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giovedì, marzo 03, 2022

LA RUSSIA DI PUTIN

@ - A oltre vent’anni dalla prima elezione di Vladimir Putin a presidente della Russia, il Paese si trova a un bivio, in un momento critico a causa dell’invasione dell’Ucraina. La situazione precedente al conflitto era sostanzialmente positiva. Infatti, nonostante i forti monopoli statali, la Russia ha in buona sostanza un sistema economico di tipo capitalista e può operare in modo molto più efficiente rispetto al suo predecessore, l’Urss[1]. Il governo è tecnocratico e innovativo (in termini di innovazioni tecniche e digitalizzazione dell’amministrazione), ma non riesce a portare la nazione fuori dalla dipendenza da un’economia ancora in gran parte basata sull’estrazione di risorse naturali. E il rischio molto grande è che la nazione si stia preparando ad anni di stagnazione economica.

Naturalmente ci sono anche opinioni differenti, che descrivono la Russia come un normale Paese in via di sviluppo, con tutti i problemi e le peculiarità che in genere affronta questo tipo di Paesi. La si può anche considerare come un’antitesi al liberalismo occidentale (cosa che molti conservatori in Russia ritengono essere un complimento). Secondo tale visione, il «putinismo» è una dichiarata sfida al liberalismo e alla «democrazia liberale»: modernizzazione militare, aggressione del vicinato post-sovietico, costruzione della rete di propaganda globale. Il «putinismo» viene descritto come una forma di autocrazia conservatrice e populista. È conservatore non solo perché enfatizza i cosiddetti «valori tradizionali», come la famiglia, composta esclusivamente da marito, moglie e figli, la religione ecc., ma perché in generale vuole mantenere lo status quo. Non vuole alcun cambiamento, nemmeno nell’economia. Non ha bisogno di cambiamenti e riforme, perché vive della vendita delle risorse del sottosuolo.

L’economia petrolifera della Russia offre alle élite al potere una possibilità di arricchirsi maggiore rispetto allo sviluppo economico più lento che si potrebbe realizzare con riforme di lungo periodo. Invece di sostenere la diversificazione e lo sviluppo del settore industriale e terziario, il «putinismo» concentra la ricchezza nelle mani di poche persone. Invece di favorire l’ascesa di una classe media e di una imprenditorialità autonoma e al passo con i tempi, si promuovono quelle persone che sono al servizio dello Stato e da esso dipendono. Sembra che funzionari competenti che mostrino anche capacità di iniziativa non siano necessari all’economia basata sullo sfruttamento petrolifero. E ci sono casi in cui amministratori locali vengono licenziati non quando le loro regioni non mostrano crescita economica, ma quando alle elezioni non votano per il presidente o per il partito di governo[2].

Lo stato dell’economia e le prestazioni del presidente sono ciò che sta a cuore alla maggior parte dei russi. Questo è anche ciò che determina la sopravvivenza (o meno) del sistema che Putin ha creato. Avendo la Russia un’economia puramente – o principalmente – petrolifera, si può temere che la durata dell’esistenza del «sistema Putin» sia di pochi anni, perché, nonostante tutte le difficoltà, la transizione dell’economia mondiale verso «energie più verdi» sta progredendo. È molto difficile immaginare un cambiamento di rotta significativo nel breve periodo, soprattutto quando, pur senza trascurare i problemi dell’economia, sembrano esserci altre priorità all’orizzonte, come ad esempio la concorrenza geopolitica con gli Stati Uniti.

