Parco Archeologico Religioso CELio

Parco Archeologico Religioso CELio
".... energia rinnovabile UOMO"

Terza Ora



P.Guido Innocenzo Gargano
OSB Camaldolese

QUATTRO ORE ACCADEMICHE SU GREGORIO MAGNO

                                 
       
Terza Ora

La Chiesa di Roma ai tempi di Gregorio Magno[1]
Date importanti e situazione concreta
Gregorio Magno:
nasce intorno al 540 circa;
monaco nel 573;
apocrisario a Costantinopoli dal 579 al 586 circa;
papa dal 3 settembre 590;
muore il 12 marzo 604.
La Chiesa di Roma si ritrovava, negli anni della vita di Gregorio, in una situazione disastrata dal punto di vista politico, sociale, economico, culturale e religioso con in più la prepotenza dei Longobardi che condizionavano in tutto e per tutto la città di Roma e non solo.


La situazione era disastrosa dunque su diversi piani:  
quello politico, perché l’Imperatore di Bisanzio latitava a causa della sua debolezza intrinseca data la situazione molto difficile che regnava in Italia, nonostante l’esarcato bizantino di Ravenna;
sociale, perché la povertà la faceva da padrona e le pestilenze si succedevano l’una dopo l’altra;
economico, perché le risorse erano al lumicino al punto che di fatto la città faceva affidamento soprattutto sulle risorse alimentari fornite dalla chiesa;
culturale, perché erano crollate o annientate quasi del tutto, nonostante l’effimera riforma voluta da Narsete, biblioteche e scuole degne di questo nome, al punto che si poté parlare di Gregorio come dell’ultimo romano che avesse potuto fruire della cultura classica;
religioso, perché la chiesa era dilaniata da continui conflitti generati dal famoso Concilio dei <Tre capitoli> Costantipolitano II (535) voluto da Giustiniano.

Accenni sulla vita di Gregorio[2]
Gregorio –come abbiamo già accennato - provenendo da famiglia senatoriale, percorre i vari gradi del cursus honorum dei suoi tempi fino a diventare la massima autorità civile della città di Roma col titolo di Praefectus Urbi.
Ha appena deciso di farsi monaco (573) nel suo palatium senatoriale di Clivo degli Scauri, trasformato in monastero, quando il papa gli comanda di partire (579) per essere suo Apocrisario presso l’Imperatore di Costantinopoli.
Al suo ritorno da Costantinopoli diviene diacono (588), ma appena due anni dopo viene acclamato Vescovo dal popolo romano dopo la morte per peste di Pelagio II (7 febbraio 590) e consacrato, nonostante le sue resistenze, il 3 settembre dello stesso anno.
L’incarico di vescovo di Roma turba molto Gregorio, che oltretutto non sta affatto bene di salute. Un testo molto bello permette di entrare nei sentimenti più profondi che agitano Gregorio con l’elezione al pontificato. Si tratta di una lettera scritta all’amico Leandro di Siviglia (fratello del più conosciuto Isidoro di Siviglia) inviata nell’aprile del 591 in cui leggiamo righe come queste:
Sono stato sbattuto in questo posto da così tanti flutti mondani da non poter assolutamente dirigere in porto la vecchia e infracidita nave che, per occulta disposizione di Dio, ho accettato di reggere.
Ora i flutti mi prendono a prua, ora le onde spumeggianti del mare si innalzano di lato, ora la tempesta mi incalza a poppa.
Turbato fra tutti questi assalti, ora sono costretto a prendere con il timone la tempesta di fronte, ora, curvato il fianco della nave, a evitare di traverso le minacce delle acque.
Gemo perché sento che cresce, per mia negligenza, la sentina dei vizi e che, incalzando forte la tempesta, le tavole già imputridite della nave fanno prevedere il naufragio. Piangendo ricordo il sereno lido della mia quiete (placidum litus quietis) e, sospirando, guardo alla terra che tuttavia, per il forte vento contrario delle occupazioni, non riesco a raggiungere.
