P.Guido Innocenzo
Gargano
OSB Camaldolese
QUATTRO
ORE ACCADEMICHE SU GREGORIO MAGNO
Quarta Ora
I
presupposti culturali di Gregorio Magno
Il padre Calati insegnava che tutto il movimento teologico e
spirituale del secondo millennio della storia della Chiesa occidentale, almeno
a partire dalla nascita degli Ordini Mendicanti, è fortemente legato a ciò che
chiamiamo oggi Occidente, in cui manca l’accentuazione biblico-liturgica
che era stata invece alla base dell’universalismo missionario ecclesiale dei
Padri della Chiesa. Diversamente invece avevano agito Gregorio Magno, Agostino
di Canterbury, Bonifacio di Fulda e tutto il monachesimo anglo germanico che
faceva riferimento alla <Regula Benedicti>,
nell’evangelizzazione della Britannia e del Centro Nord dell’Europa.
I Padri della Chiesa - e Gregorio Magno era certamente uno di
loro - non avrebbero potuto inoltre fare a meno di restare all’interno della loro
contemporanea civiltà greco-romana. Essi agivano in un’atmosfera ben precisa,
che però era soltanto una cornice o una strada di cui servirsi per camminarci
sopra e andare oltre, portando pervicacemente con sé le Scritture ispirate
dell’Antico e del Nuovo Testamento lette alla luce della Tradizione Apostolica,
ma grazie anche all’uso degli strumenti culturali propri della cultura classica
greco-romana.
Ne sono conferma, in Occidente, le conversioni degli Angli,
dei Germani, dei Longobardi i quali, entrando in comunione con i poveri di Roma
o dell’impero romano, ricevevano il dono di poter cantare insieme con i popoli
romani o romanizzati l’alleluja ebraico nel momento stesso in
cui condividevano la propria cultura, e le proprie particolari sensibilità ed
esperienze di vita, con la cultura romana.
C’era un congiungimento naturale di poveri con i poveri, gli uni e gli
altri esurientes che condividevano la
stessa fede, la quale permetteva a tutti di sentirsi parte integrante dello
stesso popolo di Dio.
Tutto questo comporta però anche la necessità, per l’annunzio
del Vangelo, di non legarsi all’una o all’altra cultura ma piuttosto di
incarnarsi nelle forme transitorie di ogni cultura e di ogni civiltà senza
dimenticarsi mai di restare sempre in stato di esodo entrando continuamente in nuove terre promesse che
l’attendono pur permeando ognuna di loro con la presenza misteriosa dello
Spirito[1].
Tenere presenti certi contesti è determinante, perché spiega
come mai questa ermeneutica gregoriana, che sarà poi completata con l’ermeneutica agiografica, abbia nutrito
di fatto tutto il medioevo, arrivando fino alle soglie dell’età moderna[2].
Essendo io un discepolo di Padre Benedetto Calati ricordo anzitutto
ciò che mi insegnava questo maestro quando precisava che – cito a memoria – se interroghiamo
non solo la cornice ma anche il contenuto del quadro dipinto da Gregorio Magno e
ci chiediamo chi è di fatto colui che cammina, e come cammina, in quel dipinto,
allora non ritroviamo più in loro né l’Occidente né l’Imperialismo romano, ma
solo dei Profeti della Chiesa i quali, con la stessa coscienza dei profeti
biblici, si lasciavano portare dallo Spirito, profetizzando, come faceva appunto
Gregorio, sui tempi nuovi e sui popoli nuovi, consapevoli di individuare
in essi, e nel loro incontro con la Chiesa, ciò che le
Scritture dicevano a proposito dei profeti del primo Israele in cammino verso
l’evento della rivelazione del Mistero di Cristo.
Accenni ai <Quattro
Libri dei Dialoghi>
Una lettura, anche velocissima, dei Quattro Libri dei Dialoghi danno una idea abbastanza precisa di
tutto ciò che abbiamo appena tentato di dire.