Naturalmente, non tutti i problemi del Paese sono da attribuire al governo in carica. Putin ha ereditato un’economia in pessime condizioni ed è riuscito a stabilizzarla e a farla crescere, grazie anche all’aiuto di validi collaboratori, come l’allora ministro delle Finanze Aleksej Kudrin (i prezzi alle stelle del petrolio e del gas hanno fatto il resto). In quasi 10 anni, dal 1999 al 2008, il Pil russo è cresciuto del 94% e anche i redditi dei russi sono aumentati allo stesso ritmo. Il periodo successivo, invece, può essere descritto come un periodo di transizione dalla stabilità alla stagnazione. La crisi economica mondiale ha colpito duramente anche la Russia, ed è emerso con chiarezza che il modello di sviluppo basato sulla vendita delle materie prime non funzionava più. La crescita economica annua dal 2010 al 2019 ha raggiunto solo il 2%. Come negli anni Novanta, la fuga di capitali ha raggiunto di nuovo cifre notevoli: dal 2014 al 2018, 320 miliardi di dollari sono stati portati fuori dal Paese. Era necessario trovare un altro modello, e sono state fatte riforme di vasta portata, ma non così coraggiose come la situazione richiedeva.
Il 2014 è stato un anno particolarmente difficile per la Russia. La crisi innescata sul confine ucraino ha peggiorato le relazioni con l’Occidente, e ciò ha influito negativamente sulla disponibilità, da parte delle aziende estere, a investire in Russia. Anche l’improvviso crollo del prezzo del petrolio ha avuto le sue drammatiche conseguenze. Da allora, i redditi russi sono in costante calo: nel 2020 erano inferiori rispetto al 2014.

Il governo ha fatto molto per attutire l’impatto del calo dei prezzi del petrolio, per attenuare i contraccolpi derivati dalle sanzioni occidentali e per invertire la rotta dell’economia russa. Secondo i dati del Fmi, le sanzioni applicate dai Paesi occidentali hanno ridotto il Pil russo solo dell’1,5%. Alcuni settori sono persino cresciuti. Ad aver tratto benefici è stata, ad esempio, l’agricoltura, ma anche l’industria di ingegneria meccanica agricola. Inoltre, come conseguenza delle sanzioni, il governo ha investito molto in industrie importanti per l’esercito, quali quelle per la produzione di motori per aerei, elicotteri e navi (molti dei quali erano precedentemente importati dall’Ucraina). La Russia ha anche messo in sicurezza il settore finanziario: le riserve auree sono state incrementate ed è stato sviluppato un proprio sistema di pagamento.

Ma queste sono solo alcune eccezioni, rispetto a una situazione che continua a essere per nulla ideale. Nonostante tutti gli sforzi e gli investimenti statali, la crescita oscilla tra l’1% e il 2% annuo. E questo non è sostenibile per un Paese come la Russia.

Ora il problema principale è che le idee e le prospettive per una crescita economica di lungo periodo sono state sacrificate in favore della ricerca ossessiva di stabilità politica e geopolitica. L’economia sta migliorando, ma troppo lentamente. L’attore principale è lo Stato, che vuole sostituire la mancanza di investimenti privati con i cosiddetti «progetti nazionali». Gli investimenti statali si concentrano in pochi progetti di grande portata, in cui sono coinvolte solo le persone vicine al governo. I piccoli e medi imprenditori soffrono delle sanzioni e della mancanza di opportunità per raccogliere capitali. Infatti, la percentuale di piccole e medie imprese nell’economia russa è scesa dal 22% del 2017 al 20% del 2020: volendo fare un confronto, la percentuale di piccole e medie imprese nei Paesi baltici, che pure facevano parte dell’Urss, rappresenta oltre i due terzi della forza produttiva.

Due dei maggiori problemi che aggravano ulteriormente la condizione economica russa sono la disuguaglianza e la povertà. Nel 2018, il 3% dei russi più ricchi possedeva l’87% dell’intera ricchezza. Il numero di miliardari in un anno (dal 2018 al 2019) è salito da 78 a 110, e quello dei milionari da 172.000 a 246.000. Per contro, il 21% dei russi vive nella povertà. La più grande preoccupazione delle persone russe non è la politica, ma l’economia: il 72% è preoccupato per l’aumento dei prezzi, il 52% per l’aumento della povertà e il 48% per la disoccupazione[3].

