Parco Archeologico Religioso CELio

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Quarta Ora



P.Guido Innocenzo Gargano
OSB Camaldolese

QUATTRO ORE ACCADEMICHE SU GREGORIO MAGNO
             
                    
      
Quarta  Ora

I presupposti culturali di Gregorio Magno
Il padre Calati insegnava che tutto il movimento teologico e spirituale del secondo millennio della storia della Chiesa occidentale, almeno a partire dalla nascita degli Ordini Mendicanti, è fortemente legato a ciò che chiamiamo oggi Occidente, in cui manca l’accentuazione biblico-liturgica che era stata invece alla base dell’universalismo missionario ecclesiale dei Padri della Chiesa. Diversamente invece avevano agito Gregorio Magno, Agostino di Canterbury, Bonifacio di Fulda e tutto il monachesimo anglo germanico che faceva riferimento alla <Regula Benedicti>, nell’evangelizzazione della Britannia e del Centro Nord dell’Europa.
I Padri della Chiesa - e Gregorio Magno era certamente uno di loro - non avrebbero potuto inoltre fare a meno di restare all’interno della loro contemporanea civiltà greco-romana. Essi agivano in un’atmosfera ben precisa, che però era soltanto una cornice o una strada di cui servirsi per camminarci sopra e andare oltre, portando pervicacemente con sé le Scritture ispirate dell’Antico e del Nuovo Testamento lette alla luce della Tradizione Apostolica, ma grazie anche all’uso degli strumenti culturali propri della cultura classica greco-romana.
Ne sono conferma, in Occidente, le conversioni degli Angli, dei Germani, dei Longobardi i quali, entrando in comunione con i poveri di Roma o dell’impero romano, ricevevano il dono di poter cantare insieme con i popoli romani o romanizzati  l’alleluja ebraico nel momento stesso in cui condividevano la propria cultura, e le proprie particolari sensibilità ed esperienze di vita, con la cultura romana.  C’era un congiungimento naturale di poveri con i poveri, gli uni e gli altri esurientes che condividevano la stessa fede, la quale permetteva a tutti di sentirsi parte integrante dello stesso popolo di Dio. 
Tutto questo comporta però anche la necessità, per l’annunzio del Vangelo, di non legarsi all’una o all’altra cultura ma piuttosto di incarnarsi nelle forme transitorie di ogni cultura e di ogni civiltà senza dimenticarsi mai di restare sempre in stato di esodo entrando continuamente in nuove terre promesse che l’attendono pur permeando ognuna di loro con la presenza misteriosa dello Spirito[1].
Tenere presenti certi contesti è determinante, perché spiega come mai questa ermeneutica gregoriana, che sarà poi completata con l’ermeneutica agiografica, abbia nutrito di fatto tutto il medioevo, arrivando fino alle soglie dell’età moderna[2].
Essendo io un discepolo di Padre Benedetto Calati ricordo anzitutto ciò che mi insegnava questo maestro quando precisava che – cito a memoria – se interroghiamo non solo la cornice ma anche il contenuto del quadro dipinto da Gregorio Magno e ci chiediamo chi è di fatto colui che cammina, e come cammina, in quel dipinto, allora non ritroviamo più in loro né l’Occidente né l’Imperialismo romano, ma solo dei Profeti della Chiesa i quali, con la stessa coscienza dei profeti biblici, si lasciavano portare dallo Spirito, profetizzando, come faceva appunto Gregorio, sui tempi nuovi e sui popoli nuovi, consapevoli di individuare in  essi,  e nel loro incontro con la Chiesa, ciò che le Scritture dicevano a proposito dei profeti del primo Israele in cammino verso l’evento della rivelazione del Mistero di Cristo.