Un principio ermeneutico di fondo che non possiamo fare a meno di
richiamare subito è dato da ciò che scrive Gregorio commentando Giobbe, 42,12:
“Queste stesse cose che
crediamo siano avvenute storicamente, noi speriamo che debbano realizzarsi
anche misticamente (haec historice facta credamus, haec mystice facienda
speramus)”.[3]
Questo principio vale, per il Papa di Roma, con riferimento
sia ai profeti dell’AT sia ai profeti del NT di cui fa parte l’intera storia
della Chiesa. Gregorio è infatti convinto che “Via via che il mondo presente volge verso la fine, il Signore consola
il dolore della santa Chiesa con un’abbondante raccolta di anime” che si
possono tranquillamente riconoscere dotate di spirito profetico, sia perché
realizzano le profezie presenti nell’AT con riferimento alla prima venuta del
Figlio nella carne; sia che preannunziano nel NT la seconda venuta dello stesso
Figlio di Dio nella gloria.[4]
Benedetto da Norcia, di cui Gregorio parla ampiamente in
tutto il suo Secondo Libro dei Dialoghi,
fu insieme, - spiega il Papa – uomo di Dio e lettore attentissimo dei Codici,
di tutti i Codici, ritenuti ispirati. Il che spiega perché egli possa essere
ritenuto “omnium iustorum spiritu plenus”[5]
sia perché antitypos, cioè
realizzazione, di tutti i typoi, cioè
modelli, che lo hanno preceduto nell’AT fino alla venuta del Figlio nella
carne; sia perché imago/eikon, a causa del suo essere già e non ancora, della profezia della
seconda venuta del Figlio nella gloria.
Le conseguenze nella
vita di Benedetto da Norcia.
Da ciò che è stato accennato a proposito di Benedetto da
Norcia si può trarre una duplice conseguenza e cioè: che per conoscere chi è
stato Benedetto da Norcia occorre conoscere tutti i modelli che lo hanno
preceduto nella storia della salvezza; e viceversa che, per conoscere tutti i
sensi nascosti in quegli stessi modelli, occorre familiarizzarsi con le parole
e i gesti compiuti da Benedetto da Norcia che li ha sintetizzati tutti nella
sua persona[6].
Ma questo tenendo anche conto che ciò che vale per Benedetto
da Norcia vale per tutti i <buoni> della storia della salvezza, i quali
sono divenuti come lui un alter Christus.
Da qui un corollario fondamentale dello stesso duplice
principio che si riassume nel famoso detto gregoriano. Viva lectio vita bonorum.[7]L’importanza
di questa convinzione di Gregorio Magno risulta in modo inequivocabile da una
pagina dei Moralia in Job in cui
Gregorio scrive testualmente:
“La vita dei buoni è
una pagina biblica vivente (Viva lectio est vita bonorum). Non
per nulla i giusti della sacra Scrittura sono chiamati libri, come sta scritto:
<Furono aperti i libri. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I
morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri> (Apc
20,12). Il libro della vita è la visione stessa del Giudice che verrà (Liber
namque vitae est ipsa visio advenientis iudicis). Si può dire che in esso sta scritto ogni precetto, perché chiunque lo vede
si rende subito conto, con la testimonianza della coscienza (teste
conscientia), di ciò che non ha fatto. Si
dice che furono aperti i libri, anche perché allora si vede la vita dei giusti
nei quali tutti scorgono impressi con le opere i comandamenti divini (iustorum
tunc vita conspicitur, in quibus mandata coelestia opera impressa cernuntur). I morti vengono giudicati in base a ciò che
è scritto in quei libri, perché nella vita dei giusti, che si presenta come un
libro aperto, essi leggono il bene che non vollero compiere e, al confronto con
quelli che l’hanno compiuto, vengono condannati. Affinché dunque nessuno allora
(tunc), vedendo quelli, pianga per
ciò che non avrà fatto, adesso ora (nunc) guardi in loro ciò che deve imitare. Questo è ciò che fanno
continuamente gli eletti. Essi osservano la vita dei migliori e correggono la
loro condotta deteriore (Meliorum namque vitam considerant et deterioris
usus conversationem mutant)”.[8]
Da una pagina come questa, appena letta, si può capire perché
Gregorio creda di potersi permettere di approfittare di tutto questo per
stabilire un principio ermeneutico che ritiene fondamentale: quello della
necessità che la comprensione spirituale di un qualunque testo suppone la
solidità del suo significato letterale
e lo rilancia verso un significato più profondo che egli chiama intelligenza spirituale: “La vita dei buoni, che per mezzo dello
Spirito Santo viene narrata, splenda ai nostri occhi in virtù dell’intelligenza
spirituale, senza che il significato si scosti dalla fedeltà alla storia[9].
