P.Guido Innocenzo
Gargano
OSB Camaldolese
QUATTRO
ORE ACCADEMICHE SU GREGORIO MAGNO
Terza Ora
La Chiesa
di Roma ai tempi di Gregorio Magno[1]
Date importanti e situazione concreta
Gregorio Magno:
nasce intorno al 540 circa;
monaco nel 573;
apocrisario a Costantinopoli dal 579 al 586
circa;
papa dal 3 settembre 590;
muore il 12 marzo 604.
La Chiesa di Roma si ritrovava, negli anni della vita di
Gregorio, in una situazione disastrata dal punto di vista politico, sociale,
economico, culturale e religioso con in più la prepotenza dei Longobardi che condizionavano
in tutto e per tutto la città di Roma e non solo.
La situazione era disastrosa dunque su diversi piani:
quello politico,
perché l’Imperatore di Bisanzio latitava a causa della sua debolezza intrinseca
data la situazione molto difficile che regnava in Italia, nonostante l’esarcato
bizantino di Ravenna;
sociale, perché la povertà la faceva da
padrona e le pestilenze si succedevano l’una dopo l’altra;
economico, perché le risorse erano al lumicino
al punto che di fatto la città faceva affidamento soprattutto sulle risorse
alimentari fornite dalla chiesa;
culturale, perché erano crollate o annientate
quasi del tutto, nonostante l’effimera riforma voluta da Narsete, biblioteche e
scuole degne di questo nome, al punto che si poté parlare di Gregorio come
dell’ultimo romano che avesse potuto fruire della cultura classica;
religioso, perché la chiesa era dilaniata da
continui conflitti generati dal famoso Concilio dei <Tre capitoli>
Costantipolitano II (535) voluto da Giustiniano.
Accenni sulla vita di
Gregorio[2]
Gregorio –come abbiamo già accennato - provenendo da famiglia senatoriale, percorre i vari gradi
del cursus honorum dei suoi tempi
fino a diventare la massima autorità civile della città di Roma col titolo di Praefectus Urbi.
Ha appena deciso di farsi monaco
(573) nel suo palatium senatoriale di Clivo degli
Scauri, trasformato in monastero, quando
il papa gli comanda di partire (579) per essere suo Apocrisario presso l’Imperatore di Costantinopoli.
Al suo ritorno da Costantinopoli diviene diacono (588), ma appena due anni dopo viene acclamato Vescovo dal popolo romano dopo la morte
per peste di Pelagio II (7 febbraio 590) e consacrato, nonostante le sue
resistenze, il 3 settembre dello stesso anno.
L’incarico di vescovo di Roma turba molto Gregorio, che oltretutto
non sta affatto bene di salute. Un testo molto bello permette di entrare nei sentimenti
più profondi che agitano Gregorio con l’elezione al pontificato. Si tratta di
una lettera scritta all’amico Leandro di Siviglia (fratello del più conosciuto
Isidoro di Siviglia) inviata nell’aprile del 591 in cui leggiamo righe come
queste:
“Sono stato sbattuto in
questo posto da così tanti flutti mondani da non poter assolutamente dirigere
in porto la vecchia e infracidita nave che, per occulta disposizione di Dio, ho
accettato di reggere.
Ora i flutti mi
prendono a prua, ora le onde spumeggianti del mare si innalzano di lato, ora la
tempesta mi incalza a poppa.
Turbato fra tutti
questi assalti, ora sono costretto a prendere con il timone la tempesta di
fronte, ora, curvato il fianco della nave, a evitare di traverso le minacce
delle acque.
Gemo perché sento che
cresce, per mia negligenza, la sentina dei vizi e che, incalzando forte la
tempesta, le tavole già imputridite della nave fanno prevedere il naufragio.
Piangendo ricordo il sereno lido della mia quiete (placidum litus quietis) e,
sospirando, guardo alla terra che tuttavia, per il forte vento contrario delle
occupazioni, non riesco a raggiungere.
Se mi ami davvero,
fratello mio carissimo, tendimi la mano della tua preghiera fra questi flutti, e
sappi che se tu porgi a me l’aiuto che ti chiedo in queste mie difficoltà avrai
in contraccambio la ricompensa di essere forte anche tu nelle tue inevitabili
fatiche” (Lettere I, 41).[3]
Per quanto vi sia molta ars
retorica in righe come queste, non si può negare che per Gregorio accettare
il fardello pesante del pontificato romano fu un grosso sacrificio. Tutti gli
storici sono, del resto, concordi nel constatare che Papa Gregorio si rendeva
benissimo conto di essere di fronte ad anni molto difficili vessati da grandi
calamità naturali e grossi e radicali cambiamenti politici e sociali, che
avrebbero segnato la storia del mondo, e dell’Occidente romano in particolare,
per molte generazioni future.[4]
Scriveva Charles Pietri:
“Quando nel 593, il papa detta le sue Omelie su Ezechiele è l’anno in cui Agilulfo, re dei Longobardi, si
sta avvicinando a Roma col gran frastuono delle sue armi distruttive. Il povero
Papa non può fare a meno di evocare dolente nelle sue omelie pianti e lamenti, delle
città distrutte, della terra incolta e desertificata, che accompagna l’avanzata
incontenibile del re barbaro verso la città eterna. Il suo cuore di romano
umiliato da un barbaro viene scosso in profondità e tuttavia sa che il suo
dovere di vescovo lo costringe a condividere in tutto e per tutto la tragedia in
cui si ritrova il suo popolo. Nutrito intensamente dalla fede, ha però un guizzo
paradossale di speranza: si sta compiendo per Roma – grida - ciò che diceva un
giorno il profeta Nahum di fronte alle rovine della grande Ninive” (Nahum 2,12).[5]
E l’autorevole storico spiegava: “Questo lamento di Gregorio sulla città di
Roma non era puro divertimento retorico, perché davvero l’urbe non solo aveva
già subìto, a partire dal 410, ben quattro assedi e presto ne stava per subire
un quinto (nel 592), e inoltre la peste, dilagando feroce a tre riprese, stava
decimando una popolazione già sottoposta alla prova indicibile di diverse
guerre”[6].