Se mi ami davvero, fratello mio carissimo, tendimi la mano della tua preghiera fra questi flutti, e sappi che se tu porgi a me l’aiuto che ti chiedo in queste mie difficoltà avrai in contraccambio la ricompensa di essere forte anche tu nelle tue inevitabili fatiche” (Lettere I, 41).[3]
Per quanto vi sia molta ars retorica in righe come queste, non si può negare che per Gregorio accettare il fardello pesante del pontificato romano fu un grosso sacrificio. Tutti gli storici sono, del resto, concordi nel constatare che Papa Gregorio si rendeva benissimo conto di essere di fronte ad anni molto difficili vessati da grandi calamità naturali e grossi e radicali cambiamenti politici e sociali, che avrebbero segnato la storia del mondo, e dell’Occidente romano in particolare, per molte generazioni future.[4]
Scriveva Charles Pietri:
“Quando nel 593, il papa detta le sue Omelie su Ezechiele è l’anno in cui Agilulfo, re dei Longobardi, si sta avvicinando a Roma col gran frastuono delle sue armi distruttive. Il povero Papa non può fare a meno di evocare dolente nelle sue omelie pianti e lamenti, delle città distrutte, della terra incolta e desertificata, che accompagna l’avanzata incontenibile del re barbaro verso la città eterna. Il suo cuore di romano umiliato da un barbaro viene scosso in profondità e tuttavia sa che il suo dovere di vescovo lo costringe a condividere in tutto e per tutto la tragedia in cui si ritrova il suo popolo. Nutrito intensamente dalla fede, ha però un guizzo paradossale di speranza: si sta compiendo per Roma – grida - ciò che diceva un giorno il profeta Nahum di fronte alle rovine della grande Ninive” (Nahum 2,12).[5] E l’autorevole storico spiegava: “Questo lamento di Gregorio sulla città di Roma non era puro divertimento retorico, perché davvero l’urbe non solo aveva già subìto, a partire dal 410, ben quattro assedi e presto ne stava per subire un quinto (nel 592), e inoltre la peste, dilagando feroce a tre riprese, stava decimando una popolazione già sottoposta alla prova indicibile di diverse guerre”[6].
Gregorio ne deduceva, reagendo sempre da credente, che si fosse, di fatto, negli ultimi tempi escatologici dei quali si leggeva nei Vangeli. E dunque che eventi così traumatici e drammatici occorresse leggerli sull’orizzonte di una escatologia ormai imminente.
Ciò nonostante il Papa restava convinto che, messi di fronte a queste enormi tragedie, non ci si potesse assolutamente lasciare travolgere dalla disperazione, perché era lo stesso vangelo a rassicurare l’attesa di cieli nuovi e di terre nuove che preannunciavano il tempo del ristabilimento del Regno di Dio in una nuova storia.  
Non si trattava affatto dunque di mettersi mani giunte e basta ad attendere inoperosi il tempo del ritorno del Signore, ma piuttosto di affrettarne la venuta con opere generose per non essere ritrovati da Lui, al suo ritorno, con le mani vuote.
Il Papa si preoccupava perciò di insistere nel ricercare una rinascita spirituale, materiale e culturale della città e del popolo romano, restaurando monumenti l’uno dopo l’altro, costruendo monasteri maschili e femminili, e fornendo le biblioteche di scriptorium, comprando manoscritti da copiare per garantire la continuità del sapere tramandato dagli antichi, fossero stati essi pagani o cristiani poco importa. 
Secondo Papa Gregorio le profezie bibliche andrebbero lette e spiegate, per quanto possibile, con esplicito riferimento alla storia contemporanea per cui si dovrebbe cercare di ritrovare una sorta di realizzazione di quelle stesse profezie appunto nel presente. Da qui la sua decisa ermeneutica allegorica delle Scritture con chiarissima prospettiva morale.
Nel mettere in pratica questa sua intuizione il Papa di Roma utilizzava ovviamente tutte le conoscenze metodologiche e culturali che aveva acquisito non soltanto nella sua formazione scolastica, legata ai grandi scrittori della classicità latina e greca, ma anche nell’esperienza prolungata vissuta a Costantinopoli, che era, a quei tempi, centro per eccellenza della cultura universale. A questo aggiungeva una profonda conoscenza delle opere di Agostino, di Ambrogio, di Girolamo e dell’Origene latino, Padri ritenuti già ai suoi tempi come classici a Roma e in tutta la pars Imperii dell’Occidente latino.
Qualcuno ha pensato di circoscrivere il desiderio culturale di Papa Gregorio unicamente alle fonti cristiane, ma i fatti smentiscono questa riduzione. Gregorio, riconosciuto come ultimo degli antichi Padri e primo dei Padri medievali, era amante della cultura simpliciter e non selezionata o discriminante. Infatti i suoi missionari inviati in Britannia portavano con sé non soltanto i codici della fede cristiana, ma anche i classici latini e greci. La metodologia ermeneutica poi, proposta dai filosofi dell’Antichità per la conoscenza approfondita di un determinato testo, soprattutto se ritenuto ispirato dalle Muse o dalla divinità, faceva parte anch’essa del bagaglio di ogni persona colta ai tempi di Gregorio Magno[7], pur restando certamente vero che, per lui, la senescenza obsoleta dell’urbs pagana, si opponeva alla urbs christiana come la Gerusalemme terrena di Paolo si opponeva alla Gerusalemme celeste.  
La visione teologica proposta da Gregorio non trascurava, ma anzi poneva in necessaria continuità le due città, come scriveva al suo discepolo Agostino di Canterbury quando gli raccomandava di non distruggere né i Templi né le consuetudini di vita degli Angli convertiti, ma piuttosto di rispettarli scrupolosamente accontentandosi solo del loro passaggio dall’idolatria alla fede senza umiliare in nulla le loro abitudini e dunque le loro culture locali alle quali erano ovviamente affezionati [8]. 
