’accondiscendenza di Mosè, sottomettendosi alla richiesta della
sottoscrizione di un atto di ripudio?
Sì, anche quella. Infatti si entra nel regno di Dio proprio osservando queste
cose minimali, perché verificano
l’autenticità della propria scelta dignitosa e libera e, appunto per questo, capace
di portare l’uomo a sopportare la propria condizione di minimo, senza alcuna tracotanza.
Dovrebbe valere infatti, anche in questo, il principio paolino della Lettera ai Romani: Il Signore ha posto tutti sotto la
constatazione della propria inadempienza, nei confronti della propria pretesa
di giustificazione, per far prendere atto a tutti della necessità della Sua
grazia e del Suo perdono[12].
In realtà può scegliere liberamente soltanto chi accetta e fa sua serenamente
la propria kenosis, cioè la propria umiliazione e il proprio sentirsi minimo. Ma in tutto questo non c’è forse
anche l’accettazione di sentirsi appunto peccatore?
E si potrebbe trovare una situazione migliore di questa per essere
completamente disponibile a lasciarsi
salvare dall’unico che può essere
riconosciuto, definito e accettato come proprio, necessario, Redentore? Ma il Redentore e il Creatore
non perseguono forse, l’uno e l’altro, lo stesso obiettivo: quello di portare
l’uomo alla pienezza della sua vocazione originaria?
La distinzione tra
<de externis> e <de internis>
Finora è stata proposta, come verifica necessaria per provare
l’autenticità e la sincerità del proprio sentirsi peccatore, la
decisione-imposizione a se stesso e agli altri di non continuare a peccare e dunque di non vivere
assolutamente più more uxorio con
un’altra donna/uomo. Ma si è trattato sempre, né poteva essere altrimenti, di
un giudizio legato alle realtà esterne (de
externis). E dunque ci si è riferiti sempre al rigore della Legge (dura lex sed lex), senza alcuna
possibilità di accondiscendenza alla durezza del cuore regolata dall’atto di
ripudio. Si è trattato davvero soltanto di una interpretazione voluta da
Gesù? L’approfondimento che ho appena proposto permette, mi sembra, di poter
interpretare altrimenti il testo evangelico. Ma forse si deve prendere atto
che, nell’interpretazione ritenuta tradizionale, si è trattato anche di
un’applicazione del testo evangelico condizionata da altre fonti ritenute più
giuridicamente esatte. E se ci fosse qualche dubbio a questo riguardo, non
sarebbe forse legittimo applicare un adagio riconosciuto pastoralmente nella
massima: in dubiis libertas? Del resto non si dovrebbe trascurare troppo
superficialmente il fatto che la Tradizione interpretativa delle nostre Chiese
Sorelle Orientali è sicuramente altra! Lo studio appena condotto mi permette di
richiedere una maggiore cautela in queste cose. Infatti chi, tra di noi che riteniamo di aver
compiuto la scelta in modo perfetto senza alcuna costrizione dovuta
alla natura, alla violenza, o ad una semplice
inclinazione emotiva momentanea, potrebbe mai accampare il diritto di escludere
l’uno o l’altro dal far parte del popolo di Dio? Sì, lo potrebbe fare la Chiesa nella sua più solenne ufficialità, ma
anche in questo caso, preoccupandosi comunque scrupolosamente di obbedire anch’essa
al principio sacrosanto che <De internis non judicat Ecclesia>. Da qui la necessità di prendere atto che la
trasgressione nei confronti o della
Legge incisa nelle stelle o della Legge scritta/orale promulgata da Mosè, è una
realtà che riguarda semplicemente l’umanità così come la conosciamo nella
nostra storia, dove, nessun essere umano escluso, l’unica strada possibile è
quella di accettarsi nella propria
debolezza, aiutandoci tutti, fraternamente, ad imboccare l’unica strada, quella
della fede ovviamente, che ci permetta di essere ricevuti tutti, sia pure come minimi, nel regno dei cieli. Protestava
San Paolo: “Mi sono fatto debole per i
deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare ad
ogni costo qualcuno” (1Cor 9,22),
dimostrando così di essere autentico discepolo di chi aveva dichiarato
solennemente: “Non sono venuto per
condannare il mondo, ma per salvare il mondo”(Gv 12,47).