Gregorio ne deduceva, reagendo sempre da credente, che si
fosse, di fatto, negli ultimi tempi escatologici dei quali si leggeva nei
Vangeli. E dunque che eventi così traumatici e drammatici occorresse leggerli
sull’orizzonte di una escatologia ormai imminente.
Ciò nonostante il Papa restava convinto che, messi di fronte
a queste enormi tragedie, non ci si potesse assolutamente lasciare travolgere
dalla disperazione, perché era lo stesso vangelo a rassicurare l’attesa di
cieli nuovi e di terre nuove che preannunciavano il tempo del ristabilimento
del Regno di Dio in una nuova storia.
Non si trattava affatto dunque di mettersi mani giunte e
basta ad attendere inoperosi il tempo del ritorno del Signore, ma piuttosto di
affrettarne la venuta con opere generose per non essere ritrovati da Lui, al
suo ritorno, con le mani vuote.
Il Papa si preoccupava perciò di insistere nel ricercare una
rinascita spirituale, materiale e culturale della città e del popolo romano,
restaurando monumenti l’uno dopo l’altro, costruendo monasteri maschili e
femminili, e fornendo le biblioteche di scriptorium,
comprando manoscritti da copiare per garantire la continuità del sapere
tramandato dagli antichi, fossero stati essi pagani o cristiani poco importa.
Secondo Papa Gregorio le profezie bibliche andrebbero lette e
spiegate, per quanto possibile, con esplicito riferimento alla storia
contemporanea per cui si dovrebbe cercare di ritrovare una sorta di
realizzazione di quelle stesse profezie appunto nel presente. Da qui la sua
decisa ermeneutica allegorica delle
Scritture con chiarissima prospettiva
morale.
Nel mettere in pratica questa sua intuizione il Papa di Roma
utilizzava ovviamente tutte le conoscenze metodologiche e culturali che aveva
acquisito non soltanto nella sua formazione scolastica, legata ai grandi
scrittori della classicità latina e greca, ma anche nell’esperienza prolungata
vissuta a Costantinopoli, che era, a quei tempi, centro per eccellenza della
cultura universale. A questo aggiungeva una profonda conoscenza delle opere di
Agostino, di Ambrogio, di Girolamo e dell’Origene latino, Padri ritenuti già ai
suoi tempi come classici a Roma e in tutta la pars Imperii dell’Occidente latino.
Qualcuno ha pensato di circoscrivere il desiderio culturale
di Papa Gregorio unicamente alle fonti cristiane, ma i fatti smentiscono questa
riduzione. Gregorio, riconosciuto come ultimo degli antichi Padri e primo dei
Padri medievali, era amante della cultura simpliciter e non selezionata o
discriminante. Infatti i suoi missionari inviati in Britannia portavano con sé
non soltanto i codici della fede cristiana, ma anche i classici latini e greci.
La metodologia ermeneutica poi, proposta dai filosofi dell’Antichità per la
conoscenza approfondita di un determinato testo, soprattutto se ritenuto
ispirato dalle Muse o dalla divinità, faceva parte anch’essa del bagaglio di
ogni persona colta ai tempi di Gregorio Magno[7],
pur restando certamente vero che, per lui, la senescenza obsoleta dell’urbs pagana, si opponeva alla urbs christiana come la Gerusalemme terrena di Paolo si opponeva
alla Gerusalemme celeste.
La visione teologica proposta da Gregorio non trascurava, ma
anzi poneva in necessaria continuità le due città, come scriveva al suo
discepolo Agostino di Canterbury quando gli raccomandava di non distruggere né
i Templi né le consuetudini di vita degli Angli convertiti, ma piuttosto di
rispettarli scrupolosamente accontentandosi solo del loro passaggio
dall’idolatria alla fede senza umiliare in nulla le loro abitudini e dunque le
loro culture locali alle quali erano ovviamente affezionati [8].
Il confronto, che a Gregorio viene spontaneo, tra la città di
Roma marcescens in semetipsa insieme col
Senatus populusque romanus e ciò che era destinata ad essere la coelestis urbs, supponeva una continuità
che non si riduceva unicamente al nome. La Roma nuova da lui immaginata, e che
sognava dovesse nascere dalla conversione dei popoli che irrompevano dal Nord,
lasciava in ogni caso prevedere - e Papa Gregorio ne era certo - i cieli nuovi e la terra nuova
dell’escatologia cristiana.