Un richiamo molto preciso dunque al rispetto della veritas historica o al sensus litteralis del testo, sia esso
cartaceo che umano, che però impongono una tensione dovuta alla presenza
indispensabile in essi di un sensus spiritalis.
Scrive Gregorio: “Se le cose buone della
vita dei santi che conosciamo sono privi di verità, non valgono nulla; ma se
non contengono un mistero, valgono molto poco”.[10]
Da qui la preoccupazione del papa che, rivolgendosi ad ogni
eventuale lettore del testo, insiste: “l’animo
del lettore si faccia il più attento
possibile a ciò che legge, fissandolo bene nella sua mente, perché egli si
trova di fatto in una sorta di posizione centrale, dal momento che: da una
parte è orientato dalla speranza verso il futuro e dall’altra la fede lo tiene
strettamente legato al passato (Tanto fixior animus in suo intellectu
permaneat, quanto hunc quasi in quodam medio constitutum, et erga futura spes
et erga praeterita fides legat)”.[11]
Perciò Gregorio si azzarda a scrivere: “Tutti noi che, pieni di fede, osiamo parlare di Dio, siamo strumenti
della Verità. E la Verità può far sentire la sua voce per mezzo mio a un altro
o per mezzo di un altro a me (et in eiusdem veritatis potestate est, utrum
per me sonet alteri, an per alterum mihi). Essa
sta in mezzo a noi e ci tratta tutti con equità, anche se noi non sempre ci
comportiamo con equità (ipsa quippe in medium nostri, etiam non aeque
viventibus, omnibus aequa est)”.[12]
Tra questo insieme di tensioni si gioca in realtà, secondo il
pensiero di Gregorio, l’intera storia della nostra salvezza, che si svolge
tutta all’interno del simbolo dato dal riferimento al Paradisus.
Un simbolo determinante non soltanto per il suo riferimento
al passato, in cui il paradiso è stato spazio tragico della culpa della coppia umana e spazio in cui
è risuonata la promessa della salvezza da parte di Dio: ipsa conteret caput tuum; ma anche perché il suo riferimento al
futuro in cui il reditus ad paradisum
è sinonimo di salvezza recuperata o di promessa realizzata per tutti.
Per cui si può correttamente dire che l’esperienza della vita
dell’uomo sulla terra si ritrova effettivamente al centro: in quodam medio constitutum.
Dal punto di vista dell’esegesi del testo biblico cartaceo,
questa medietas del periodo della
vita umana comporta un’attenzione al senso
storico-letterale che non arrivi però mai a pretendere di essere l’unico
significato possibile, escludendo la spiritalis
intellegentia.
E, d’altra parte, essa risponde anche alla precomprensione
della filosofia classica, documentata da Horatius che insegnava: “In medio stat virtus. Sunt certi denique fines quos ultra citraque
nequit consistere rectum”.
In questo contesto non meraviglia nessuno la constatazione
che la prima conclusione che ne trae Gregorio stesso nel presentare il modello
di vita incarnato nel vir Dei Benedictus sia
quello di proporlo come un vir Dei, unificato e completo, perché pieno dello spirito di tutti i giusti (
omnium iustorum spiritu plenus)[13].