Accenni ai <Quattro Libri dei Dialoghi>
Una lettura, anche velocissima, dei Quattro Libri dei Dialoghi danno una idea abbastanza precisa di tutto ciò che abbiamo appena tentato di dire.  Un principio ermeneutico di fondo che non possiamo fare a meno di richiamare subito è dato da ciò che scrive Gregorio commentando Giobbe, 42,12:
Queste stesse cose che crediamo siano avvenute storicamente, noi speriamo che debbano realizzarsi anche misticamente (haec historice facta credamus, haec mystice facienda speramus)”.[3]
Questo principio vale, per il Papa di Roma, con riferimento sia ai profeti dell’AT sia ai profeti del NT di cui fa parte l’intera storia della Chiesa. Gregorio è infatti convinto che “Via via che il mondo presente volge verso la fine, il Signore consola il dolore della santa Chiesa con un’abbondante raccolta di anime” che si possono tranquillamente riconoscere dotate di spirito profetico, sia perché realizzano le profezie presenti nell’AT con riferimento alla prima venuta del Figlio nella carne; sia che preannunziano nel NT la seconda venuta dello stesso Figlio di Dio nella gloria.[4]
Benedetto da Norcia, di cui Gregorio parla ampiamente in tutto il suo Secondo Libro dei Dialoghi, fu insieme, - spiega il Papa – uomo di Dio e lettore attentissimo dei Codici, di tutti i Codici, ritenuti ispirati. Il che spiega perché egli possa essere ritenuto “omnium iustorum spiritu plenus[5] sia perché antitypos, cioè realizzazione, di tutti i typoi, cioè modelli, che lo hanno preceduto nell’AT fino alla venuta del Figlio nella carne; sia perché imago/eikon, a causa del suo essere già e non ancora, della profezia della seconda venuta del Figlio nella gloria.

Le conseguenze nella vita di Benedetto da Norcia.
Da ciò che è stato accennato a proposito di Benedetto da Norcia si può trarre una duplice conseguenza e cioè: che per conoscere chi è stato Benedetto da Norcia occorre conoscere tutti i modelli che lo hanno preceduto nella storia della salvezza; e viceversa che, per conoscere tutti i sensi nascosti in quegli stessi modelli, occorre familiarizzarsi con le parole e i gesti compiuti da Benedetto da Norcia che li ha sintetizzati tutti nella sua persona[6].
Ma questo tenendo anche conto che ciò che vale per Benedetto da Norcia vale per tutti i <buoni> della storia della salvezza, i quali sono divenuti come lui un alter Christus.
Da qui un corollario fondamentale dello stesso duplice principio che si riassume nel famoso detto gregoriano. Viva lectio vita bonorum.[7]L’importanza di questa convinzione di Gregorio Magno risulta in modo inequivocabile da una pagina dei Moralia in Job in cui Gregorio scrive testualmente:
“La vita dei buoni è una pagina biblica vivente (Viva lectio est vita bonorum). Non per nulla i giusti della sacra Scrittura sono chiamati libri, come sta scritto: <Furono aperti i libri. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri> (Apc 20,12). Il libro della vita è la visione stessa del Giudice che verrà (Liber namque vitae est ipsa visio advenientis iudicis). Si può dire che in esso sta scritto ogni precetto, perché chiunque lo vede si rende subito conto, con la testimonianza della coscienza (teste conscientia), di ciò che non ha fatto. Si dice che furono aperti i libri, anche perché allora si vede la vita dei giusti nei quali tutti scorgono impressi con le opere i comandamenti divini (iustorum tunc vita conspicitur, in quibus mandata coelestia opera impressa cernuntur). I morti vengono giudicati in base a ciò che è scritto in quei libri, perché nella vita dei giusti, che si presenta come un libro aperto, essi leggono il bene che non vollero compiere e, al confronto con quelli che l’hanno compiuto, vengono condannati. Affinché dunque nessuno allora (tunc), vedendo quelli, pianga per ciò che non avrà fatto, adesso ora (nunc) guardi in loro ciò che deve imitare. Questo è ciò che fanno continuamente gli eletti. Essi osservano la vita dei migliori e correggono la loro condotta deteriore (Meliorum namque vitam considerant et deterioris usus conversationem mutant).[8]
Da una pagina come questa, appena letta, si può capire perché Gregorio creda di potersi permettere di approfittare di tutto questo per stabilire un principio ermeneutico che ritiene fondamentale: quello della necessità che la comprensione spirituale di un qualunque testo suppone la solidità del suo significato letterale e lo rilancia verso un significato più profondo che egli chiama intelligenza spirituale: “La vita dei buoni, che per mezzo dello Spirito Santo viene narrata, splenda ai nostri occhi in virtù dell’intelligenza spirituale, senza che il significato si scosti dalla fedeltà alla storia[9].
Un richiamo molto preciso dunque al rispetto della veritas historica o al sensus litteralis del testo, sia esso cartaceo che umano, che però impongono una tensione dovuta alla presenza indispensabile in essi di un sensus spiritalis. Scrive Gregorio: “Se le cose buone della vita dei santi che conosciamo sono privi di verità, non valgono nulla; ma se non contengono un mistero, valgono molto poco”.[10]
Da qui la preoccupazione del papa che, rivolgendosi ad ogni eventuale lettore del testo, insiste: “l’animo del lettore si faccia  il più attento possibile a ciò che legge, fissandolo bene nella sua mente, perché egli si trova di fatto in una sorta di posizione centrale, dal momento che: da una parte è orientato dalla speranza verso il futuro e dall’altra la fede lo tiene strettamente legato al passato (Tanto fixior animus in suo intellectu permaneat, quanto hunc quasi in quodam medio constitutum, et erga futura spes et erga praeterita fides legat)”.[11]
Perciò Gregorio si azzarda a scrivere: “Tutti noi che, pieni di fede, osiamo parlare di Dio, siamo strumenti della Verità. E la Verità può far sentire la sua voce per mezzo mio a un altro o per mezzo di un altro a me (et in eiusdem veritatis potestate est, utrum per me sonet alteri, an per alterum mihi). Essa sta in mezzo a noi e ci tratta tutti con equità, anche se noi non sempre ci comportiamo con equità (ipsa quippe in medium nostri, etiam non aeque viventibus, omnibus aequa est)”.[12]
Tra questo insieme di tensioni si gioca in realtà, secondo il pensiero di Gregorio, l’intera storia della nostra salvezza, che si svolge tutta all’interno del simbolo dato dal riferimento al Paradisus.
Un simbolo determinante non soltanto per il suo riferimento al passato, in cui il paradiso è stato spazio tragico della culpa della coppia umana e spazio in cui è risuonata la promessa della salvezza da parte di Dio: ipsa conteret caput tuum; ma anche perché il suo riferimento al futuro in cui il reditus ad paradisum è sinonimo di salvezza recuperata o di promessa realizzata per tutti.
Per cui si può correttamente dire che l’esperienza della vita dell’uomo sulla terra si ritrova effettivamente al centro: in quodam medio constitutum.
Dal punto di vista dell’esegesi del testo biblico cartaceo, questa medietas del periodo della vita umana comporta un’attenzione al senso storico-letterale che non arrivi però mai a pretendere di essere l’unico significato possibile, escludendo la spiritalis intellegentia.
E, d’altra parte, essa risponde anche alla precomprensione della filosofia classica, documentata da Horatius che insegnava: “In medio stat virtus. Sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit consistere rectum”.
In questo contesto non meraviglia nessuno la constatazione che la prima conclusione che ne trae Gregorio stesso nel presentare il modello di vita incarnato nel vir Dei Benedictus sia quello di proporlo come un vir Dei, unificato e completo, perché pieno dello spirito di tutti i giusti ( omnium iustorum spiritu plenus)[13].