Da qui il decisivo contesto escatologico da cui nasceva tutta
l’opera esegetica, morale, monastica e pastorale di Gregorio Magno[9].
Secondo padre Benedetto Calati, che ne scriveva nel lontano
1967[10],
Gregorio era convinto che, nonostante le distruzioni del suo mondo romano, al
quale era molto affezionato, si stesse realizzando nei suoi anni, appunto con
le emigrazioni bibliche delle quali era spettatore, un vero e proprio trapasso
da un mondo vecchio ad un mondo nuovo. Roma
aeterna, ritenuta intramontabile, non era dunque altro che profezia in atto dell’unica storia di
salvezza pensata misteriosamente da Dio, che si sarebbe conclusa soltanto con
l’ingresso di tutti nella Gerusalemme
celeste.
Una deduzione simile aveva tratto, del resto, già Agostino di
Ippona, messo di fronte a eventi analoghi, come quello del primo sacco di Roma
del 410, nel suo capolavoro De Civitate
Dei[11],
messo di fronte all’inizio di un processo storico che avrebbe trovato il suo
drammatico e ineluttabile compimento proprio negli anni di Gregorio.
I barbari che bussavano alle porte di Roma non erano altro
perciò, per Gregorio Magno, che i poveri ed i reietti del mondo che bussavano
alla porta della Chiesa, in cui si stava formando, anche grazie a loro, il
nuovo popolo di Dio già preannunziato dai profeti di Israele.
Gregorio Magno, papa e monaco, leggeva insomma le emigrazioni
dei barbari entro i confini dell’impero romano come una sorta di continuità
profetica tra il vecchio, (analogato a Israele)
e il nuovo (analogato alla Chiesa).
Si trattava infatti, secondo lui, semplicemente di un passaggio dalla profezia
alla realizzazione della profezia stessa, come avviene quando si dice che il
Vecchio Testamento si avvera nel Nuovo[12].
Gregorio era convintissimo poi che il Nuovo Testamento
comprendesse anche tutto il tempo della storia della Chiesa fino alla venuta
del Signore glorioso[13].
Una simile profonda convinzione permetteva al Papa di Roma di
sentirsi una sorta di profeta analogo a quelli che avevano profetato in
Israele. Perciò vestendo, in qualche modo, i panni di quegli stessi profeti, si
sentiva autorizzato ad applicare alla Chiesa dei suoi tempi la stessa visione
profetica, per esempio, di Ezechiele, così da intravedere nella fusione dei
nuovi popoli con gli eredi della società romana, una sorta di riproposizione
della famosa visione delle ossa aride
di cui si parla nel libro di Ezechiele (Ez
37).
Nell’uno e nell’altro caso infatti il dono dello Spirito,
presente nella Parola biblica, permetteva – pensava Gregorio - la rinascita ad
una vita che, ritenuta perduta, ora veniva ritrovata grazie alle energie di
nuovi popoli che rivitalizzavano radici ormai disseccate, permettendo così il
formarsi di un popolo nuovo come quello realizzato da Dio nel passaggio
dall’Antico al Nuovo Israele, reso possibile dalla realtà della Chiesa.
Il Nuovo Tempio, di
cui si parla nello stesso libro di Ezechiele (Ez 40), viene così, a sua volta, realizzato nella conversione dei
popoli pagani che, convertendosi a Cristo, immettono - sosteneva Papa Gregorio
- energie fresche nel Tempio identificato col popolo di Dio, facendolo
risorgere dalle sue rovine e preparandolo agli eventi della escatologia finale.
La lettura dei testi degli antichi profeti, sui quali
Gregorio si fermava, soprattutto nelle sue Omelie
su Ezechiele diveniva perciò estremamente attuale, ma non in senso
moralistico o, come si direbbe oggi, pastorale, ma piuttosto nel senso di una
vera e propria contemplazione della
storia della salvezza che permetteva, a suo dire, di passare dal semplice significato letterale dovuto alla
narrazione storica del passato e del presente, al suo senso più concreto e
attuale di manifestazione del mysterium
salutis che si rendeva manifesto a chiunque fosse in grado di leggere il
tutto secondo il suo significato
spirituale. Dove però lo <spirituale>
non si identificava affatto con una qualsiasi forma di spiritualismo più o meno banale o col pastoralismo a buon mercato, ma era niente meno che una
illuminazione proveniente dallo Spirito
Santo.
Succede come quando l’ombra – ragionava Gregorio[14]
- proiettata in avanti da un corpo che
cammina con la luce alle spalle, lascia intravedere particolarità sempre più
precise dello stesso corpo che sta per arrivare. Aggiungendo che, quando questo
corpo, arrivando, si rende pienamente manifesto, la luce del tempo escatologico
che aveva avuto l’alba con l’Antico Testamento e il suo mezzogiorno con la
venuta del Verbo fatto carne, proietta in avanti una luce la cui fonte è Lui
stesso, per cui si viene costretti a compiere una vera e propria torsione per poter proseguire a
camminare nel cammino della fede.