Il confronto, che a Gregorio viene spontaneo, tra la città di Roma marcescens in semetipsa insieme col Senatus populusque romanus e ciò che era destinata ad essere la coelestis urbs, supponeva una continuità che non si riduceva unicamente al nome. La Roma nuova da lui immaginata, e che sognava dovesse nascere dalla conversione dei popoli che irrompevano dal Nord, lasciava in ogni caso prevedere - e Papa Gregorio ne era certo - i cieli nuovi e la terra nuova dell’escatologia cristiana.
Da qui il decisivo contesto escatologico da cui nasceva tutta l’opera esegetica, morale, monastica e pastorale di Gregorio Magno[9].
Secondo padre Benedetto Calati, che ne scriveva nel lontano 1967[10], Gregorio era convinto che, nonostante le distruzioni del suo mondo romano, al quale era molto affezionato, si stesse realizzando nei suoi anni, appunto con le emigrazioni bibliche delle quali era spettatore, un vero e proprio trapasso da un mondo vecchio ad un mondo nuovo. Roma aeterna, ritenuta intramontabile, non era dunque altro che profezia in atto dell’unica storia di salvezza pensata misteriosamente da Dio, che si sarebbe conclusa soltanto con l’ingresso di tutti nella Gerusalemme celeste.
Una deduzione simile aveva tratto, del resto, già Agostino di Ippona, messo di fronte a eventi analoghi, come quello del primo sacco di Roma del 410, nel suo capolavoro De Civitate Dei[11], messo di fronte all’inizio di un processo storico che avrebbe trovato il suo drammatico e ineluttabile compimento proprio negli anni di Gregorio.
I barbari che bussavano alle porte di Roma non erano altro perciò, per Gregorio Magno, che i poveri ed i reietti del mondo che bussavano alla porta della Chiesa, in cui si stava formando, anche grazie a loro, il nuovo popolo di Dio già preannunziato dai profeti di Israele. 
Gregorio Magno, papa e monaco, leggeva insomma le emigrazioni dei barbari entro i confini dell’impero romano come una sorta di continuità profetica tra il vecchio, (analogato a Israele) e il nuovo (analogato alla Chiesa). Si trattava infatti, secondo lui, semplicemente di un passaggio dalla profezia alla realizzazione della profezia stessa, come avviene quando si dice che il Vecchio Testamento si avvera nel Nuovo[12].
Gregorio era convintissimo poi che il Nuovo Testamento comprendesse anche tutto il tempo della storia della Chiesa fino alla venuta del Signore glorioso[13].
Una simile profonda convinzione permetteva al Papa di Roma di sentirsi una sorta di profeta analogo a quelli che avevano profetato in Israele. Perciò vestendo, in qualche modo, i panni di quegli stessi profeti, si sentiva autorizzato ad applicare alla Chiesa dei suoi tempi la stessa visione profetica, per esempio, di Ezechiele, così da intravedere nella fusione dei nuovi popoli con gli eredi della società romana, una sorta di riproposizione della famosa visione delle ossa aride di cui si parla nel libro di Ezechiele (Ez 37).
Nell’uno e nell’altro caso infatti il dono dello Spirito, presente nella Parola biblica, permetteva – pensava Gregorio - la rinascita ad una vita che, ritenuta perduta, ora veniva ritrovata grazie alle energie di nuovi popoli che rivitalizzavano radici ormai disseccate, permettendo così il formarsi di un popolo nuovo come quello realizzato da Dio nel passaggio dall’Antico al Nuovo Israele, reso possibile dalla realtà della Chiesa. 
Il Nuovo Tempio, di cui si parla nello stesso libro di Ezechiele (Ez 40), viene così, a sua volta, realizzato nella conversione dei popoli pagani che, convertendosi a Cristo, immettono - sosteneva Papa Gregorio - energie fresche nel Tempio identificato col popolo di Dio, facendolo risorgere dalle sue rovine e preparandolo agli eventi della escatologia finale.
La lettura dei testi degli antichi profeti, sui quali Gregorio si fermava, soprattutto nelle sue Omelie su Ezechiele diveniva perciò estremamente attuale, ma non in senso moralistico o, come si direbbe oggi, pastorale, ma piuttosto nel senso di una vera e propria contemplazione della storia della salvezza che permetteva, a suo dire, di passare dal semplice significato letterale dovuto alla narrazione storica del passato e del presente, al suo senso più concreto e attuale di manifestazione del mysterium salutis che si rendeva manifesto a chiunque fosse in grado di leggere il tutto secondo il suo significato spirituale. Dove però lo <spirituale> non si identificava affatto con una qualsiasi forma di spiritualismo più o meno banale o col pastoralismo a buon mercato, ma era niente meno che una illuminazione proveniente dallo Spirito Santo.
Succede come quando l’ombra – ragionava Gregorio[14] -  proiettata in avanti da un corpo che cammina con la luce alle spalle, lascia intravedere particolarità sempre più precise dello stesso corpo che sta per arrivare. Aggiungendo che, quando questo corpo, arrivando, si rende pienamente manifesto, la luce del tempo escatologico che aveva avuto l’alba con l’Antico Testamento e il suo mezzogiorno con la venuta del Verbo fatto carne, proietta in avanti una luce la cui fonte è Lui stesso, per cui si viene costretti a compiere una vera e propria torsione per poter proseguire a camminare nel cammino della fede.
