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sabato, dicembre 23, 2023

Parla il cardinale Matteo Maria Zuppi: “Il Papa, la Chiesa, il mondo… ma vi racconto anche un po’ di me”

@ - Arcivescovado di Bologna, un sabato di dicembre. Quattro rampe di scale e si arriva nell’ufficio del cardinale Matteo Maria Zuppi: 

Bologna, 7 dicembre 2023. Il cardinale Matteo Maria Zuppi (Roma, 11 ottobre 1955),
 arcivescovo metropolita di Bologna e presidente della Conferenza Episcopale Italiana,
nel suo ufficio all'interno della Curia.© Oggi/Martino Lombezzi/Contrasto

librerie alle pareti, tavoli pieni di carte, foto, un presepe napoletano con Gesù Bambino. Si comincia dai pellegrinaggi del cuore. E si scopre che nel suo santuario intellettual-spirituale ci sono Sant’Alfonso, Sant’Agostino, don Tonino Bello, padre Pino Puglisi, dottori della Chiesa e pastori-educatori.

IL PANTHEON DEL CARDINALE – «Sant’Alfonso ci aiuta a rendere effettiva la morale, perché capita che non attragga o allontani», spiega Zuppi, che è nato a Roma l’11 ottobre 1955 – papà giornalista, mamma nipote del cardinale Carlo Confalonieri – e si è formato nella comunità di Sant’Egidio. «Sant’Agostino ci accompagna nella ricerca della bellezza di Dio. Anche con le parole poetiche delle sue Confessioni: “Tardi ti ho amato”. E poi c’è San Nicola, il santo della pace».


Arcivescovo di Bologna dal 2015, cardinale dal 2019, presidente della Cei, la Conferenza episcopale italiana, dal 2022, “ambasciatore di pace” per conto del Papa. Tra tutti questi impegni come sta? «Sono impegni, a volte grandi sfide, che affronto con il sostegno di molti. E siccome amo e cerco di amare la Chiesa, questo aiuta anche a fare qualche acrobazia».

Da presidente della Cei è complicato tenere insieme le diverse anime della Chiesa? «Qualcuno dice che sono camaleontico. Nella comunità di Sant’Egidio ho capito l’importanza di andare d’accordo e quanto è preziosa la comunione. Bisogna cercare sempre ciò che unisce e non ciò che divide. In generale, siamo vittime della polarizzazione, dello scontro più che dell’incontro. L’individualismo e l’esibizione di sé dominano sulla relazione con l’altro. Questo accade nella società e anche dentro la Chiesa, ma per fortuna al centro c’è Gesù che ci chiede il fare il contrario».

Tra le 226 diocesi e i 412 vescovi quali sono le maggiori difficoltà? «I vescovi che guidano le diocesi sono 208, gli altri sono emeriti. Si tratta di realtà anche molto diverse. Comunque, c’è più comunione che contrapposizione».

La preoccupano i dati che danno la frequenza della messa in calo? Si parla del 19 per cento, mentre i praticanti erano il 36% nel 2001 e il 30% nel 2005. «Mi preoccupano. Dobbiamo capirne l’origine e individuare che cosa fare. Preoccupa l’individualismo, che è il grande nemico del nostro tempo. Preoccupa quello che Papa Benedetto definiva il relativismo. In questo contesto, la visione pastorale di Papa Francesco, a volte anche non capita, propone il rimedio al relativismo: “stai accanto agli altri, ascolta, trova te stesso trovando il prossimo, non condannare, non fare proselitismo».

Pur con questa apertura, la lontananza dalla Chiesa sembra crescere. «Forse c’è stata troppa distanza in passato. E ora paghiamo le conseguenze di una Chiesa percepita poco come madre. Di una Chiesa che parla un linguaggio che non comunica. Che esprime regole e non è annuncio, che è poco comunità, che pensa alla verità come a un astratto, che non si mischia con la vita. Dobbiamo cercare di vivere e annunciare il Vangelo e di essere comunità aperte, sensibili, attente ai poveri, e così a tutti».