Necessità di un
approfondimento
In tutto ciò, che abbiamo appena cercato di dire, resta la
constatazione di Gesù: “Non tutti
capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso”. Si noti
però che Gesù sembra mettere sullo stesso livello sia coloro che accettano
questa umiliazione data dalla natura, sia coloro che la subiscono per la
violenza degli uomini, sia infine coloro che la scelgono per il regno dei
cieli. La contestualizzazione che risulterebbe da una simile interpretazione di
questi versetti, sarebbe davvero sconvolgente, perché l’unico valore che
verrebbe in questo modo rivendicato da Gesù, sarebbe quello di scegliere
sempre, in qualunque situazione, con piena dignità e libertà, e con decisione
personale, la strada solo apparentemente imposta dalla natura, dalla violenza
degli uomini o dalle proprie inclinazioni, per entrare nel regno dei cieli. A
questo punto però dovrebbe subentrare tutto ciò che risulterebbe da un maggiore
approfondimento dell’immagine di Dio perseguita dagli uomini e dal tentativo,
fatto da questi ultimi, di collegare quella immagine al riflesso di essa nella
struttura e nella vita quotidiana dell’essere umano (eikona).
A questo punto potremmo perfino evocare umilmente quella
particolare esigenza profetica che auspicava e prevedeva, per il popolo di Dio,
una Nuova Alleanza fondata non più su una Legge, scolpita nelle stelle o nelle
pietre mosaiche, ma direttamente nel cuore. Si tratterebbe infatti di un’Alleanza
strettamente connessa al cuore umano e dunque alla coscienza, con
corrispondente responsabilità, la cui perfetta conoscenza appartiene unicamente
a Dio. La Chiesa infatti, pur consapevole della legittimità della propria
autorità nelle cose esterne (de externis),
non ha mai preteso, né poteva farlo, di sostituirsi nel giudizio sulle cose
interne (de internis) che
appartengono unicamente a Dio. La sua missione, ed essa ne è da sempre
consapevole, è quella di informare e formare le coscienze, appunto, ma non di
sostituirsi ad esse.
Una maggiore riflessione sul Dio Trinitario riflesso, come direbbe sant’Agostino, nella
struttura stessa dell’uomo, permetterebbe probabilmente anche un’analoga
maggiore consapevolezza di quel mistero ineffabile che avvolge lo spirito dell’uomo, impenetrabile a tutti
e conosciuto soltanto dallo Spirito di
Dio. Ne risulterebbe anche una altrettanto maggiore attenzione a restare in
punta di piedi, delicati, rispettosi e silenziosi, di fronte al mistero che
avvolge una relazione umana; non solo, ma sarebbe proprio questa confessione
dell’inevitabilità di restare fuori, con timore e tremore, da quella relazione
d’amore, la migliore testimonianza della
nostra fede nell’unità del Padre , del Figlio e dello Spirito Santo manifestata
nella indicibilità misteriosa della comunione.
Accanto a questo bisognerebbe poi approfondire l’altro mistero principale della nostra fede con
preciso riferimento alla conquista del Concilio di Calcedonia (451) che
invitava a non finire mai nel cosiddetto monofisismo,
né a cedere al cosiddetto nestorianesimo, inteso come uno
sdoppiamento della persona, né a confondere
la natura umana con la natura divina in una sorta di miscuglio, ma a
confessare sempre la presenza, nell’unica Persona del Verbo Incarnato, della
perfetta natura divina e della perfetta natura umana. E questo senza
dimenticare che si tratta, ancora una volta, appunto di mistero indicibile e incoercibile a qualunque tentativo di
risolverlo imbrigliandolo dentro i confini ristretti di una Legge, ritenuta
magari la più perfetta e logica possibile, e tuttavia sempre inadeguata, per
definizione, a dare ragione di ciò che si nasconde in ogni essere umano e in
ogni relazione che sta all’origine della comunione, di un singolo essere umano,
con Dio e con il prossimo.