Il ritorno al Paradiso
di Benedetto
L’eroe di Gregorio, identificato con Benedetto da Norcia, sarà
perciò inevitabilmente dotato di un equilibrio e di una saggezza straordinari
fin dalla fanciullezza. Perciò il Papa lo descrive come qualcuno che “ha un cuore da anziano fin da bambino
mostrandolo come chi non ha mai ceduto a qualunque tipo di passione” (ab
initio pueritiae suae tempore cor gerens senile, aetaten moribus transiens,
nulli animum voluptati dedit)[14], in cui ovviamente voluptas sta per <esagerazione> e senile sta per <equilibrio precoce>.
Spostando la prospettiva in chiave biblica si potrebbe dire
che, per Gregorio Magno, Benedetto, avendo un carattere equilibrato, si ritrova
fin dalla fanciullezza in quella dimensione simbolica del Paradiso in cui la
promessa dell’ipsa conteret caput tuum
è più evidente della culpa della
coppia originaria di Adamo ed Eva.
In sostanza Benedetto, è consapevole fin da fanciullo – sta
dicendo Gregorio - che il suo legame col passato, temperato dalla speranza del
futuro, ha già preso posto nel suo cuore così che l’equilibrio (cor gerens
senile), lo caratterizza a tal punto che, superando le normali esigenze della
sua età (aeteatem moribus transiens), non
si è permesso nessuna esagerazione nel suo animo (nulli animum voluptati dedit).
Dal punto di vista del metodo esegetico si potrebbe dire che
il Benedetto proposto da Gregorio abbia come dote naturale ciò che gli antichi
filosofi, e Filone alessandrino in particolare[15],
indicavano come presupposto necessario per poter cogliere il senso profondo di
un qualunque testo scritto e particolarmente delle Scritture ispirate, il quale
si rende accessibile unicamente a chi si è dedicato all’askēsis, e cioè all’esercizio o allenamento che porta alla
pacificazione delle passioni (pathes)
grazie al sereno dominio dei sensi (aisthēseis)
esercitato dal logos.
Lo stesso metodo si può applicare però anche quando il testo
di riferimento è la persona umana a proposito della quale si può parlare negli
stessi termini, perché l’obiettivo che si intende raggiungere è quello di
ritrovarsi di nuovo come amico di Dio
attraverso il reditus ad paradisum dal
quale l’uomo si era ritrovato distante, a causa dell’eccessivo legame ai
piaceri della terra[16].
I gradini dell’ermeneutica
agiografica
Si possono stabilire in realtà dei veri e propri gradini sulla
scala <mistica> che permette all’uomo di ritornare in Paradiso. E
Benedetto Calati li individua nell’insieme della struttura del Secondo Libro dei Dialoghi là dove
Gregorio Magno propone di vedere in Benedetto da Norcia il programma per
antonomasia di un itinerario che si ripeterà, con qualche piccola correzione,
in ogni uomo di Dio di cui si parla nella tradizione monastica sia di Oriente
che di Occidente. Egli parla, per esempio, del succedersi di alcune tappe
progressive che rivelano altrettanti sensi nascosti nella vita o bios del monaco o
del credente, come se si trattasse di un approfondimento di un testo biblico.
Li riassumo brevemente sottolineando che, per Benedetto
Calati, questi gradini, sono motivati da un desiderio che li percorre tutti,
sintetizzato nell’espressione latina soli
Deo placere desiderans, che permette di recuperare lo spazio ideale in cui l’Adamo
originario può incontrarsi di nuovo con Dio per ricominciare a dialogare
serenamente con Lui alla brezza della sera, lasciandosi guidare dalle Sue
Parole e vivendo la realizzazione della profezia annunziata in Osea là dove Dio
decide: “L’attrarrò nel deserto e parlerò
al suo cuore come ai giorni del fidanzamento”.