Purtroppo, gli andamenti economici registrati durante la pandemia hanno rafforzato tale tendenza, così come è aumentata la dipendenza del governo russo dalle entrate del gas e del petrolio. Anche se la crescita del 2021 (oltre il 4%) compensa il calo del 2020 (3%), ancora una volta è apparso evidente quanto lo sviluppo del Paese dipenda fortemente dallo sfruttamento del sottosuolo. Poiché nel 2021 il prezzo del gas e del petrolio è aumentato vertiginosamente, il bilancio potrebbe prevedere un surplus. Ma il bilancio è anche l’unica fonte di finanziamento per i servizi sociali da dedicare a una popolazione in crisi – è aumentata significativamente la spesa sanitaria – e per gli investimenti per rilanciare l’economia. Inoltre, il pericolo incombente è che la trasformazione tecnologica dell’economia globale porterà molto presto a un calo della domanda di combustibili fossili. Ciò avrà ricadute molto pesanti per la Russia[4]. È giunto il momento di scegliere tra geopolitica ed economia.

Uno dei problemi più rilevanti è che la classe dirigente presta molta attenzione alla pubblicazione delle analisi statistiche, ma non sempre i dati corrispondono alla realtà. Ai russi però non interessano i dati incoraggianti e illusori dei numeri, ma solo la qualità della loro vita concreta. Basta ricordare quanto è accaduto recentemente in Kazakistan, dove i dati ufficiali sullo sviluppo economico erano addirittura migliori che in Russia. Il governo russo prevede una crescita economica superiore al 4% ed entrate di bilancio in rialzo, mentre i redditi reali sono in caduta libera da più di 10 anni.

In molti sostengono che è arrivato il momento di spendere più soldi in progetti sociali, ma questo non risolverà il problema della bassa produttività e, di conseguenza, dei redditi bassi. Servono, invece, innovazione e investimenti privati, soprattutto esteri. Ma, come sappiamo, per ottenere tutto ciò andrebbe risolto il conflitto politico con l’Occidente, che invece il conflitto con l’Ucraina ha radicalizzato. La dura realtà è che la Russia è un Paese economicamente debole e non avrebbe potuto permettersi una politica conflittuale. Non si tratta di stabilire «chi ha ragione o di chi è la colpa»: la politica è l’arte del possibile e non dei desideri[5].

I cittadini russi sono stanchi di questa politica, che non è in grado di – ma nemmeno vuole – creare condizioni per una vita normale, e che antepone i sogni geopolitici della classe dirigente al benessere dei cittadini comuni[6].

Lo Stato e la società civile
È noto che, ad eccezione di alcuni periodi particolari – il 1917 o gli anni Novanta –, la Russia ha sempre avuto un governo che conferisce alla propria autorità un ruolo fondamentale. Putin e coloro che lo circondano non stanno facendo altro che portare avanti una vecchia tradizione in questo senso. Durante i suoi due primi mandati, Putin ha potuto porre fine al dominio dei gruppi criminali che si nascondevano dietro slogan di «libertà» e «democrazia», e portato «stabilità». In quella fase, egli ha sostenuto – a ragione – che la società russa era debole e frammentata e che aveva bisogno di riconciliazione. In realtà, la nuova stabilità è stata ottenuta non attraverso la riconciliazione, ma attraverso la smobilitazione e la pacificazione. La società ha in parte volontariamente ceduto i suoi diritti allo Stato, in parte se li è semplicemente visti portare via. Ma nei primi 10 anni di Putin, lo Stato si è concentrato sul consolidamento interno e non ha interferito negli affari della società.

L’economia è cresciuta, e molti russi sono riusciti, per la prima volta nella loro vita, a collocarsi tra la «classe media» e a godere della prosperità materiale. Ma questo non è durato a lungo. La crisi economica mondiale del 2008, la crisi ucraina e gli effetti ultimi della pandemia hanno colpito duramente il Paese, e così la promessa di una lunga prosperità è svanita.