Quindi quali sono oggi le maggiori sfide della Chiesa italiana? «Quella di essere comunità, di unire eucarestia e servizio, fede e amore, verità e misericordia, giudizio e perdono, di essere madre, di mostrare una presenza».

Siamo in tempo di Avvento: quando si sente parlare di feste di fine anno e non di Natale, della rinuncia alla rappresentazione del presepe in luoghi come le scuole, che cosa prova? «Si pensa che per fare accoglienza dobbiamo nascondere Gesù, che è presenza unitiva. Chi non è cristiano non deve sentirsi escluso. E noi cristiani dobbiamo saper accogliere, restando tali. Ma non è togliendo il Bambinello che siamo accoglienti».

Che cosa dobbiamo aspettarci dal Sinodo sulla sinodalità che, iniziato nel 2021, si concluderà nell’ottobre 2024? A chi immagina decisioni sul celibato dei preti, sul sacerdozio alle donne, sulle unioni omosessuali, che cosa si può dire? «Il Sinodo è una grande occasione di ascolto interna alla Chiesa e anche del mondo. La Chiesa, nella sua universalità, esprime situazioni diverse. C’è una Chiesa occidentale invecchiata e ci sono le Chiese giovani, in America Latina, in Africa, in Asia. Dobbiamo trovare una lettura unitaria perché la Chiesa sia sé stessa, tutta missionaria».

Dal 2010 al 2020, in Italia il numero dei preti è calato del 14 per cento: in futuro ci saranno preti sposati? Già nel Sinodo sull’Amazzonia, nel 2019, si era parlato dei viri probati, l’ordinazione di uomini sposati di una certa età e di provata fede. «Nella Chiesa cattolica di rito orientale ci sono già i preti sposati. Quella dei viri probati potrà essere una delle risposte».

Dove sta guidando la Chiesa Papa Francesco? «Incontro agli altri. Per far sì che la Chiesa non si chiuda in sé, non guardi il mondo da lontano, ma perché sia sé stessa senza paura, perché Gesù cammina sulle strade di tutti e va incontro a tutti».

In questo contesto si inseriscono anche le aperture del Papa sul battesimo alle persone transgender, ai gay che possono fare da padrini e testimoni. «Ho trovato in questo ambito una grande continuità con il passato, anche con documenti precedenti del Magistero. Si dà una maggiore responsabilità nell’applicazione delle regole, si affida ai pastori l’esercizio del discernimento, come nell’Amoris Laetitia (esortazione apostolica del 2016 del Pontefice dopo i sinodi sulla famiglia del 2014 e 2015, ndr). È un impegno a capire ogni situazione applicando le regole di sempre, se vogliamo che queste siano per le persone. E questo non è relativizzare o impoverire».


Come sta Papa Francesco? «Papa Francesco è trasparente sulle questioni di salute: ne parla personalmente».

Il Papa le ha affidato il ruolo di ambasciatore di pace nella guerra tra Russia e Ucraina, lei che nel 1992 ha mediato nei conflitti in Mozambico con la Comunità di Sant’Egidio. La sua prima reazione quale è stata? «La prima reazione è stata di timore per una missione così importante. Che poi è stata caricata di un’eccessiva attesa e rappresentata come la mediazione del Papa e non come un impegno umanitario per portare sollievo, per creare opportunità per tessere la pace, per non rassegnarsi di fronte alla tragedia della guerra».

Ha generato un desiderio di pace. Lei è stato in Ucraina, in Russia, in America, in Cina: che cosa si è realizzato finora? «C’è stata piena collaborazione con la segreteria di Stato, con i nunzi di Kiev e di Mosca. Gli impegni per i ricongiungimenti familiari dei bambini li stanno portando avanti con competenza e determinazione».

Il conflitto in Medio Oriente ha messo in ombra quello tra Russia e Ucraina. «Chi soffre non può essere in ombra. Sicuramente faremo tutto quello che è possibile per alleviare la situazione sia da un punto di vista umanitario sia nel favorire qualsiasi contatto che aiuti la ricerca di una soluzione di pace».

La vede lontana, ha speranza? «La speranza ci deve essere proprio quando sembra impossibile. Ragionevolmente, penso che bisogna ancora tanto tessere perché si possa creare un dialogo che porti a una pace giusta».