Perciò il primo
movimento di questo ritorno mistico
al Paradiso di Eden è quello di occultarsi nella solitudine del deserto, ricevendo il mantello del monaco (si ricordi il filosofo
dell’antichità greca e latina) e in questa solitudine esercitarsi (si ricordi
l’askēsis dei filosofi), alla ricerca
della conoscenza di sé (si ricordi il gnothi
seauton), decidendo di habitare secum
sub superni Spectatoris oculis[17].Questo
primo movimento comporta dunque un uscire
per entrare in se stesso ed esporsi allo sguardo di Dio.
Il secondo movimento
ha inizio con una seconda esposizione
del monaco, ma questa volta alla tentazione
sintetizzata nel ricordo della donna
e della bontà e bellezza della sua carne che, come novella Eva, provoca il nuovo
Adamo e lo conduce sull’orlo del cedimento ai piaceri della carne, che però
viene evitato perché il ricordo della
croce di Cristo diviene per Benedetto una spinta incontenibile a identificarsi
con Cristo spargendo il proprio sangue insieme con quello di Lui.
Il terzo movimento
viene come frutto di risurrezione, perché si esprime nel dono di potersi
impegnare nella verginità perpetua e
nella preghiera continua, come era
successo al monaco Equizio, del quale nel suo Primo Libro dei Dialoghi Gregorio aveva scritto così:
“Equizio negli anni
della giovinezza si trovò impegnato in una dura lotta interiore contro le
tentazioni della carne, ma furono proprio quelle tremende prove a fare di lui
un uomo di preghiera. Poiché infatti con insistenti suppliche chiedeva
all’onnipotenza di Dio di venire liberato da simili tentazioni, una notte si
vide evirare con l’intervento di un angelo; nella visione gli parve che al suo
membro virile venisse tolta ogni vitalità. Da quel momento non conobbe più
tentazioni del genere, come se il suo corpo non avesse più sessualità”[18].
Nel quarto movimento
il monaco Benedetto, ormai divenuto in tutto e per tutto un vir Dei, e dunque un profeta portatore della Parola di Dio,
viene gratificato col dono della paternità spirituale (spiritalis paternitas), per cui il suo punto tipico di riferimento
non è più Adamo, ma Abramo, padre di
tutti i credenti. Questo riferimento ad Abramo permette a Gregorio di insinuare
la realizzazione della profezia contenuta in Abramo che si era sentito dire da
Dio: “Faciam te in gentem magnam”,
cioè: ti farò padre di una moltitudine di figli, con riferimento al numero
sterminato di monaci che sarebbero stati generati spiritualmente dal Patriarca
di Norcia.
Nel quinto movimento
l’orizzonte si allarga quasi a dismisura perché i gradini che adesso Benedetto
percorre per entrare nel suo Paradiso viene costellato dalla condivisione dei
doni di tutti i profeti e i giusti che si sono succeduti nella Storia della Salvezza. Egli infatti
dimostra di avere, l’uno dopo l’altro, quei dominia
che prima appartenevano al mundus
totus positus in Maligno, ma che
adesso il Signore ha posto sotto i suoi piedi dal momento che Benedetto è
divenuto un alter Christus.
Gregorio elenca questi doni uno dopo l’altro, come
necessariamente succede per chi può essere legittimamente definito spiritu omnium iustorum plenus, con una
serie di miracoli (mirabilia)
attribuiti a Benedetto, non preoccupandosi che si siano o meno verificati sul
piano della prova storica, quanto piuttosto che essi siano leggibili spiritualmente come avveramento delle profezie o degli
eventi narrati dalla Bibbia, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento.