Ora si può osservare che la popolazione è stanca della propaganda roboante – «Dobbiamo difenderci dai nemici che circondano il Paese!» – e non la prende più sul serio. Il governo sta perdendo non soltanto il contatto con la società, ma anche l’influenza ideologica su di essa. Ne sono prova anche le manifestazioni per la pace in corso in Russia. Secondo Tatiana Stanovaya, ricercatrice del Carnegie Moscow Center, dal 2018 il rapporto tra Stato e società può essere descritto con una massima: «Non vi dobbiamo nulla»[7].

Secondo l’opinione pubblica, l’attuale crisi nei rapporti con l’Occidente è ciò che può porre fine al «sistema Putin». Dopo gli eventi del 2014, la maggior parte dei russi ha considerato lo scontro con l’Occidente e la crisi economica come «una nuova normalità». Purtroppo, qualcosa di simile è accaduto anche con la percezione della guerra. A partire dal conflitto in Georgia nel 2008, la guerra – in Ucraina, in Siria ecc. – è diventata un elemento costante nella vita quotidiana. Con l’attuale crisi ucraina, il pericolo di una guerra su scala mondiale è reale. La guerra fa crollare il tasso del rublo e i mercati russi, e non porterà al compattamento della società a fianco del governo. La società russa è moderna ed è entrata nella «fase post-eroica», in cui non tutti sono pronti «a morire per la Patria e per Putin». Al contrario, non solo la guerra in sé, ma le conseguenze economiche della guerra – soprattutto se di lunga durata – potranno portare a un malcontento che molto probabilmente si trasformerà in una protesta dai connotati fortemente politici. E tale protesta sarà non solo nelle grandi città, o limitata ai cittadini politicamente attivi, ma coinvolgerà masse di popolazione, pensionati e lavoratori di provincia, cioè coloro che finora sono stati forti sostenitori della politica del governo. Anche se è pressoché impensabile che le proteste possano portare a cambiamenti politici, il mito del «modello Putin» ne uscirà quasi certamente ridimensionato.

La Russia, nonostante tutte le crisi e le catastrofi che fino ad oggi hanno causato incredibili sofferenze alle persone che la abitano, ha continuato a esistere ed è diventata una grande potenza politica e militare, ma non economica. Infatti, dal punto di vista economico non è in grado di eguagliare la potenza degli Usa o della Cina.

La Russia, anche sotto Putin, è la conferma che il destino di un Paese è determinato dalle sue tradizioni e dalla sua storia, e che profondi cambiamenti, nel bene o nel male, possono attuarsi solo molto lentamente. Oggi il rischio di rimanere isolata e di vivere una drammatica stagnazione economica è molto reale.

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ESPAÑOL
Il fatto che la Russia sia un esportatore netto di prodotti agricoli rivela una grande differenza rispetto all’Urss, che non riusciva a nutrire la sua popolazione senza le importazioni.
Cfr M. S. Fish, «The Kremlin Emboldened: What Is Putinism?», in Journal of Democracy, vol. 28, n. 4, ottobre 2017.
Cfr R. E. Beris, «The State of the Russian Economy: Balancing Political and Economic Priorities», in https://www.nti.org/analysis/articles/state-russian-economy-balancing-political-and-economic-priorities/
Cfr V. Inozemtsev, «Oil, COVID and prospects of economic growth in Russia», in Riddle Russia (https://ridl.io/en/oil-covid-and-prospects-of-economic-growth-in-russia/), 18 novembre 2021.
Cfr Id., «Time to choose geopolitics or stability», in Riddle Russia (https://ridl.io/en/time-to-choose-geopolitics-or-stability/), 7 gennaio 2022.
Cfr «Russian public covers ears as state media heighten Ukraine rhetoric», in Financial Times (www.ft.com/content/e5bd10cc-d4de-4600-bbdd-83e8d52e8e08), 26 gennaio 2022.
Cfr R. E. Berls Jr., «Civil Society in Russia: Its Role under an Authoritarian Regime», in https://www.nti.org/analysis/articles/civil-society-russia-its-role-under-authoritarian-regime-part-i-nature-russian-civil-society/



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