Dallo sguardo rivolto verso il passato si passa infatti, in questo caso, ad uno sguardo rivolto verso il futuro autorizzato dal presente, per cui se prima ci si lasciava guidare dall’ombra, adesso ci si deve lasciar guidare direttamente dalla luce.
Il processo era unico, ma il passaggio dall’ombra alla luce del Verbo Incarnato che prosegue a mostrare la sua presenza nella Chiesa, permetteva di parlare di una realtà nuova che lascia intravedere, come un già e non ancora la manifestazione piena della stessa luce che si manifesterà in pienezza con la seconda venuta del Figlio di Dio della Gloria. 
Così quello stesso corpo, la cui ombra prima ne anticipava la venuta, si trasformava adesso in vera e propria fonte di luce che, grazie alla Resurrezione: da una parte, rivelava il senso dei misteri profetici accaduti in fatti e personaggi del passato lontano, identificato con l’AT; dall’altra, lasciava intravedere il futuro, altrettanto lontano, in fatti e personaggi della storia del NT, cioè della Chiesa.
Così i mirabilia Dei dell’AT si riproponevano di nuovo, in modo analogo, nel NT. E la storia del presente diveniva una sorta di torcia paradossale che, mentre metteva a fuoco l’uno o l’altro evento del passato, ne scopriva il loro analogo e progressivo avverarsi nel presente che diventava così preannunzio attivo, continuo e progressivamente più chiaro, del pieno compimento escatologico atteso nel prossimo futuro. Le nostre generazioni possono essere infatti “fuori del tempo ma non fuori dal mistero (extra tempus sed non extra mysterium[15].
Scriveva Gregorio: “Quanto mundus ad extremitatem ducitur tanto nobis divinae scientiae adytus largius aperitur (Quanto più il mondo va verso il suo compimento, tanto più si fa ampio per noi l’ingresso alla scienza delle cose di Dio)”[16].
E in realtà tutta l’opera omiletica di Gregorio è una continua applicazione di questo suo principio ermeneutico. Esso però comporta un coinvolgimento assai impegnativo dell’omileta stesso, chiamato a leggere con estrema attenzione non soltanto il testo biblico, e simultaneamente la storia, ma anche la propria quotidiana risposta personale dove, con questo termine, si intende coinvolgere anche la sua continua relazione con la comunità alle parole ispirate che lo raggiungono attraverso il libro biblico. Proprio questo comporta infatti il prendere sul serio l’assioma gregoriano che dice: “Divina eloquia cum legente crescunt[17].
In questo modo viene allora, in un certo senso, ridimensionata, per non dire azzerata, qualunque pretesa di riuscire a comprendere oggettivamente il senso della Scrittura ispirata senza in-tenderla anche soggettivamente, ricordando sempre che nel soggettivo non c’è mai l’individuo preso nella sua singolarità, ma c’è sempre l’intera esperienza e intelligenza del popolo di Dio, dal momento che mai l’ermeneuta può pretendere di avvicinare il testo separandosi dall’insieme del corpo che è la Chiesa in cui è compreso anche il mondo nella sua globalità.
Un altro assioma presente in Gregorio, anche se letterariamente utilizzato nel Medioevo dai suoi discepoli, è infatti che “Ecclesia legit et tenet librum scripturarum[18].
In diverse occasioni Gregorio rivendica questo principio ermeneutico che è convinto di condividere insieme col suo popolo di ascoltatoti, rivelando, per esempio, che molte volte il senso vero di un testo biblico che lui aveva cercato di conoscere nella sua ricerca notturna personale, lo aveva ritrovato soltanto quando, dovendone comunque parlare, si era esposto allo sguardo dei fedeli che, per ciò stesso, gli rivelava dove stava la fonte della sua stessa personale spiegazione[19]. 
E’ chiaro che, in questo caso, non si trattasse di una verità cosiddetta scientifica e universale, da perseguire con l’asetticità propria di un cosiddetto scienziato, col metodo cosiddetto scientifico, o storico critico, ma piuttosto del frutto di una relazione continua e di una intimità progressiva tra lo Spirito presente nella scrittura ispirata e lo Spirito presente nell’uomo inserito in una comunità di credenti, che vi accede con l’intelligenza della fede e con i mezzi che la sua cultura mette a disposizione. Si trattava insomma sì di un senso storico, ma non di quello riferito all’autore, ma di quello riferito al testo, che era continuamente in movimento, come è in movimento la storia stessa in cui quel testo veniva trasmesso e continuamente spiegato.
Al centro della comprensione del testo biblico non c’è mai dunque – nel pensiero di Gregorio - una verità oggettiva, accessibile a prescindere dalla relazione di un soggetto preciso che, inserito nella sua comunità, si relaziona con essa, venendone continuamente modificato.
La sollecitazione che deriva dall’expositio del testo alla fede del popolo di Dio, affina l’intelligenza del ricercatore e della comunità stessa, per cui l’omileta viene messo in grado, insieme ad essa, di permettere allo Spirito di fare continuamente nuove scoperte nel testo stesso.