Nel suo libro, Dio non ci lascia soli -Riflessioni di un cristiano in un mondo in crisi, appena pubblicato da Piemme, scrive che «l’amore è sempre a portata di mano, eppure è merce rara». Lei dove lo ha trovato, dove lo trova? «L’amore di Gesù mi aiuta a trovarlo dappertutto, anche dove sembra che non ci sia. All’inizio l’ho trovato nella mia famiglia. Sono il quinto di sei figli. Mi sono sempre sentito molto protetto dai miei genitori. Poi ho trovato l’amore di Dio nella comunità di Sant’Egidio che ho conosciuto al liceo, a 14 anni. Mi colpirono la preghiera e il servizio».

Allora non pensava al sacerdozio? «La vocazione è maturata all’università, a 21 anni. Sono diventato prete nel 1981, dopo la laurea in Lettere e filosofia e la formazione teologica in seminario».

Da ragazzo si è mai innamorato? «Sì. Ma qui andiamo sul platonico».

Il suo santo del cuore? «Oltre ai santi ricordati prima, ci sono Sant’Egidio e San Giovanni XXIII. Tra l’altro, la memoria liturgica di Papa Giovanni coincide con il giorno del mio compleanno».

Da bambino chiedeva alla mamma se nella preghiera dell’Ave Maria si poteva non dire “nell’ora della nostra morte”. Le faceva paura? «La morte mi faceva paura e mi fa paura. Da piccolo la vedevo come un mistero che poteva rovinare le cose belle, portar via i miei genitori, i miei fratelli. Solo la fede e l’amore aiutano a vincere la paura o il fatalismo. San Francesco la chiamava sorella tanto era pieno di amore. Così non può far paura».

Va sempre in bici? Pedala meglio di Don Matteo-Terence Hill. «Un po’ meno, ma vado ancora in bici. Però il don Matteo della fiction è più bravo».

Con gli artisti bolognesi che rapporti ha? È stato ad Auschwitz con Guccini e gli studenti nel 2022. «C’è amicizia, con lui come con Gianni Morandi, Luca Carboni, Cesare Cremonini».
Sul progetto del governo di trasferire i migranti in Albania ha espresso qualche dubbio. «Ho detto che la scelta significava che non si potevano accogliere in Italia. È importante creare un sistema nell’accoglienza per uscire anche dalla polarizzazione “tutti dentro o tutti fuori”. I corridoi umanitari possono essere una strada possibile. L’illegalità si combatte con la legalità e salvando le persone in mezzo almare, in questo nostro Mediterraneo che, come dice Papa Francesco, è diventato un cimitero».

Ha fiducia nel governo? «Certo, per principio la Chiesa collabora con chi ha l’onore e l’onere di gestire la cosa pubblica, a volte se necessario in modo dialettico».


Luca Casarini, ex no global che nel 2019 si è convertito e oggi si occupa di migranti con la Ong Mediterranea, è al centro di un’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione. Nella pubblicazione delle intercettazioni sembra che si approfitti dei finanziamenti di diocesi e Cei. «Né la Cei né la Santa sede sono oggetto di bande che chiedono finanziamenti. Aiutare non è ingenuità. La Cei sostiene con 80 milioni l’anno associazioni e progetti che si occupano di migranti in tutto il mondo, pure in Africa e in Asia. Sono anche progetti che aiutano le persone nella loro terra. Quest’anno a Mediterranea hanno dato contributi due diocesi, credo per 150 mila euro, solo per contribuire a salvare persone. Troppi sono i morti. Però il 95 per cento dei salvataggi è compiuto dalla Guardia Costiera, che applica con rigore e competenza la legge del mare. Sono sorpreso e amareggiato da questa vicenda. Sembra che ci sia dietro una malizia, un disegno».

Eminenza, come sarà il suo Natale? «Farò le celebrazioni nelle due cattedrali di Bologna, quella di San Pietro e quella della Stazione, anche essa cattedrale con il suo popolo. E poi c’è il pranzo con i poveri».

Maria Giuseppina Buonanno

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