Dallo sguardo rivolto verso il passato si passa infatti, in
questo caso, ad uno sguardo rivolto verso il futuro autorizzato dal presente,
per cui se prima ci si lasciava guidare dall’ombra, adesso ci si deve lasciar
guidare direttamente dalla luce.
Il processo era unico, ma il passaggio dall’ombra alla luce
del Verbo Incarnato che prosegue a mostrare la sua presenza nella Chiesa,
permetteva di parlare di una realtà nuova che lascia intravedere, come un già e non ancora la manifestazione
piena della stessa luce che si manifesterà in pienezza con la seconda venuta
del Figlio di Dio della Gloria.
Così quello stesso corpo, la cui ombra prima ne anticipava la
venuta, si trasformava adesso in vera e propria fonte di luce che, grazie alla
Resurrezione: da una parte, rivelava il senso dei misteri profetici accaduti in
fatti e personaggi del passato lontano, identificato con l’AT; dall’altra,
lasciava intravedere il futuro, altrettanto lontano, in fatti e personaggi
della storia del NT, cioè della Chiesa.
Così i mirabilia Dei
dell’AT si riproponevano di nuovo, in modo analogo, nel NT. E la storia del
presente diveniva una sorta di torcia paradossale che, mentre metteva a fuoco
l’uno o l’altro evento del passato, ne scopriva il loro analogo e progressivo
avverarsi nel presente che diventava così preannunzio attivo, continuo e
progressivamente più chiaro, del pieno compimento escatologico atteso nel
prossimo futuro. Le nostre generazioni possono essere infatti “fuori del tempo ma non fuori dal mistero
(extra tempus sed non extra mysterium”[15].
Scriveva Gregorio: “Quanto
mundus ad extremitatem ducitur tanto nobis divinae scientiae adytus largius
aperitur (Quanto più il mondo va verso il suo compimento, tanto più si fa ampio
per noi l’ingresso alla scienza delle cose di Dio)”[16].
E in realtà tutta l’opera omiletica di Gregorio è una
continua applicazione di questo suo principio ermeneutico. Esso però comporta
un coinvolgimento assai impegnativo dell’omileta stesso, chiamato a leggere con
estrema attenzione non soltanto il testo biblico, e simultaneamente la storia,
ma anche la propria quotidiana risposta personale dove, con questo termine, si
intende coinvolgere anche la sua continua relazione con la comunità alle parole
ispirate che lo raggiungono attraverso il libro biblico. Proprio questo
comporta infatti il prendere sul serio l’assioma gregoriano che dice: “Divina eloquia cum legente crescunt”[17].
In questo modo viene allora, in un certo senso,
ridimensionata, per non dire azzerata, qualunque pretesa di riuscire a
comprendere oggettivamente il senso
della Scrittura ispirata senza in-tenderla
anche soggettivamente, ricordando
sempre che nel soggettivo non c’è mai
l’individuo preso nella sua singolarità, ma c’è sempre l’intera esperienza e
intelligenza del popolo di Dio, dal momento che mai l’ermeneuta può pretendere
di avvicinare il testo separandosi dall’insieme del corpo che è la Chiesa in
cui è compreso anche il mondo nella sua globalità.
Un altro assioma presente in Gregorio, anche se
letterariamente utilizzato nel Medioevo dai suoi discepoli, è infatti che “Ecclesia legit et tenet librum scripturarum”[18].
In diverse occasioni Gregorio rivendica questo principio
ermeneutico che è convinto di condividere insieme col suo popolo di
ascoltatoti, rivelando, per esempio, che molte volte il senso vero di un testo
biblico che lui aveva cercato di conoscere nella sua ricerca notturna
personale, lo aveva ritrovato soltanto quando, dovendone comunque parlare, si
era esposto allo sguardo dei fedeli che, per ciò stesso, gli rivelava dove
stava la fonte della sua stessa personale spiegazione[19].
E’ chiaro che, in questo caso, non si trattasse di una verità
cosiddetta scientifica e universale, da perseguire con l’asetticità propria di un cosiddetto scienziato, col metodo
cosiddetto scientifico, o storico critico, ma piuttosto del frutto
di una relazione continua e di una intimità progressiva tra lo Spirito presente nella scrittura ispirata e lo Spirito presente nell’uomo inserito in una comunità di credenti,
che vi accede con l’intelligenza della fede e con i mezzi che la sua cultura
mette a disposizione. Si trattava insomma sì di un senso storico, ma non di quello riferito all’autore, ma di quello riferito al testo, che era continuamente
in movimento, come è in movimento la storia stessa in cui quel testo veniva
trasmesso e continuamente spiegato.
Al centro della comprensione del testo biblico non c’è mai
dunque – nel pensiero di Gregorio - una verità oggettiva, accessibile a
prescindere dalla relazione di un soggetto preciso che, inserito nella sua
comunità, si relaziona con essa, venendone continuamente modificato.
La sollecitazione che deriva dall’expositio del testo alla fede del popolo di Dio, affina
l’intelligenza del ricercatore e della comunità stessa, per cui l’omileta viene
messo in grado, insieme ad essa, di permettere allo Spirito di fare
continuamente nuove scoperte nel testo stesso.