Un fenomeno del genere costringe a concludere che, nel caso del testo biblico, l’ispirazione non si riferisce soltanto a ciò che è successo al momento della sua elaborazione testuale, ma è un accadimento continuo in cui lo stesso Spirito, che abita il testo, ispira dall’interno di sé chiunque abbia disponibilità ad incontralo.
L’antico lascito ermeneutico di Platone, che collegava la conoscenza soltanto alla syngheneia o connaturalità col testo stesso, è confermato totalmente da Gregorio il quale lo condivide, del resto, con l’insieme dei Padri della Chiesa.[20]
Questo insieme di riflessioni permette di concludere che è indispensabile non fermarsi mai al solo sensus auctoris rintracciato con l’ausilio della sua contestualizzazione storica, tecnica e culturale verificata nel momento o nei momenti in cui il testo è stato composto. Si impone infatti anche la necessità di proseguire la ricerca del senso del testo (sensus textus) preso in se stesso, dal momento che ha dato e dà origine a conoscenze sempre nuove.
Il testo, una volta edito, dissemina di sé – come insegnano i nostri ermeneuti contemporanei -  intere generazioni, sollecitandole a riconoscere, appunto nel testo, sensi altrettanto diversi quanto sono diversi i lettori che gli si sono avvicinati e che gli si avvicineranno sempre, lungo tutte le generazioni umane, sino alla fine dei tempi.
Un’altra metafora, anch’essa presente nel libro di Ezechiele, permetteva a Gregorio Magno di confermare nelle stesse Omelie su Ezechiele, le due letture precedenti relative alle ossa aride e al Tempio. Si tratta della metafora della pentola, la quale, dopo aver permesso la bollitura della carne e delle ossa, in essa contenute, viene consumata a sua volta dallo stesso fuoco (Ez 24).
La pentola - spiega Gregorio - è metafora dell’Impero romano e della Chiesa. Infatti queste due istituzioni, dopo aver consunto la carne e le ossa in esse contenute, non hanno potuto evitare di bruciare esse stesse, come risulta davanti agli occhi di tutti coloro che constatano il venir meno del potere del popolo romano che diminuisce a vista d’occhio nelle rovine dei suoi monumenti creduti perenni e nella esautorazione delle sue istituzioni che marciscono in se stesse una dopo l’altra nell’urbs che pur un tempo veniva ritenuta aeterna. Vale questo anche per la istituzioni della Chiesa? Secondo il pensiero di Gregorio sembrerebbe di sì.
Scrive letteralmente Gregorio: “Di essa (cioè della pentola profezia di Roma, compresa l’istituzione ecclesiastica presente in essa) è stato ben detto: E’ terminata la sua cottura e le ossa si sono sfatte, perché è venuta meno in questi nostri tempi quella gloria mondana della città che si era imposta prima con tanta forza”. Infatti si chiede sgomento: “Dov’è adesso il senato? Dov’è il popolo? La pompa delle dignità di questo mondo è svanita. Tutto è bollito. Anche noi pochi che restiamo, siamo ogni giorno colpiti dalla spada, ogni giorno oppressi da afflizioni senza numero. Siamo costretti a sentir gridare anche noi il profeta che dice: <mettete la pentola sul fuoco anche se vuota>! Infatti non c’è più il Senato, il popolo è sparito, e sofferenze dolore e rovine cadono pesantemente sulle spalle di chi riesce ancora a sopravvivere, mentre Roma già brucia e tutti i suoi abitanti si danno alla fuga. Constatiamo ormai tutti che si sta consumando perfino la pentola che era servita a distruggere carni e ossa, gli uomini sono fuggiti e tutto va in rovina”.[21]
Per un uomo credente come Gregorio, non tutto, nonostante tutto, è perduto; anzi proprio questa distruzione può e deve essere letta, alla luce della fede, come inizio addirittura di una vita nuova, a tal punto da poter perfino cantare con i pochi cittadini rimasti: “Cantemus cum gaudio Creatori nostro, Gaudeamus”, perché ciò che aveva cantato il profeta Isaia sul secolo futuro si sta avverando proprio adesso in Roma e nella sua Chiesa, grazie alla conversione degli Angli alla fede cattolica.
E il Papa Gregorio spiegava:
Noi fummo idolatri nei nostri avi, eppure ora, per grazia di Dio, possiamo già proclamare parole che risuonano di armonia celeste (Sed ecce per Spiritum gratiae verba iam coelestia rimamur)[22], constatando che il Redentore del genere umano ha adempiuto davanti ai nostri occhi ciò che aveva previsto il Profeta Isaia, quando aveva preannunciato che: gli stranieri avrebbero mangiato i frutti di deserti diventati ubertosi (Is 5,17).