Il Padre Calati li enumera in questa successione: dominium supra res, dominium supra eventus,
dominium supra potentes saeculi, dominium supra daemones, dominium supra res
spirituales. A proposito poi di quest’ultimo lo studioso camaldolese parla
di vero e proprio sacerdozio spirituale
inteso come sacerdozio carismatico extra
munus stricte jerarchicum. E, per spiegarsi meglio, rimanda allo stesso
Gregorio Magno il quale narra, sempre nel suo Primo Libro dei Dialoghi, e a proposito dello stesso monaco Equizio,
che si era messo a predicare, perché così si era sentito di fare per
ispirazione divina:
“Alcuni ecclesiastici fecero le loro rimostranze davanti al vescovo di
questa sede apostolica, dicendogli: <Chi è questo zoticone, che si è
arrogato il diritto di predicare e presume, ignorante com’è, di usurpare il
ministero della Parola proprio al nostro Pastore? Si mandi dunque, se crede,
qualcuno che lo conduca qui, così che conosca la forza e il rigore
dell’autorità ecclesiastica>. E’ normale che l’adulazione si insinui
facilmente in un animo assorbito da molte preoccupazioni, se non si è più che
pronti ad allontanarla dalla porta del cuore. Fu così che il pontefice,
sensibile alle striscianti parole di quei membri del clero, acconsentì che
Equizio venisse condotto a Roma, perché ridimensionasse l’ambito delle sue
competenze…Tuttavia il giorno dopo, alla luce crepuscolare dell’aurora,
Giuliano, l’inviato del Pontefice, si vide arrivare su un cavallo, stremato
dalla corsa veloce, un messaggero che gli portava una lettera, nella quale gli
si dava ordine di non toccare il servo di Dio e di guardarsi di allontanarlo
dal suo monastero. Mentre egli si chiedeva il perché di tale contrordine, venne
a sapere che, proprio nella notte in cui lui era stato inviato a Equizio, il
papa era rimasto fortemente impressionato da una visione che gli aveva apertogli
occhi sulla presunzione avuta di mandare a prendere quell’uomo di Dio”[19].
Durante tutto questo itinerario, che abbiamo potuto accostare
metaforicamente ad una vera e propria Scala
Paradisi, Gregorio Magno propone la quotidiana frequentazione degli Eloquia Dei come aveva già suggerito a
un medico laico incontrato a Costantinopoli raccomandadogli: “ (Cerca,
ti prego, di meditare ogni giorno le parole del tuo creatore; impara a
conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio, perché tu possa sentirti portato
più ardentemente verso le realtà eterne e così la tua mente si accenda sempre
di più di desiderio dei gaudii del cielo (Stude quaeso, et cotidie
creatoris tui verba meditare; disce cor Dei in verbis Dei, ut ardentius ad
aeterna suspires, ut mens vestra ad caelestia gaudia moaioribus desideriis
accendatur)”.[20]
C’è un bellissimo testo dei Moralia in Iob che credo sintetizzi molto bene ciò che Gregorio
Magno si aspetta che l’uomo di Dio sperimenti nei singoli passaggi dei quali
abbiamo appena parlato nel suo desiderato reditus
ad Paradisum e il godimento che cresce in ogni singola tappa di questo
itinerario mistico.
Scrive Gregorio in
quella pagina:
“L’Onnipotente ci colma
di delizie quando ci saziamo del suo amore al banchetto della Sacra Scrittura.
Sì, nelle sue parole noi troviamo tante delizie, quanti, via via che
progrediamo, sono diversi i significati che vi scopriamo (tot delicias
invenimus, quot ad profectum nostrum intellegentiae diversitates accipimus).
Alcune volte ci nutre
il semplice racconto
storico, altre volte ci ristora fino al
midollo l’allegoria morale velata
sotto il testo letterale; altre volte la contemplazione ci solleva fino alle vette più alte facendo già balenare, attraverso
le tenebre della vita presente, un raggio dell’eterna luce.
E si tenga presente
che, quando uno è colmato di delizie, si placa in qualche modo la sua tensione
interiore e, come per stanchezza, si allenta la sua applicazione; perché quando
l’anima comincia a gustare l’abbondanza delle delizie interiori, non trova più
gusto ad occuparsi delle cose terrene, ma, presa dall’amore di Dio, libera
ormai dalla propria schiavitù, sospira e viene meno per il desiderio di contemplare
la sua bellezza e, proprio dalla sua stanchezza, attinge vigore, poiché incapace ormai di portare pesi così gravosi
e, anche grazie alla quiete, si affretta verso Colui che interiormente ama (ad illum per quietem properat, quem
intus amat).