Il ritorno al Paradiso di Benedetto
L’eroe di Gregorio, identificato con Benedetto da Norcia, sarà perciò inevitabilmente dotato di un equilibrio e di una saggezza straordinari fin dalla fanciullezza. Perciò il Papa lo descrive come qualcuno che “ha un cuore da anziano fin da bambino mostrandolo come chi non ha mai ceduto a qualunque tipo di passione” (ab initio pueritiae suae tempore cor gerens senile, aetaten moribus transiens, nulli animum voluptati dedit)[14], in cui ovviamente voluptas sta per <esagerazione> e senile sta per <equilibrio precoce>.
Spostando la prospettiva in chiave biblica si potrebbe dire che, per Gregorio Magno, Benedetto, avendo un carattere equilibrato, si ritrova fin dalla fanciullezza in quella dimensione simbolica del Paradiso in cui la promessa dell’ipsa conteret caput tuum è più evidente della culpa della coppia originaria di Adamo ed Eva.
In sostanza Benedetto, è consapevole fin da fanciullo – sta dicendo Gregorio - che il suo legame col passato, temperato dalla speranza del futuro, ha già preso posto nel suo cuore così che l’equilibrio (cor gerens senile), lo caratterizza a tal punto che, superando le normali esigenze della sua età (aeteatem moribus transiens), non si è permesso nessuna esagerazione nel suo animo (nulli animum voluptati dedit).
Dal punto di vista del metodo esegetico si potrebbe dire che il Benedetto proposto da Gregorio abbia come dote naturale ciò che gli antichi filosofi, e Filone alessandrino in particolare[15], indicavano come presupposto necessario per poter cogliere il senso profondo di un qualunque testo scritto e particolarmente delle Scritture ispirate, il quale si rende accessibile unicamente a chi si è dedicato all’askēsis, e cioè all’esercizio o allenamento che porta alla pacificazione delle passioni (pathes) grazie al sereno dominio dei sensi (aisthēseis) esercitato dal logos.
Lo stesso metodo si può applicare però anche quando il testo di riferimento è la persona umana a proposito della quale si può parlare negli stessi termini, perché l’obiettivo che si intende raggiungere è quello di ritrovarsi di nuovo come amico di Dio attraverso il reditus ad paradisum dal quale l’uomo si era ritrovato distante, a causa dell’eccessivo legame ai piaceri della terra[16].

