@ - Nel 2011 apparve negli Stati Uniti un monumentale commento ebraico a tutto il Nuovo Testamento, cui collaborarono circa ottanta ebrei, studiosi e studiose del giudaismo del secondo Tempio e delle origini del cristianesimo.
Il Vangelo letto dagli ebrei, fondamentale per i cristiani© Fornito da Avvenire
Coordinarono l’impresa Marc Zvi Brettler e Amy-Jill Levine, di riconosciuta autorevolezza accademica in tali campi di studio (dai quali il mondo ebraico si era sempre tenuto abbastanza lontano, salvo alcune grandi eccezioni che si erano focalizzate soprattutto su Gesù e Paolo di Tarso). In poco tempo quel commento ebraico fu così positivamente recepito in America e a livello internazionale che già nel 2016 Levine e Brettler predisposero una seconda edizione, riveduta e ampliata, arricchita di nuovi saggi e apparati didattici. Su quest’ultima versione la casa editrice Queriniana ha realizzato l’edizione italiana, che porta il titolo Il Nuovo Testamento letto dagli ebrei (Queriniana, pagine 944, euro 120,00), curata da Flavio Dalla Vecchia e con i testi biblici della traduzione della Conferenza episcopale italiana (Cei) del 2008. Grande opera di consultazione e di studio, si tratta di uno strumento destinato a restare un punto di riferimento fondamentale sia per i neotestamentaristi di professione sia per quanti, ebrei o cristiani, frequentano e citano quelle fonti negli ambienti del dialogo interreligioso. Ora, impiego dialogico o pastorale a parte, è difficile sottovalutarne il valore scientifico proprio restando nel solco del metodo storico-critico. È noto infatti che non è questo l’approccio tradizionalmente in uso nelle scuole rabbiniche o adottato per le derashot (omelie) sinagogali, dove si privilegia la catena delle interpretazioni religiose e mistiche offerte dai maestri nel corso dei secoli. Perciò molti studiosi cristiani si chiedono se e come il mondo ebraico applichi la moderna filologia e la decostruzione testuale per comprendere le Scritture, il Tanakh. La risposta, positiva, sta nei due strumenti, entrambi pubblicati dalla Oxford University Press, curati dal fior fiore degli accademici ebrei a livello mondiale: The JewishStudy Bible (seconda edizione del 2014), curata da Adele Berlin e lo stesso Brettler, e il commento neotestamentario di cui sto parlando, or ora reso disponibile in italiano.
Il presupposto di questo pluridecennale lavoro collettivo è che i variegati testi che compongono quelle che, a ben vedere, andrebbero chiamate le Scritture cristiane (sebbene stia prevalendo la dicitura Secondo Testamento, accanto al Primo Testamento che sarebbe la Bibbia ebraica o Tanakh), sebbene scritti o giunti a noi in lingua greca, sono testi pensati e certamente all’inizio trasmessi oralmente in aramaico se non in ebraico; inoltre i diversi generi letterari in cui si esprimono sono generi specifici della cultura ebraica del secondo Tempio; e non entriamo nel merito di tematiche e discussioni religiose, di preoccupazioni politiche e di tensioni sociali, tutti tasselli del grande mosaico del giudaismo di quei secoli, al quale Giovanni il battezzatore, Gesù e i loro movimenti – se riformatori o restauratori è oggetto di dibattito – appartenevano, un mosaico senza il quale non possono essere davvero compresi. La sensibilità ebraica e una più affinata conoscenza delle stesse fonti del rabbinismo, oltre che della cultura giudaico-ellenistica, sono certamente di aiuto per decifrare più di un contesto della vita e della predicazione gesuane nonché degli sviluppi della dottrina paolina e degli altri apostoli della nuova fede.
E qui sorgono alcuni dei grandi interrogativi ermeneutici che nessuno studioso del Nuovo Testamento può eludere: quanto davvero “nuova” era questa fede, nata dentro la società ebraica del I secolo e nutritasi dei suoi accesi dibattiti teologico-politici? Sotto quali spinte e come cambiò l’approccio a una secolare prassi ebraica? E soprattutto: era necessario che la “separazione delle strade” diventasse un conflitto aperto, duro e violento, come spesso solo i conflitti religiosi sanno essere? Il commentario curato da Levine e Brettler non mira a rispondere a queste tre domande, tuttavia esse aleggiano su questo monumento di esegesi ebraica tesa a mostrare gli elementi di continuità e di discontinuità nella narrativa evangelico-apostolica, la quale dalla conoscenza approfontita dei targumim (le traduzioni della Bibbia ebraica in aramaico), dei midrashim e delle tradizioni rabbiniche esce illuminata e persino, per i cristiani, più storicamente credibile.
Il commentario vero e proprio è arricchito, come detto, da cinquantaquattro saggi, che costituiscono un libro nel libro, e metodologicamente potrebbero essere il vero punto di partenza per apprezzare anche le note e le chiose al corpus neotestamentario. Chi, tra gli studiosi cristiani (per tacere di ministri e catechisti) ha davvero mai approfondito la storia del sinedrio, dalle sue origini a quando cessò di esistere nel V secolo? Eppure quando si parla (o si straparla) della passione di Gesù lo si cita, in negativo, ignorandone struttura, regole ed eminenti maestri, con estrema superficialità. Ecco il tema di uno di questi saggi che approfondiscono, tra le altre, la questione del matrimonio e del ripudio, su cui all’epoca di Gesù le scuole dei farisei avevano opinioni assai diversificate, e Gesù si inserisce in questo complesso dibattito halakhico; la questione dei sacrifici nel Tempio (che Gesù non ha mai condannato) cui si affiancò l’invenzione delle preghiere sinagogali; la questione dei rapporti tra ebrei e non ebrei, su cui l’insegnamento gesuano sembra oscillare tra chiusure e aperture.
Ascoltare il parere di dotti ebrei, che conoscono siffatte questioni anche attraverso i di battiti talmudici e le altre fonti coeve, non può che portare molte letture cristiane a una maggior cautela esegetica, arricchendole in sfumature e in profondità di comprensione. Anche in Italia uno strumento come questo Nuovo Testamento letto dagli ebrei, al di là della curiosità, non può che contribuire a far superare insegnamenti obsoleti e omelie anti-ebraiche, anzi a far crescere la consapevolezza che l’identità ebraica di Gesù non è un ostacolo alla sua comprensione da parte cristiana, e che persino la predicazione paolina si capisce meglio alla luce del contesto religioso e politico della società ebraica di quel drammatico primo secolo. Molte altre novità attendono il lettore e lo studioso attenti di quest’opera, e lasciamo loro volentieri il piacere della scoperta.
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