Queste parole – proseguiva speranzoso Gregorio – poterono sembrare senza senso agli orecchi dei Giudei carnali, perché non si curavano del senso mistico della Scrittura. Esse invece sono pregne di un sapore straordinario per noi che le intendiamo in senso spirituale. E così succede che noi, benché stranieri rispetto al popolo giudaico, ci nutriamo adesso di quegli stessi cibi che i cittadini legittimi si rifiutarono di gustare”.[23]
Gregorio Magno legge anche il libro che parla delle sofferenze di Giobbe con la stessa prospettiva appena segnalata. Infatti – faceva notare già padre Calati[24] – Giobbe è semplicemente il simbolo del pagano che entra a far parte del popolo di Dio, attraverso la sua disponibilità ad abbracciare afflizione, dolore e povertà, nella speranza che tutto sia solo annunzio di speranza e germe di una vita piena di fecondità.
E’ con questa speranza che il Papa di Roma sentiva ormai vicini i cieli nuovi e la terra nuova dell’Apocalisse. In questa stessa prospettiva escatologica Gregorio decideva però, nonostante tutto, di inviare i monaci dal suo monastero celimontano di Roma, nella lontana Britannia per stabilirvi le <tende> del Dio di Israele e così offrire a popoli assolutamente nuovi la possibilità di far parte anch’essi della Storia del popolo di Dio, attraverso l’innesto sul tronco della Chiesa di Roma. Si ripropone forse in tutto questo la profezia dell’Arca di Noè realizzata in questo NT continuamente in atto?
Quei monaci missionari inviati in Britannia da Gregorio, divenivano in ogni caso degli apostoli consapevoli che, così facendo, imitavano Paolo, perché come lui aveva aperto i confini di Israele per permettere anche ai Gentili di essere parte del popolo di Dio, così anch’essi avevano aperto i confini di Roma per includervi popoli assolutamente nuovi come gli Anglosassoni.
Succedeva così – notava ancora padre Calati[25] - che proprio nel cuore di ciò che era stato una volta il grande Impero romano potesse risuonare, attraverso i monaci celimontani, la stessa voce profetica dell’Apostolo, rivelando ai Barbari la loro nuova dignità e immettendoli in una storia sacra, intesa come historia salutis assolutamente universale, come aveva già profetizzato Isaia all’antico popolo di Israele.
La notizia della conversione degli Angli alla fede cristiana metteva letteralmente le ali al pensiero di Gregorio Magno che si permetteva di invitare in piena omelia tutto il popolo romano a godere, nonostante tutte le sue sofferenze del momento, di ciò che si stava realizzando nelle lontane terre del Nord Europa, con parole come queste:
“Gaudeamus; in nobis impletum est quod per Isaiam dictum est, (Godiamo perché si sta compiendo oggi davanti ai nostri occhi, la profezia di Isaia), quando diceva: Voi canterete come si fa la notte in cui si celebra la festa con immensa letizia nel cuore”.[26]
Commentava ancora padre Calati[27]: “E’ questa la grandezza autentica della Chiesa; una grandezza insuperabile, perché associata intimamente al senso profetico della Storia della salvezza sempre in atto, sia pur nell’umiltà e nella povertà che dovrebbe accompagnare sempre la Chiesa”. Il riferimento alla scena del discorso di Gesù nella sinagoga di Nazareth, registrato nel capitolo quarto del Vangelo secondo Luca è inevitabile.
Padre Calati proseguiva:
 “Gregorio sviluppò in realtà una profonda teologia della gentilità. Egli era infatti convinto che l’ingresso di popoli nuovi nella Chiesa costituisse una componente fondamentale della teologia della storia intesa appunto come historia salutis; per cui l’emigrazione di tanti popoli, carichi di sofferenza inaudita sia in coloro che lasciavano la propria terra sia in coloro che se la sentivano invadere da estranei, rivelasse in sostanza una dinamica realizzazione del Mysterium salutis”[28].
Dobbiamo allora concludere che all’occhio profetico di Gregorio Magno l’ingresso dei barbari nella Chiesa appariva come una realizzazione, che avveniva sotto gli occhi di tutti, del progetto della salvezza universale, pensato da Dio prima ancora della creazione del mondo (Ef, 1,1-4).
Anche il personaggio biblico che portava il nome di Giobbe e che era un gentile, cioè uno straniero per gli Ebrei, diventava per il Papa di Roma, simbolo profetico per eccellenza della nuova realtà del popolo di Dio. E questo non solo perché veniva proposto dalla Scrittura stessa, ma anche perché riassumeva nella sua persona l’umanità sofferente di tutte le generazioni passate presenti e future di questa nostra terra.
Tutto questo ci permette di chiarire che uno degli apporti più importanti del pensiero di Gregorio Magno alla vita della Chiesa, e ciò che lo rende particolarmente attuale proprio oggi per noi, che siamo alla ricerca di un’omiletica finalmente incisiva nelle nostre assemblee di credenti, sia questa lucida consapevolezza di fede che permette di leggere la storia del popolo di Dio, di cui si parla nell’Antico e nel Nuovo Testamento, come una sorta di paradigma, lui avrebbe detto figura o profezia, di ciò che si ripete di tanto in tanto, nella storia del mondo.
E non solo questo, ma anche aggiungendo, come abbiamo già detto, che “Quanto più il mondo si avvicina al suo compimento storico, tanto più ampia si fa la conoscenza del progetto di Dio (Quanto mundus ad extremitatem ducitur, tanto nobis divinae scientiae adytus largius aperitur)”[29].