Un fenomeno del genere costringe a concludere che, nel caso
del testo biblico, l’ispirazione non si riferisce soltanto a ciò che è successo
al momento della sua elaborazione testuale, ma è un accadimento continuo in cui
lo stesso Spirito, che abita il testo, ispira dall’interno di sé chiunque abbia
disponibilità ad incontralo.
L’antico lascito ermeneutico di Platone, che collegava la
conoscenza soltanto alla syngheneia o
connaturalità col testo stesso, è
confermato totalmente da Gregorio il quale lo condivide, del resto, con
l’insieme dei Padri della Chiesa.[20]
Questo insieme di riflessioni permette di concludere che è
indispensabile non fermarsi mai al solo sensus
auctoris rintracciato con l’ausilio della sua contestualizzazione storica, tecnica e culturale verificata
nel momento o nei momenti in cui il testo è stato composto. Si impone infatti
anche la necessità di proseguire la ricerca del senso del testo (sensus
textus) preso in se stesso, dal momento che ha dato e dà origine a
conoscenze sempre nuove.
Il testo, una volta edito, dissemina di sé – come insegnano i
nostri ermeneuti contemporanei - intere
generazioni, sollecitandole a riconoscere, appunto nel testo, sensi altrettanto
diversi quanto sono diversi i lettori che gli si sono avvicinati e che gli si
avvicineranno sempre, lungo tutte le generazioni umane, sino alla fine dei
tempi.
Un’altra metafora, anch’essa presente nel libro di Ezechiele,
permetteva a Gregorio Magno di confermare nelle stesse Omelie su Ezechiele, le due letture precedenti relative alle ossa aride e al Tempio. Si tratta della metafora della pentola, la quale, dopo aver permesso la bollitura della carne e
delle ossa, in essa contenute, viene consumata a sua volta dallo stesso fuoco (Ez 24).
La pentola - spiega
Gregorio - è metafora dell’Impero romano
e della Chiesa. Infatti queste due
istituzioni, dopo aver consunto la carne e le ossa in esse contenute, non hanno
potuto evitare di bruciare esse stesse, come risulta davanti agli occhi di
tutti coloro che constatano il venir meno del potere del popolo romano che
diminuisce a vista d’occhio nelle rovine dei suoi monumenti creduti perenni e
nella esautorazione delle sue istituzioni che marciscono in se stesse una dopo
l’altra nell’urbs che pur un tempo
veniva ritenuta aeterna. Vale questo
anche per la istituzioni della Chiesa? Secondo il pensiero di Gregorio
sembrerebbe di sì.
Scrive letteralmente Gregorio: “Di essa (cioè della pentola
profezia di Roma, compresa l’istituzione ecclesiastica presente in essa) è
stato ben detto: E’ terminata la sua
cottura e le ossa si sono sfatte, perché è venuta meno in questi nostri
tempi quella gloria mondana della città che si era imposta prima con tanta
forza”. Infatti si chiede sgomento: “Dov’è
adesso il senato? Dov’è il popolo? La pompa delle dignità di questo mondo è
svanita. Tutto è bollito. Anche noi pochi che restiamo, siamo ogni giorno
colpiti dalla spada, ogni giorno oppressi da afflizioni senza numero. Siamo
costretti a sentir gridare anche noi il profeta che dice: <mettete la
pentola sul fuoco anche se vuota>! Infatti non c’è più il Senato, il popolo
è sparito, e sofferenze dolore e rovine cadono pesantemente sulle spalle di chi
riesce ancora a sopravvivere, mentre Roma già brucia e tutti i suoi abitanti si
danno alla fuga. Constatiamo ormai tutti che si sta consumando perfino la
pentola che era servita a distruggere carni e ossa, gli uomini sono fuggiti e
tutto va in rovina”.[21]
Per un uomo credente come Gregorio, non tutto, nonostante
tutto, è perduto; anzi proprio questa distruzione può e deve essere letta, alla
luce della fede, come inizio addirittura di una vita nuova, a tal punto da
poter perfino cantare con i pochi cittadini rimasti: “Cantemus cum gaudio Creatori nostro, Gaudeamus”, perché ciò che
aveva cantato il profeta Isaia sul secolo futuro si sta avverando proprio
adesso in Roma e nella sua Chiesa, grazie alla conversione degli Angli alla
fede cattolica.
E il Papa Gregorio spiegava:
“Noi fummo idolatri nei
nostri avi, eppure ora, per grazia di Dio, possiamo già proclamare parole che
risuonano di armonia celeste (Sed ecce per Spiritum gratiae verba iam
coelestia rimamur)[22], constatando che il Redentore del genere
umano ha adempiuto davanti ai nostri occhi ciò che aveva previsto il Profeta
Isaia, quando aveva preannunciato che: gli stranieri avrebbero mangiato i
frutti di deserti diventati ubertosi (Is 5,17).
Queste parole – proseguiva speranzoso Gregorio – poterono sembrare senza senso agli orecchi
dei Giudei carnali, perché non si curavano del senso mistico della Scrittura.