I gradini dell’ermeneutica agiografica
Si possono stabilire in realtà dei veri e propri gradini sulla scala <mistica> che permette all’uomo di ritornare in Paradiso. E Benedetto Calati li individua nell’insieme della struttura del Secondo Libro dei Dialoghi là dove Gregorio Magno propone di vedere in Benedetto da Norcia il programma per antonomasia di un itinerario che si ripeterà, con qualche piccola correzione, in ogni uomo di Dio di cui si parla nella tradizione monastica sia di Oriente che di Occidente. Egli parla, per esempio, del succedersi di alcune tappe progressive che rivelano altrettanti sensi nascosti nella vita o bios del monaco o del credente, come se si trattasse di un approfondimento di un testo biblico.
Li riassumo brevemente sottolineando che, per Benedetto Calati, questi gradini, sono motivati da un desiderio che li percorre tutti, sintetizzato  nell’espressione  latina soli Deo placere desiderans, che permette di recuperare lo spazio ideale in cui l’Adamo originario può incontrarsi di nuovo con Dio per ricominciare a dialogare serenamente con Lui alla brezza della sera, lasciandosi guidare dalle Sue Parole e vivendo la realizzazione della profezia annunziata in Osea là dove Dio decide: “L’attrarrò nel deserto e parlerò al suo cuore come ai giorni del fidanzamento”.
Perciò il primo movimento di questo ritorno mistico al Paradiso di Eden è quello di occultarsi nella solitudine del deserto, ricevendo il mantello del monaco (si ricordi il filosofo dell’antichità greca e latina) e in questa solitudine esercitarsi (si ricordi l’askēsis dei filosofi), alla ricerca della conoscenza di sé (si ricordi il gnothi seauton), decidendo di habitare secum sub superni Spectatoris oculis[17].Questo primo movimento comporta dunque un uscire per entrare in se stesso ed esporsi allo sguardo di Dio.
Il secondo movimento ha inizio con una seconda esposizione del monaco, ma questa volta alla tentazione sintetizzata nel ricordo della donna e della bontà e bellezza della sua carne che, come novella Eva, provoca il nuovo Adamo e lo conduce sull’orlo del cedimento ai piaceri della carne, che però viene evitato perché il ricordo della croce di Cristo diviene per Benedetto una spinta incontenibile a identificarsi con Cristo spargendo il proprio sangue insieme con quello di Lui.
Il terzo movimento viene come frutto di risurrezione, perché si esprime nel dono di potersi impegnare nella verginità perpetua e nella preghiera continua, come era successo al monaco Equizio, del quale nel suo Primo Libro dei Dialoghi Gregorio aveva scritto così:
Equizio negli anni della giovinezza si trovò impegnato in una dura lotta interiore contro le tentazioni della carne, ma furono proprio quelle tremende prove a fare di lui un uomo di preghiera. Poiché infatti con insistenti suppliche chiedeva all’onnipotenza di Dio di venire liberato da simili tentazioni, una notte si vide evirare con l’intervento di un angelo; nella visione gli parve che al suo membro virile venisse tolta ogni vitalità. Da quel momento non conobbe più tentazioni del genere, come se il suo corpo non avesse più sessualità[18].
Nel quarto movimento il monaco Benedetto, ormai divenuto in tutto e per tutto un vir Dei, e dunque un profeta portatore della Parola di Dio, viene gratificato col dono della paternità spirituale (spiritalis paternitas), per cui il suo punto tipico di riferimento non è più Adamo, ma Abramo, padre di tutti i credenti. Questo riferimento ad Abramo permette a Gregorio di insinuare la realizzazione della profezia contenuta in Abramo che si era sentito dire da Dio: “Faciam te in gentem magnam”, cioè: ti farò padre di una moltitudine di figli, con riferimento al numero sterminato di monaci che sarebbero stati generati spiritualmente dal Patriarca di Norcia.
Nel quinto movimento l’orizzonte si allarga quasi a dismisura perché i gradini che adesso Benedetto percorre per entrare nel suo Paradiso viene costellato dalla condivisione dei doni di tutti i profeti e i giusti che si sono succeduti nella Storia della Salvezza. Egli infatti dimostra di avere, l’uno dopo l’altro, quei dominia che prima appartenevano al mundus totus positus in Maligno, ma che adesso il Signore ha posto sotto i suoi piedi dal momento che Benedetto è divenuto un alter Christus.