Sommario
L’ipotesi da cui parte l’A. è che, anche a proposito del
sacramento del matrimonio, possa essere importante riferirsi: da una parte
all’immagine (eikona nel senso di
<già> e <non ancora>), permanente nella Chiesa, dei due Misteri
principali della fede, e quindi alla Triadologia
e alla Cristologia; dall’altra all’ipotesi di una appartenenza di Gesù
di Nazareth alla corrente degli Enochichi
(Esseni
Moderati ) che si riferivano sia alla Legge incisa nelle stelle, sia alla
Legge scritta/orale promulgata da Mosè. Questa ipotesi imporrebbe una maggiore
attenzione al dibattito sull’autorità e autorevolezza delle due Leggi tenendo
conto soprattutto della misericordia. Un altro suggerimento dell’A. è quello di
leggere il testo di Mt 19, 3-12 alla luce dell’insieme del Discorso della montagna e soprattutto
del versetto di Mt 5,17, da cui
risulterebbe una concordia tra l’accondiscendenza di Mosè e la misericordia
evidenziata dall’insegnamento di Gesù, venuto
non per abolire la Legge , ma per darle pieno compimento. A tutto questo
l’A. aggiunge la constatazione che
Matteo distingue l’essere nel
regno dei cieli dal non entrarci
affatto. Da cui la necessità di interpretare il <ma io vi dico> di Mt 19,9 in linea con gli altri <ma io vi dico> presenti nel Discorso della montagna evidenziando la
natura dinamica del passaggio dalla littera
allo spiritus intrinseco alle parole
di Gesù che non contrappone le due Leggi, ma orienta a superarle entrambe per
passare dallo skopòs al telos inteso fin dal principio da Dio
Creatore, che è anche Dio Redentore, tenendo realisticamente conto dell’uomo,
criterio ermeneutico per eccellenza dell’insegnamento di Gesù di Nazareth.
[1]
Vedi Paolo Sacchi, Storia del Secondo
Tempio. Israele tra VI secolo a. C. e I secolo d.C., Società Editrice
Internazionale, Torino 1994, in cui si legge questo richiamo quasi banale:
“Gesù era un ebreo che insegnò una dottrina la cui genesi va cercata nei
problemi e nelle idee che circolavano nella Palestina del suo tempo” ( p.464).
Pensiero che Romano Penna sviluppava così nella sua presentazione: “Al tempo di
Gesù e della prima chiesa non esisteva un vero e proprio giudaismo ortodosso,
ma la fede d’Israele si esprimeva in correnti e prospettive varie, a volte
anche molto diverse, sia pure sulla base di alcuni essenziali elementi comuni”
(ivi, p. XV).
[2] Vedi Gabriele Boccaccini, Middle Judaism: Jewish Thought, 300BC -200CE,
Minneapolis Fortress, 1991; Idem Beyond the Essene Hypothesis. The Parting of
the Ways between Qumran and Enochic Judaism, Grand
Rapids,Michigan/Cambridge, U.K. 1998. Ma vedi anche Gabriele Boccaccini (edited
by), Enoch and the Messiah Son of Man. Revisiting the book of Parables, Grand
Rapids, Michigan 2007.
[3] I cui
risultati vengono sistematicamente pubblicati nella rivista internazionale
HENOCH a partire dal primo quaderno edito a cura di Gabriele Boccaccini, The Origins of Enochic Judaism. Proceedings of the First Enoch Seminar University of Michigan, Sesto Fiorentino, Italy June 19-23, 2001,
Silvio Zamoran Editore, Torino 2002.
[4] Molto
illuminante è quel che scrive Paolo Sacchi a proposito di Sacro e
Profano/Impuro Puro nella sua Storia del
secondo Tempio, o.c., pp.415-453 e la brevissima sintesi che offre sull’uso
dei due calendari utilizzati al tempo di Gesù, ivi, pp.454-461.
[5]
Per una introduzione veloce all’insieme della problematica qui necessariamente
solo accennata vedi: Ulrich Luz, La
storia di Gesù in Matteo, Paideia Brescia 2002, soprattutto le pp. 59-80, nonostante che nel leggere questa
sintesi si possa restare perplessi dalla scelta fatta dal Luz di non fare qui
alcun riferimento’, sia pur minimo, a Mt
19, 3-12.