Esse invece sono pregne di un sapore straordinario per noi che le intendiamo in
senso spirituale. E così succede che noi, benché stranieri rispetto al popolo
giudaico, ci nutriamo adesso di quegli stessi cibi che i cittadini legittimi si
rifiutarono di gustare”.[23]
Gregorio Magno legge anche il libro che parla delle
sofferenze di Giobbe con la stessa
prospettiva appena segnalata. Infatti – faceva notare già padre Calati[24]
– Giobbe è semplicemente il simbolo del pagano che entra a far parte del popolo
di Dio, attraverso la sua disponibilità ad abbracciare afflizione, dolore e
povertà, nella speranza che tutto sia solo annunzio di speranza e germe di una
vita piena di fecondità.
E’ con questa speranza che il Papa di Roma sentiva ormai
vicini i cieli nuovi e la terra nuova
dell’Apocalisse. In questa stessa prospettiva escatologica Gregorio decideva
però, nonostante tutto, di inviare i monaci dal suo monastero celimontano di
Roma, nella lontana Britannia per stabilirvi le <tende> del Dio di
Israele e così offrire a popoli assolutamente nuovi la possibilità di far parte
anch’essi della Storia del popolo di Dio, attraverso l’innesto sul tronco della
Chiesa di Roma. Si ripropone forse in tutto questo la profezia dell’Arca di Noè
realizzata in questo NT continuamente in atto?
Quei monaci missionari inviati in Britannia da Gregorio,
divenivano in ogni caso degli apostoli consapevoli che, così facendo, imitavano
Paolo, perché come lui aveva aperto i confini di Israele per permettere anche
ai Gentili di essere parte del popolo di Dio, così anch’essi avevano aperto i
confini di Roma per includervi popoli assolutamente nuovi come gli Anglosassoni.
Succedeva così – notava ancora padre Calati[25]
- che proprio nel cuore di ciò che era stato una volta il grande Impero romano
potesse risuonare, attraverso i monaci celimontani, la stessa voce profetica
dell’Apostolo, rivelando ai Barbari la loro nuova dignità e immettendoli in una
storia sacra, intesa come historia
salutis assolutamente universale, come aveva già profetizzato Isaia
all’antico popolo di Israele.
La notizia della conversione degli Angli alla fede cristiana
metteva letteralmente le ali al pensiero di Gregorio Magno che si permetteva di
invitare in piena omelia tutto il popolo romano a godere, nonostante tutte le
sue sofferenze del momento, di ciò che si stava realizzando nelle lontane terre
del Nord Europa, con parole come queste:
“Gaudeamus; in nobis impletum est quod per Isaiam dictum est, (Godiamo perché si sta compiendo oggi
davanti ai nostri occhi, la profezia di Isaia), quando diceva: “Voi canterete come si fa la notte in cui si
celebra la festa con immensa letizia nel cuore”.[26]
Commentava ancora padre Calati[27]:
“E’ questa la grandezza autentica della Chiesa; una grandezza insuperabile,
perché associata intimamente al senso profetico della Storia della salvezza sempre in atto, sia pur nell’umiltà e nella
povertà che dovrebbe accompagnare sempre la Chiesa”. Il riferimento alla scena
del discorso di Gesù nella sinagoga di Nazareth, registrato nel capitolo quarto
del Vangelo secondo Luca è
inevitabile.
Padre Calati proseguiva:
“Gregorio sviluppò in
realtà una profonda teologia della gentilità. Egli era infatti convinto che
l’ingresso di popoli nuovi nella Chiesa costituisse una componente fondamentale
della teologia della storia intesa
appunto come historia salutis; per
cui l’emigrazione di tanti popoli, carichi di sofferenza inaudita sia in coloro
che lasciavano la propria terra sia in coloro che se la sentivano invadere da
estranei, rivelasse in sostanza una dinamica realizzazione del Mysterium salutis”[28].
Dobbiamo allora concludere che all’occhio profetico di
Gregorio Magno l’ingresso dei barbari nella Chiesa appariva come una
realizzazione, che avveniva sotto gli occhi di tutti, del progetto della
salvezza universale, pensato da Dio prima ancora della creazione del mondo (Ef, 1,1-4).
Anche il personaggio biblico che portava il nome di Giobbe e che era un gentile, cioè uno straniero per
gli Ebrei, diventava per il Papa di Roma, simbolo
profetico per eccellenza della nuova realtà del popolo di Dio. E questo non
solo perché veniva proposto dalla Scrittura stessa, ma anche perché riassumeva
nella sua persona l’umanità sofferente di tutte le generazioni passate presenti
e future di questa nostra terra.
Tutto questo ci permette di chiarire che uno degli apporti
più importanti del pensiero di Gregorio Magno alla vita della Chiesa, e ciò che
lo rende particolarmente attuale proprio oggi per noi, che siamo alla ricerca
di un’omiletica finalmente incisiva nelle nostre assemblee di credenti, sia
questa lucida consapevolezza di fede che permette di leggere la storia del popolo di Dio, di cui si parla
nell’Antico e nel Nuovo Testamento, come una sorta di paradigma, lui avrebbe detto figura
o profezia, di ciò che si ripete di tanto in tanto, nella storia del mondo.