Gregorio elenca questi doni uno dopo l’altro, come necessariamente succede per chi può essere legittimamente definito spiritu omnium iustorum plenus, con una serie di miracoli (mirabilia) attribuiti a Benedetto, non preoccupandosi che si siano o meno verificati sul piano della prova storica, quanto piuttosto che essi siano leggibili spiritualmente come avveramento delle profezie o degli eventi narrati dalla Bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.
Il Padre Calati li enumera in questa successione: dominium supra res, dominium supra eventus, dominium supra potentes saeculi, dominium supra daemones, dominium supra res spirituales. A proposito poi di quest’ultimo lo studioso camaldolese parla di vero e proprio sacerdozio spirituale inteso come sacerdozio carismatico extra munus stricte jerarchicum. E, per spiegarsi meglio, rimanda allo stesso Gregorio Magno il quale narra, sempre nel suo Primo Libro dei Dialoghi, e a proposito dello stesso monaco Equizio, che si era messo a predicare, perché così si era sentito di fare per ispirazione divina:
 Alcuni ecclesiastici fecero le loro rimostranze davanti al vescovo di questa sede apostolica, dicendogli: <Chi è questo zoticone, che si è arrogato il diritto di predicare e presume, ignorante com’è, di usurpare il ministero della Parola proprio al nostro Pastore? Si mandi dunque, se crede, qualcuno che lo conduca qui, così che conosca la forza e il rigore dell’autorità ecclesiastica>. E’ normale che l’adulazione si insinui facilmente in un animo assorbito da molte preoccupazioni, se non si è più che pronti ad allontanarla dalla porta del cuore. Fu così che il pontefice, sensibile alle striscianti parole di quei membri del clero, acconsentì che Equizio venisse condotto a Roma, perché ridimensionasse l’ambito delle sue competenze…Tuttavia il giorno dopo, alla luce crepuscolare dell’aurora, Giuliano, l’inviato del Pontefice, si vide arrivare su un cavallo, stremato dalla corsa veloce, un messaggero che gli portava una lettera, nella quale gli si dava ordine di non toccare il servo di Dio e di guardarsi di allontanarlo dal suo monastero. Mentre egli si chiedeva il perché di tale contrordine, venne a sapere che, proprio nella notte in cui lui era stato inviato a Equizio, il papa era rimasto fortemente impressionato da una visione che gli aveva apertogli occhi sulla presunzione avuta di mandare a prendere quell’uomo di Dio[19].
Durante tutto questo itinerario, che abbiamo potuto accostare metaforicamente ad una vera e propria Scala Paradisi, Gregorio Magno propone la quotidiana frequentazione degli Eloquia Dei come aveva già suggerito a un medico laico incontrato a Costantinopoli raccomandadogli: “ (Cerca, ti prego, di meditare ogni giorno le parole del tuo creatore; impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio, perché tu possa sentirti portato più ardentemente verso le realtà eterne e così la tua mente si accenda sempre di più di desiderio dei gaudii del cielo (Stude quaeso, et cotidie creatoris tui verba meditare; disce cor Dei in verbis Dei, ut ardentius ad aeterna suspires, ut mens vestra ad caelestia gaudia moaioribus desideriis accendatur)”.[20]
C’è un bellissimo testo dei Moralia in Iob che credo sintetizzi molto bene ciò che Gregorio Magno si aspetta che l’uomo di Dio sperimenti nei singoli passaggi dei quali abbiamo appena parlato nel suo desiderato reditus ad Paradisum e il godimento che cresce in ogni singola tappa di questo itinerario mistico.
 Scrive Gregorio in quella pagina:
L’Onnipotente ci colma di delizie quando ci saziamo del suo amore al banchetto della Sacra Scrittura. Sì, nelle sue parole noi troviamo tante delizie, quanti, via via che progrediamo, sono diversi i significati che vi scopriamo (tot delicias invenimus, quot ad profectum nostrum intellegentiae diversitates accipimus).
Alcune volte ci nutre il semplice racconto storico, altre volte ci ristora fino al midollo l’allegoria morale velata sotto il testo letterale; altre volte la contemplazione ci solleva fino alle vette più alte facendo già balenare, attraverso le tenebre della vita presente, un raggio dell’eterna luce.