[6] In particolare a partire dalla tecnica, già
conosciuta a Qumran, del Midrash Pesher, ma anche dalla tradizione
targumica, halakika, haggadica e mishnaika confluita nei Talmud. Per una rapida rassegna della proposta ermeneutica ebraica
nel suo insieme mi permetto di rimandare a Guido Innocenzo Gargano, Il sapore dei Padri della Chiesa nell’esegesi
biblica. Introduzione ad una lettura sapienziale della Scrittura, Edizioni
San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2009, pp. 107-165.
[7]
Per saperne di più rimando ovviamente alla voce plēroō curata da G.Delling,
nel Grande Lessico del NT (G.Kittel),
edizione italiana, Vol X, Paideia Brescia 1975, coll.641-674.
[8]
L’ultima espressione del testo: “Si, è un popolo di dura cervice, ma tu perdona la nostra colpa e
il nostro peccato: fa di noi la tua eredità”, sembra essere stata tenuta
presente in modo esplicito da Gesù nel suo dibattito con i farisei di Mt 19,3-8. Ma non si tratta solo di
questo, perché Gesù mostra di avere presente nella sua predicazione anche le
correzioni fatte dalla tradizione profetica sul testo dell’alleanza sinaitica.
Ci si potrebbe riferire, per esempio, a un famoso testo di Ezechiele che
riabilita la responsabilità personale, là dove si dichiara apertamente: “Perché andate ripetendo questo proverbio
sulla terra di Israele: <I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei
figli si sono allegati>? Com’è vero che io vivo, oracolo del Signore Dio,
voi non ripeterete più questo proverbio in Israele. Ecco tutte le vite sono
mie: la vita del padre e quella del figlio è mia; chi pecca morirà” (Ez 18, 2-3); oppure ad un altro testo,
altrettanto famoso, dello stesso profeta Ezechiele in cui si viene incontro al
rischio della disperazione mortale che può nascere in chi ha peccato gravemente
e vive nell’angoscia del castigo di Dio, con queste parole: “Tu figlio dell’uomo, annuncia alla casa d’Israele:
Voi dite: <I nostri delitti e i nostri peccati sono sopra di noi e in essi
noi ci consumiamo! In che modo potremo vivere?> Dì loro: Come è vero che io
vivo – oracolo del Signore Dio - , io non godo della morte del malvagio, ma che
il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva. Convertitevi dalla vostra
condotta perversa! Perché volete perire, o casa di Israele?” (Ez 33,
10-11).
[9] Che è a
sua volta importante per una giusta interpretazione di queste parole di Gesù,
dal momento che l’evangelista anticipa
qui l’uso di un linguaggio metaforico che ritornerà in Mt 18, 8-9.
[10]
Il NT stabilisce chiaramente
una distanza fra skopòs e telos. Altro è infatti l’obiettivo
fissato (skopòs) e altro è
l’obiettivo raggiunto (telos). Gesù
stesso ha chiaro, dentro di sé, almeno a partire dall’incarceramento-morte
violenta di Giovanni Battista, qual è per lui l’obiettivo (skopòs) da cogliere e verso il quale dirigere i suoi passi, ma
anche che colpirà l’obiettivo (telos)
soltanto nell’<ora> predisposta dal Padre, come viene esplicitamente
dichiarato in Gv 19, 28-30: “Dopo questo, Gesù, sapendo che ogni cosa era
stata ormai compiuta (tetelestai),
disse per adempiere (hina teleiōthēi)
la Scrittura: <Ho sete>… e dopo aver ricevuto l’aceto, Gesù disse:
<tutto è compiuto (tetelestai)”.
[11] Il
termine deriva dal vocabolo greco egkrateia (tradotto in latino con
abstinentia) e indica dei cultori di un ascetismo estremo con particolare
riferimento al divieto di cibarsi di carni e di fruire dei piaceri della carne
anche nelle nozze. Il movimento, già presente nel contesto del Mediterraneo e
della Mesopotamia, si affermò anche in alcune comunità cristiane provocando la
condanna della Chiesa ufficiale. Ma sembra che queste comunità non siano
riuscite a creare un vero e proprio movimento cristiano, anche se rimase il
vocabolo enkratiti nel linguaggio
comune. Vedi, a proposito, la voce Encratismo
curata da F.Bolgiani in NDPAC, coll.1653-1655.
[12] Cfr
soprattutto Rm 2, 1-6,14.
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