E non solo questo, ma anche aggiungendo, come abbiamo già
detto, che “Quanto più il mondo si avvicina al suo compimento storico, tanto
più ampia si fa la conoscenza del progetto di Dio (Quanto mundus ad extremitatem ducitur, tanto nobis divinae scientiae
adytus largius aperitur)”[29].
Tenuto conto di questo non si può fare a meno di ricordare che,
forse senza essere consapevoli fino in fondo delle conseguenze che ne
potrebbero derivare, i Padri del Concilio Vaticano II, dichiarando che la Chiesa, nelle sue leggi, nelle sue istituzioni
e perfino nei suoi sacramenti, porta
la figura fugace di questo mondo, stavano citando proprio Gregorio Magno!
Perché allora nutrire tanta paura per i cambiamenti? Non
aveva forse già Agostino di Ippona ricordato con una certa solennità nel suo De Doctrina christiana che “coloro che
sono ben fondati e resi stabili dalla fede, speranza e carità (non indigent Scripturis nisi ad alios
instruendos)”?[30].
Con simili riflessioni Gregorio Magno si immetteva
chiaramente nel pensiero agostiniano già presente nel De Civitate Dei, ma con l’aggiunta di una più piena coscienza escatologica.
Questa sua accentuazione, se da una parte comportava un approccio alla storia che
gli permetteva di passare tranquillamente dalla figura alla realtà nella lettura della Bibbia; dall’altra gli evitava
di parlare negli stessi termini quando si riferiva all’antica civiltà
greco-romana. Quest’ultima infatti, essendo profondamente segnata dal predominio
dei criteri mondani contestati radicalmente dal Vangelo, non potevano avere la
stessa valenza dei primi che erano stati abitati invece dal continuo
riferimento al mysterium salutis cui
si riferisce costantemente la Bibbia attraverso esodi, esili, ritorni e sconfitte che portavano già dentro di sé il
germe della salvezza garantita a tutti: Questo
è il sangue della Nuova ed eterna Alleanza, versata per voi e per tutti in
remissione dei peccati recitiamo tutti noi cristiani nella Divina Liturgia
Eucaristica.
Gregorio aveva servito con onestà, competenza e dedizione la
sua societas romana, giungendo ai livelli
più alti della responsabilità politica, ma la personale conversione alla vita
monastica non gli permetteva più di portarsi dietro il cattivo odore di
quell’uomo vecchio del suo passato con cui aveva rotto una volta per tutte.
Mentre perciò il Papa riconosceva al popolo ebraico, una
funzione speciale nella <oikonomia
salutis>, ritenendolo tuttora portatore di una profezia in atto, che
stava concludendosi nei suoi stessi giorni ritenuti escatologici, all’Impero
romano, non intendeva riconoscere alcuna capacità analoga. E questo potrebbe
fare problema a tutti noi oggi. Non si dovrebbe però dimenticare che Gregorio
piangeva con lacrime sincere sulla fine di Roma e sulla fine del suo impero,
perché era profondamente affezionato alla sua patria; e tuttavia bisogna anche
ammettere che non c’era disperazione nel suo pianto, perché quella storia da
lui detestata era quella stessa storia che apparteneva al “mundus totus positus in Maligno”, e non alla <historia salutis> pensata da Dio
prima ancora della creazione del mondo. Una punta di incompletezza nella
esposizione del completo mistero cristologico così come era stato definito a
Calcedonia nel 451?
Da attento lettore di san Paolo, Gregorio Magno era comunque convinto
che esistesse solo un troncone, quello preannunciato dai Profeti di Israele,
che continuava nella Chiesa, su cui, come ad un resto o residuo, si
potevano e si dovevano innestare tutti i Barbari chiamati ad accogliere il
Vangelo di Dio. E tuttavia egli era anche convinto che si diventa <uomini di Dio>, vivendo nello spirito
dei Padri che ci hanno preceduti, e cioè nello spirito di Abele, Noè e non soltanto
di Abramo, perché Abramo, e Gesù stesso, affondano le proprie radici
semplicemente in Adamo e dunque nell’intera umanità.
Il padre Calati poteva perciò precisare che per Gregorio
Magno, nonostante le imprecisioni che si possono trovare qua e là nei sui
scritti, “non c’era altra strada che potesse permettere la pienezza di
un’autentica realizzazione umana senza appartenere ad un unicum genus. E questo con tutte le conseguenze che ne derivavano
anche a proposito dell’identità stessa della Chiesa che gli permettevano di
dichiarare solennemente che: Ab Abel
sanguine passio iam coepit Ecclesiae. Dunque per Gregorio Magno la chiesa è
semplicemente l’umanità[31].
Convinzione che permette al papa di Roma di utilizzare lo
stessissimo paradigma anche per dare senso alle distinzioni presenti nel corpo
ecclesiastico propriamente detto. Padre Calati poteva perciò scrivere: “Al di
sopra di ogni categoria del cosiddetto triplice ordine – chierici, monaci e
laici o chierici e laici – c’era senza dubbio, per Gregorio Magno, un genus remotum che si sintetizzava tutto
nel vocabolo <electus>.
Egli parlava spesso di unusquisque…quisque
electus, per sottolineare che tutti i membri dell’umanità sono degli <eletti>.