E si tenga presente che, quando uno è colmato di delizie, si placa in qualche modo la sua tensione interiore e, come per stanchezza, si allenta la sua applicazione; perché quando l’anima comincia a gustare l’abbondanza delle delizie interiori, non trova più gusto ad occuparsi delle cose terrene, ma, presa dall’amore di Dio, libera ormai dalla propria schiavitù, sospira e viene meno per il desiderio di contemplare la sua bellezza e, proprio dalla sua stanchezza, attinge vigore, poiché  incapace ormai di portare pesi così gravosi e, anche grazie alla quiete, si affretta verso Colui che interiormente ama (ad illum per quietem properat, quem intus amat).
Ecco cosa ha fatto scrivere l’ammirazione della sposa: <Chi è costei che ascende dal deserto colmata di delizie?>. Se infatti la santa Chiesa non fosse colmata di delizie dalla Parola di Dio, non potrebbe ascendere dal deserto della vita presente verso i beni superiori. Essa è dunque colmata delle delizie e ascende perché, nutrendosi con l’intelligenza dei senso mistici, viene ogni giorno sollevata alla contemplazione delle realtà superne.
Ecco perché il Salmista dice: <In mezzo alle mie delizie anche l’anima innamorata si ristora>, perché con l’intelligenza mistica, l’oscurità della vita presente viene illuminata già dal fulgore del giorno che avanza; dimodoché, anche nel buio di questa vita corruttibile, irrompe nel suo intelletto la forza della luce futura e, pascendosi nelle delizie della Parola, si rende conto, da tale pregustazione, di cosa la sua fame brami del pascolo della Verità”.[21]
Avendo elevato gli exempla patrum sullo stesso piano della ispirazione delle Scritture, Gregorio Magno si può permettere di leggere perciò, con lo stesso metodo, le vite dei suoi uomini di Dio, così che anche nell’accostarsi a loro osserva che: alcuni si possono fermare al semplice racconto più o meno aneddotico e meraviglioso, dal punto di vista semplicemente umano; altri possono accedere all’allegoria che quelle stesse vite rivelano presenti in esse, grazie all’accostamento di figure analoghe dell’Antico e del Nuovo Testamento; altri infine si ritrovano compartecipi di una tale comprensione mistica della loro persona e del loro operato da poterli contemplare come già partecipi della vita paradisiaca che avevano da sempre desiderato.
Ecco perché Benedetto da Norcia completa il suo reditus ad paradisum sotto gli occhi dei suoi stessi discepoli, come racconta lo stesso Papa Gregorio, introducendo nel racconto del <Transitus> di Benedetto una voce celeste.
Infatti scrive:
Essi videro una strada ricoperta di tappeti, tutta risplendente di innumerevoli lampade, che partiva dalla sua cella e, in linea retta, verso Oriente, s’innalzava verso il cielo. Alla sua sommità si ergeva un uomo venerando, tutto circonfuso di luce che diceva: Questa è la via per la quale Benedetto, uomo amato dal Signore, sale al cielo (caelum ascendit)”.[22]
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[1] Cf o.c., pp.21-23.
[2] Ne parlo sintetizzando ciò che ho già trattato ampiamente nel mio libro: Guido Innocenzo Gargano, Il Libro la Parola e la Vita. L’esegesi biblica di Gregorio Magno, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013.
[3]  Giobbe, 6,35-36.Cf Il libro la Parola e la Vita, o.c., pp. 321.336.
[4] Ivi.
[5] Dialoghi 2, 8.
[6] Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c., p.291.
[7] Giobbe 5,24,16,
[8] Ivi.Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c., p.231.
[9] CfrIl Libro la Parola e la Vita, o.c., p.147.
[10] Giobbe 6, 35,48. Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c., pp.84-86.
[11] Giobbe, 6, 35, 38. Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c., p.147.
[12] Giobbe 6, 28,81.
[13] Dialogi 2,8.
[14] Dialogi 2,1.
[15] Cfr Il sapore dei Padri, o.c., pp128-165.
[16] Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c., pp.228-231.
[17] Dialogi 2,3,5.
[18] Dialoghi 1,4,1
[19] Dialoghi, i, 4, 8.11.12.16.
[20] Lettere, 5,46.
[21] Giobbe, 3, 16, 24.Cfr anche Il Libro la Parola e la Vita, o.c., pp.66-71.
[22] Dialoghi 2,37, 2-3.

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