Tenuto conto di questo non si può fare a meno di ricordare che, forse senza essere consapevoli fino in fondo delle conseguenze che ne potrebbero derivare, i Padri del Concilio Vaticano II, dichiarando che la Chiesa, nelle sue leggi, nelle sue istituzioni e perfino nei suoi sacramenti, porta la figura fugace di questo mondo, stavano citando proprio Gregorio Magno!
Perché allora nutrire tanta paura per i cambiamenti? Non aveva forse già Agostino di Ippona ricordato con una certa solennità nel suo De Doctrina christiana che “coloro che sono ben fondati e resi stabili dalla fede, speranza e carità (non indigent Scripturis nisi ad alios instruendos)”?[30].
Con simili riflessioni Gregorio Magno si immetteva chiaramente nel pensiero agostiniano già presente nel De Civitate Dei, ma con l’aggiunta di una più piena coscienza escatologica. Questa sua accentuazione, se da una parte comportava un approccio alla storia che gli permetteva di passare tranquillamente dalla figura alla realtà nella lettura della Bibbia; dall’altra gli evitava di parlare negli stessi termini quando si riferiva all’antica civiltà greco-romana. Quest’ultima infatti, essendo profondamente segnata dal predominio dei criteri mondani contestati radicalmente dal Vangelo, non potevano avere la stessa valenza dei primi che erano stati abitati invece dal continuo riferimento al mysterium salutis cui si riferisce costantemente la Bibbia attraverso esodi, esili, ritorni e sconfitte che portavano già dentro di sé il germe della salvezza garantita a tutti: Questo è il sangue della Nuova ed eterna Alleanza, versata per voi e per tutti in remissione dei peccati recitiamo tutti noi cristiani nella Divina Liturgia Eucaristica. 
Gregorio aveva servito con onestà, competenza e dedizione la sua societas romana, giungendo ai livelli più alti della responsabilità politica, ma la personale conversione alla vita monastica non gli permetteva più di portarsi dietro il cattivo odore di quell’uomo vecchio del suo passato con cui aveva rotto una volta per tutte.
Mentre perciò il Papa riconosceva al popolo ebraico, una funzione speciale nella <oikonomia salutis>, ritenendolo tuttora portatore di una profezia in atto, che stava concludendosi nei suoi stessi giorni ritenuti escatologici, all’Impero romano, non intendeva riconoscere alcuna capacità analoga. E questo potrebbe fare problema a tutti noi oggi. Non si dovrebbe però dimenticare che Gregorio piangeva con lacrime sincere sulla fine di Roma e sulla fine del suo impero, perché era profondamente affezionato alla sua patria; e tuttavia bisogna anche ammettere che non c’era disperazione nel suo pianto, perché quella storia da lui detestata era quella stessa storia che apparteneva al “mundus totus positus in Maligno”, e non alla <historia salutis> pensata da Dio prima ancora della creazione del mondo. Una punta di incompletezza nella esposizione del completo mistero cristologico così come era stato definito a Calcedonia nel 451?
Da attento lettore di san Paolo, Gregorio Magno era comunque convinto che esistesse solo un troncone, quello preannunciato dai Profeti di Israele, che continuava nella Chiesa, su cui, come ad un resto o residuo, si potevano e si dovevano innestare tutti i Barbari chiamati ad accogliere il Vangelo di Dio. E tuttavia egli era anche convinto che si diventa <uomini di Dio>, vivendo nello spirito dei Padri che ci hanno preceduti, e cioè nello spirito di Abele, Noè e non soltanto di Abramo, perché Abramo, e Gesù stesso, affondano le proprie radici semplicemente in Adamo e dunque nell’intera umanità.
Il padre Calati poteva perciò precisare che per Gregorio Magno, nonostante le imprecisioni che si possono trovare qua e là nei sui scritti, “non c’era altra strada che potesse permettere la pienezza di un’autentica realizzazione umana senza appartenere ad un unicum genus. E questo con tutte le conseguenze che ne derivavano anche a proposito dell’identità stessa della Chiesa che gli permettevano di dichiarare solennemente che: Ab Abel sanguine passio iam coepit Ecclesiae. Dunque per Gregorio Magno la chiesa è semplicemente l’umanità[31].
Convinzione che permette al papa di Roma di utilizzare lo stessissimo paradigma anche per dare senso alle distinzioni presenti nel corpo ecclesiastico propriamente detto. Padre Calati poteva perciò scrivere: “Al di sopra di ogni categoria del cosiddetto triplice ordine – chierici, monaci e laici o chierici e laici – c’era senza dubbio, per Gregorio Magno, un genus remotum che si sintetizzava tutto nel vocabolo <electus>.