Tra di loro ci possono certamente essere alcuni che vengono individuati come rectores animarum, altri come continentes e altri semplicemente come fideles, ma tutti, assolutamente tutti
sono parte integrante della mirabilis
dispositio Spiritus,[32]perché
appartengono in radice all’unicum genus al di là di ogni
distinzione sociologica o istituzionale”.[33]
E questo sia con riferimento alla Chiesa che con riferimento alla società. Il
che spiega perché Gregorio si richiamasse costantemente alla fede dei suoi
ascoltatori durante le omelie, insegnando – oggi si direbbe democraticamente - che il dono di una
migliore comprensione della verità appartiene sempre alla totalità del popolo,
compresi i barbari, ultimi arrivati a
far parte esplicitamente o istituzionalmente, del popolo di Dio.[34]
_____ooOoo_____
[1] Cf , Gregorio Magno e il suo tempo. XIX
Incontro di studiosi dell’antichità cristiana in collaborazione con l’Ecole
Francaise de Rome, Roma 9-12 Maggio 1990. Studia Ephemeridis
<Agustinianum> 33, Roma 1991.
[2] VediVera
Paronetto, Gregorio Magno. Un maestro
alle origini cristiane. Introduzione di Jean Leclercq, Edizioni Studium,
Roma 1985.
[3] Opere di
Gregorio Magno V,I, Lettere (I-III),
a cura di Vincenzo Recchia, Città Nuova Editrice, Roma 1996, p.195.
[4] Cf
Charles Pietri, La Rome de Grégoire,
in <Studia Ephemeridis Augustinianum>, 33, pp. 9-32.
[6] O.c., p.12.
[7] Cfr
Guido Innocenzo Gargano, Il sapore dei
Padri della Chiesa. Una introduzione, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi)
2009.
[8] Cfr Vera Paronetto, Gregorio Magno. Un maestro alle origini cristiane d’Europa,
Ed.Studium, Roma 1985.
[9] Cfr
Guido Innocenzo Gargano, Il Libro la
Parola e la Vita. L’esegesi biblica di Gregorio Magno, Ed. San Paolo,
Cinisello Balsamo (MI) 2013, pp. 33-51.
[10]
Cf Benedetto Calati, Gregorio Magno e il dialogo missionario del
monachesimo medievale, <vita monastica> XXI n.88 (1967) 11. Da questo
breve articolo ho attinto tutto ciò che riferisco come pensiero di Padre
Benedetto Calati sul modo di fare omiletica pastorale da parte di Gregorio
Magno, nel contesto della comunità ecclesiale dei suoi tempi.
[11] Cfr
A.Trapè, R.Russel, S.Cotta, Introduzione
a La città di Dio, I, (Libri I-X),
bilingue con testo latino a fronte, Città Nuova, Roma1978, pp.XI-CLII.
[12] Cfr
Benedetto Calati, Gregorio Magno e
l’opera missionaria, o.c., pp. 11- e seguenti.
[13]
Scriveva Gregorio; “Il NT terminerà
quando il Signore compirà ciò che di sé ha promesso…Infatti quando si vedrà
colui di cui si parla, cesseranno le parole del medesimo Testamento” (Hom. In Hiezechielem, 2,4,14.15).
[14] Vedi
Guido Innocenzo Gargano, Il Libro la
Parola e la vita. L’esegesi biblica di Gregorio Magno, Ed. San Paolo,
Cinisello Balsamo (Mi) 2013, pp. 45-46.
[15] Hom. In Hiezechielem 2,3,16. Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c,
pp.40-45; 286-288.
[16] Hom. In Hiezechielem, 2,4,12. Cfr Guido
Innocenzo Gargano, La Lectio divina nella
vita dei credenti, Ed. san Paolo, Cinisello Balsamo 2008, pp.54-55.
[17] Hom. In Hiezechielem, 1, 7,8.9. Cfr
Guido Innocenzo Gargano, Il sapore dei
Padri della Chiesa. Una Introduzione, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 2009,
pp.318-325.
[18] Ugo di
Rouen, Dialogorum Libri.V, 12,
Patrologia Latina 192, col.1206D.
[19] Cfr Il Libro la Parola e la Vita, o.c.,
pp.52-55.
[20] Cfr
Guido Innocenzo Gargano, Il sapore dei
Padri della Chiesa nell’esegesi biblica, o.c. pp.87-91.
[21] Cf Hom. In Hiezechielem, liber II, homelia VI, 21, PL 76, coll.
1010C-1011°.
[24] Cfr
l’articolo già citato.
[25] Vedi o.c.
[27]
B.Calati, Gregorio Magno e il dialogo,
o.c., pp. 14-15.
[28] Ivi.
[29] Hom. In Hiezechielem, 2,4,12.
[30] “Homo itaque fide, spe et charitate subnixus,
eaque inconcusse retinens, non indiget Scripturis nisi ad alios instruendos”, (De Doctrina christiana) I, 39,43.
Traduzione italiana di V.Tarulli, Roma 1992, p.67.
[31] O.c., p.16.
[32] Moralia in Iob, lib I, XXV, 34.
[33] Gregorio Magno e il dialogo, o.c.,p. 17.
[34] Cf ivi, pp.17-18.
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