Ecco cosa ha fatto
scrivere l’ammirazione della sposa: <Chi è costei che ascende dal deserto
colmata di delizie?>. Se infatti la santa Chiesa non fosse colmata di
delizie dalla Parola di Dio, non potrebbe ascendere dal deserto della vita
presente verso i beni superiori. Essa è dunque colmata delle delizie e ascende
perché, nutrendosi con l’intelligenza dei senso mistici,
viene ogni giorno sollevata alla contemplazione delle realtà superne.
Ecco perché il Salmista
dice: <In mezzo alle mie delizie anche l’anima innamorata si ristora>,
perché con l’intelligenza
mistica, l’oscurità della vita presente
viene illuminata già dal fulgore del giorno che avanza; dimodoché, anche nel
buio di questa vita corruttibile, irrompe nel suo intelletto la forza della
luce futura e, pascendosi nelle delizie della Parola, si rende conto, da tale
pregustazione, di cosa la sua fame brami del pascolo della Verità”.[21]
Avendo elevato gli exempla
patrum sullo stesso piano della ispirazione delle Scritture, Gregorio Magno
si può permettere di leggere perciò, con lo stesso metodo, le vite dei suoi
uomini di Dio, così che anche nell’accostarsi a loro osserva che: alcuni si
possono fermare al semplice racconto
più o meno aneddotico e meraviglioso, dal punto di vista semplicemente umano;
altri possono accedere all’allegoria
che quelle stesse vite rivelano presenti in esse, grazie all’accostamento di
figure analoghe dell’Antico e del Nuovo Testamento; altri infine si ritrovano
compartecipi di una tale comprensione
mistica della loro persona e del loro operato da poterli contemplare come
già partecipi della vita paradisiaca che avevano da sempre desiderato.
Ecco perché Benedetto da Norcia completa il suo reditus ad paradisum sotto gli occhi dei
suoi stessi discepoli, come racconta lo stesso Papa Gregorio, introducendo nel
racconto del <Transitus> di
Benedetto una voce celeste.
Infatti scrive:
“Essi videro una strada
ricoperta di tappeti, tutta risplendente di innumerevoli lampade, che partiva
dalla sua cella e, in linea retta, verso Oriente, s’innalzava verso il cielo.
Alla sua sommità si ergeva un uomo venerando, tutto circonfuso di luce che
diceva: Questa è la via per la quale Benedetto, uomo amato dal Signore, sale al
cielo (caelum ascendit)”.[22]
_____ooOoo_____
[1] Cf o.c., pp.21-23.
[2] Ne parlo sintetizzando ciò che ho già
trattato ampiamente nel mio libro: Guido Innocenzo Gargano, Il Libro la Parola e la Vita. L’esegesi
biblica di Gregorio Magno, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013.
[4] Ivi.
[5] Dialoghi 2, 8.
[6] Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c.,
p.291.
[7] Giobbe 5,24,16,
[8] Ivi.Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c.,
p.231.
[9] CfrIl Libro la Parola e la Vita, o.c., p.147.
[10] Giobbe 6, 35,48. Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c.,
pp.84-86.
[11] Giobbe, 6, 35, 38. Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c., p.147.
[12] Giobbe 6, 28,81.
[13] Dialogi 2,8.
[14] Dialogi 2,1.
[15] Cfr Il sapore dei Padri, o.c., pp128-165.
[16] Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c.,
pp.228-231.
[17] Dialogi 2,3,5.
[18] Dialoghi 1,4,1
[19] Dialoghi, i, 4, 8.11.12.16.
[20] Lettere, 5,46.
[21] Giobbe, 3, 16, 24.Cfr anche Il Libro la Parola e la Vita, o.c.,
pp.66-71.
[22] Dialoghi 2,37, 2-3.
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