Egli parlava spesso di unusquisque…quisque electus, per sottolineare che tutti i membri dell’umanità sono degli <eletti>. Tra di loro ci possono certamente essere alcuni che vengono individuati come rectores animarum, altri come continentes e altri semplicemente come fideles, ma tutti, assolutamente tutti sono parte integrante della mirabilis dispositio Spiritus,[32]perché appartengono in radice all’unicum genus al di là di ogni distinzione sociologica o istituzionale.[33] E questo sia con riferimento alla Chiesa che con riferimento alla società. Il che spiega perché Gregorio si richiamasse costantemente alla fede dei suoi ascoltatori durante le omelie, insegnando – oggi si direbbe democraticamente - che il dono di una migliore comprensione della verità appartiene sempre alla totalità del popolo, compresi i barbari, ultimi arrivati a far parte esplicitamente o istituzionalmente, del popolo di Dio.[34]
_____ooOoo_____



[1] Cf , Gregorio Magno e il suo tempo. XIX Incontro di studiosi dell’antichità cristiana in collaborazione con l’Ecole Francaise de Rome, Roma 9-12 Maggio 1990. Studia Ephemeridis <Agustinianum> 33, Roma 1991.
[2] VediVera Paronetto, Gregorio Magno. Un maestro alle origini cristiane. Introduzione di Jean Leclercq, Edizioni Studium, Roma 1985.
[3] Opere di Gregorio Magno V,I, Lettere (I-III), a cura di Vincenzo Recchia, Città Nuova Editrice, Roma 1996, p.195.
[4] Cf Charles Pietri, La Rome de Grégoire, in <Studia Ephemeridis Augustinianum>, 33, pp. 9-32.
[5] Cf  o.c., pp.10-11..
[6] O.c., p.12.
[7] Cfr Guido Innocenzo Gargano, Il sapore dei Padri della Chiesa. Una introduzione, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2009.
[8] Cfr  Vera Paronetto, Gregorio Magno. Un maestro alle origini cristiane d’Europa, Ed.Studium, Roma 1985.
[9] Cfr Guido Innocenzo Gargano, Il Libro la Parola e la Vita. L’esegesi biblica di Gregorio Magno, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2013, pp. 33-51.
[10] Cf  Benedetto Calati, Gregorio Magno e il dialogo missionario del monachesimo medievale, <vita monastica> XXI n.88 (1967) 11. Da questo breve articolo ho attinto tutto ciò che riferisco come pensiero di Padre Benedetto Calati sul modo di fare omiletica pastorale da parte di Gregorio Magno, nel contesto della comunità ecclesiale dei suoi tempi.
[11] Cfr A.Trapè, R.Russel, S.Cotta, Introduzione a La città di Dio, I, (Libri I-X), bilingue con testo latino a fronte, Città Nuova, Roma1978, pp.XI-CLII.
[12] Cfr Benedetto Calati, Gregorio Magno e l’opera missionaria, o.c., pp. 11- e seguenti.
[13] Scriveva Gregorio; “Il NT terminerà quando il Signore compirà ciò che di sé ha promesso…Infatti quando si vedrà colui di cui si parla, cesseranno le parole del medesimo Testamento” (Hom. In Hiezechielem, 2,4,14.15).
[14] Vedi Guido Innocenzo Gargano, Il Libro la Parola e la vita. L’esegesi biblica di Gregorio Magno, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2013, pp. 45-46.
[15] Hom. In Hiezechielem 2,3,16. Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c, pp.40-45; 286-288.
[16] Hom. In Hiezechielem, 2,4,12. Cfr Guido Innocenzo Gargano, La Lectio divina nella vita dei credenti, Ed. san Paolo, Cinisello Balsamo 2008, pp.54-55.
[17] Hom. In Hiezechielem, 1, 7,8.9. Cfr Guido Innocenzo Gargano, Il sapore dei Padri della Chiesa. Una Introduzione, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, pp.318-325.
[18] Ugo di Rouen, Dialogorum Libri.V, 12, Patrologia Latina 192, col.1206D.
[19] Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c., pp.52-55.
[20] Cfr Guido Innocenzo Gargano, Il sapore dei Padri della Chiesa nell’esegesi biblica, o.c. pp.87-91.
[21] Cf Hom. In Hiezechielem, liber II, homelia VI, 21, PL 76, coll. 1010C-1011°.
[22] O.c., col 1009.
[23] Cf Hom. In Hiezechielem,  Lib I, Omelia III, 19, PL 76,814C.
[24] Cfr l’articolo già citato.
[25] Vedi o.c.
[26] Ivi, Cf Hom. In Hiezechielem,  Lib I, Omelia III, 19, PL 76, col 1009CD.
[27] B.Calati, Gregorio Magno e il dialogo, o.c., pp. 14-15.
[28] Ivi.
[29] Hom. In Hiezechielem, 2,4,12.
[30]Homo itaque fide, spe et charitate subnixus, eaque inconcusse retinens, non indiget Scripturis nisi ad alios instruendos”, (De Doctrina christiana) I, 39,43. Traduzione italiana di V.Tarulli, Roma 1992, p.67.
[31] O.c., p.16.
[32] Moralia in Iob, lib I, XXV, 34.
[33] Gregorio Magno e il dialogo, o.c.,p. 17.
[34] Cf ivi, pp.17-18.

Nessun commento: