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giovedì, novembre 23, 2023

Uno sguardo sulla società con «Evangelii gaudium»



Papa Francesco (Vatican Media)

L’Esortazione apostolica Evangelii gaudium (EG) è già stata presentata nelle sue linee portanti dalla nostra rivista[1]. Ma il testo, assai ampio e articolato, contiene numerosi spunti sui quali pensiamo valga la pena riflettere. Qui vorremmo soffermarci sugli aspetti più direttamente inerenti ai problemi della società, nazionale e mondiale, e in particolare sul tema della povertà.

È bene premettere subito che la Evangelii gaudium non è un’enciclica o un documento sociale del Magistero. Il Papa stesso, nel suo testo, afferma: «Questo non è un documento sociale, e per riflettere su quelle varie tematiche disponiamo di uno strumento molto adeguato nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, il cui uso e studio raccomando vivamente» (n. 184). Il Papa nella EG si occupa sempre dell’evangelizzazione come asse portante, ma uno dei capitoli, il IV, è dedicato alla «Dimensione sociale dell’evangelizzazione», e nel capitolo II, intitolato «Nella crisi dell’impegno comunitario», vengono presentate numerose sfide, sia di ordine sociale e culturale, sia di ordine spirituale ed ecclesiale, alle quali occorre far fronte cercando di capirle e di dare loro una risposta adeguata.

Il documento perciò non contiene una trattazione sistematica dei problemi sociali ed economici analoga a quanto altri Pontefici hanno fatto nelle loro encicliche sociali (citiamo per tutte, risalendo nel tempo, la Deus caritas est [2009], la Centesimus annus [2001], e la Sollicitudo rei socialis [1987]). Papa Francesco, com’è nel suo stile, procede per flash, con frasi alle volte lapidarie, di grande effetto, come le metafore che usa, più adatte a lanciare un messaggio, una provocazione, che non a illustrare i vari aspetti di una problematica spesso molto complessa. Varie volte nel documento, facendo eco a quanto già dichiarato da Paolo VI nell’Octogesima adveniens (1971), si ripete che la Chiesa non è più in grado di dire una parola valida e adeguata per tutte le diverse e complesse situazioni che si presentano nelle varie parti del mondo. Per questo Papa Francesco rimanda sia a quanto pubblicato dai precedenti Pontefici, sia ai documenti degli episcopati regionali e nazionali di tutti i continenti, che nell’Esortazione vengono citati con un’ampiezza e una varietà decisamente insolite.

I mali odierni del nostro mondo vengono denunciati con chiarezza e anche con durezza, ma con il proposito di far meglio comprendere il quadro in cui la Chiesa si trova oggi a evangelizzare, e se ne parla in tono positivo, costruttivo, inteso a incoraggiare e non a demolire, a non far mai perdere «la gioia dell’evangelizzazione», un’espressione che ricorre più volte nel lungo testo. Si tratta cioè di risvegliare una «sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi»[2].

Le sfide del nostro tempo
Il Papa inizia la sua carrellata di problemi con una nota positiva: «Si devono lodare i successi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito della salute, dell’educazione e della comunicazione», ma aggiunge: «Non possiamo tuttavia dimenticare che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo vivono una quotidiana precarietà, con conseguenze funeste» (n. 52). L’inequità (il Papa nel testo preferisce usare questo termine dal sapore socio-economico, piuttosto che iniquità, termine morale) diventa sempre più evidente, spegnendo la gioia di vivere e facendo crescere la mancanza di rispetto e la violenza. «Questo cambiamento epocale è stato causato dai balzi enormi che, per qualità, quantità, velocità e accumulazione, si verificano nel progresso scientifico, nelle innovazioni tecnologiche e nelle loro rapide applicazioni in diversi ambiti della natura e della vita. Siamo nell’era della conoscenza e dell’informazione, fonte di nuove forme di un potere molto spesso anonimo» (ivi).

Il Papa condanna risolutamente l’«economia dell’esclusione e dell’inequità. Questa economia uccide». Non fa notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per la strada, mentre fa notizia il ribasso di due punti in borsa. «Questo — dice il Papa — è esclusione». Riprendendo un tema caro alla letteratura impegnata latinoamericana, il Papa non denuncia più, come faceva la Rerum novarum ai tempi di Leone XIII, lo sfruttamento dei lavoratori, ma la loro esclusione dalla società attiva, dal lavoro, dalle prospettive future, cosa che li fa sentire inutili; oppure la persona viene consumata e poi gettata, creando addirittura una «cultura dello scarto». «Gli esclusi non sono “sfruttati”, ma rifiuti, “avanzi”» (n. 53). Il Papa condanna l’idea diffusa, ma non provata dai fatti, che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesca automaticamente a produrre una maggiore equità e inclusione sociale. Per di più si è sviluppata una «globalizzazione dell’indif-ferenza», per cui tutti attendono che i problemi si risolvano da soli, grazie agli automatismi del mercato, e si diventa incapaci di reagire dinanzi alle migliaia di vite stroncate per mancanza di possibilità.

Una delle cause di questa situazione viene indicata dal Papa nella nuova idolatria del denaro. Esso ha costituito una tentazione durante tutta la storia umana, ma oggi ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di un’economia senza volto e senza dimensione umana. Una nuova e perversa concezione antropologica riduce l’essere umano a uno solo dei suoi bisogni: il consumo. Impressionano le crescenti disparità che si creano un po’ dappertutto, alle quali si aggiunge la diffusa corruzione e l’evasione fiscale egoista. «In questo sistema, che tende a fagocitare tutto al fine di accrescere i benefici, qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta» (n. 56).

Come dice anche un proverbio popolare, il denaro è un ottimo servitore, ma un pessimo padrone. «Una riforma finanziaria che non ignori l’etica richiederebbe un vigoroso cambio di atteggiamento da parte dei dirigenti politici, che esorto ad affrontare questa sfida con determinazione e con lungimiranza, senza ignorare, naturalmente, la specificità di ogni contesto. Il denaro deve servire, non governare!» (n. 58).

Ci si lamenta della mancanza di sicurezza, ma, sinché esclusione e inequità nella società non saranno eliminate, sarà impossibile sradicare la violenza. «Senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione». Il documento fa qui una delle sue affermazioni più forti: ciò accade «perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla sua radice» (n. 58). Ritorna una delle distorsioni che già Giovanni Paolo II denunciò nella Sollicitudo rei socialis, quella delle «strutture di peccato»: «È il male cristallizzato nelle strutture sociali ingiuste, a partire dal quale non ci si può attendere un futuro migliore» (n. 59). L’esasperazione del consumo, provocata dall’economia attuale, insieme all’inequità, genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non risolve, né risolverà mai.

Il resto del capitolo II espone poi altre sfide, di tipo culturale, religioso, relative alla famiglia, all’inculturazione della fede ecc., di cui non intendiamo occuparci in questa sede. Un cenno però si può fare alla sfida che il documento chiama delle «culture urbane». L’umanità cammina, secondo la Scrittura (il Papa cita Ap 21,3-4), verso la nuova Gerusalemme. «È interessante che la rivelazione ci dica che la pienezza dell’umanità e della storia si realizza in una città» (n. 71). Ma la città va guardata con occhio di contemplazione, cioè con uno sguardo di fede, che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. Nelle città la vita religiosa è mediata da stili di vita molto differenti tra loro, anche se tanti cittadini lottano ogni giorno per sopravvivere.

In queste «enormi geografie umane», multiculturali per definizione, continuano a formarsi nuove culture, di cui il cristiano spesso non è più generatore o promotore, ma vi nascono nuovi linguaggi e nuovi simboli che presentano orientamenti di vita spesso in contrasto con il Vangelo. Nascono gruppi di persone che condividono gli stessi sogni di vita, e si costituiscono in nuovi settori urbani, ma sono spesso segnati da segregazione e violenza. «Il Sinodo ha constatato [anche nella Propositio 25] che oggi le trasformazioni di queste grandi aree e la cultura che esprimono sono un luogo privilegiato della nuova evangelizzazione». I mass media fanno sì che queste trasformazioni culturali arrivino ormai anche agli ambienti delle campagne e al loro modo di vivere, influenzandoli. «La città produce una sorta di permanente ambivalenza, perché, mentre offre ai suoi cittadini infinite possibilità, appaiono anche numerose difficoltà per il pieno sviluppo della vita di molti» (n. 74). Non per nulla le città sono, in molte parti del mondo, anche scenari per proteste di massa. Nuovi problemi vengono posti all’urbanistica: «Le case e i quartieri si costruiscono più per isolare e proteggere che per collegare e integrare» (n. 75).

Terminando il quadro, Papa Francesco cita il celebre discorso con cui Giovanni XXIII aprì il Concilio e nel quale condannava i «profeti di sventura», e a sua volta aggiunge: «I mali del nostro mondo — e quelli della Chiesa — non dovrebbero essere scuse per ridurre il nostro impegno e il nostro fervore. Consideriamoli come sfide per crescere» (n. 84). Dicendo un «no» deciso al pessimismo sterile, il Papa ricorda che una delle tentazioni più serie che soffocano il fervore e l’audacia è il senso di sconfitta, che ci trasforma in pessimisti scontenti. Una sfida importante è mostrare che la soluzione non consisterà mai nel fuggire da una relazione personale e impegnata con Dio che al tempo stesso ci impegni con gli altri.

La dimensione sociale dell’evangelizzazione
In questo quadro di luci e ombre, Papa Francesco inserisce il suo discorso sull’evangelizzazione, che è il tema principale e portante dell’intera Esortazione apostolica.
«Evangelizzare è rendere presente nel mondo il Regno di Dio» (n. 176). Con queste parole inizia il capitolo IV, dedicato, come dicevamo, alla dimensione sociale dell’evangelizzazione. Il messaggio evangelico possiede un contenuto ineludibilmente sociale: «Nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri» (n. 177). Nel cristianesimo è fondamentale la dignità infinita di ogni persona, conferita da Dio con la creazione dell’uomo a sua immagine e somiglianza. La redenzione ha un significato sociale, perché «Dio in Cristo non redime solamente la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra gli uomini»[3]. Riaffermando un concetto già più volte espresso dal Magistero, si dice: «Dal cuore del Vangelo riconosciamo l’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana, che deve necessariamente esprimersi e svilupparsi in tutta l’azione evangelizzatrice» (ivi).

Tutta la Scrittura ci insegna che nel fratello troviamo il prolungamento dell’Incarnazione per ciascuno di noi. Tutto ciò che facciamo per gli altri ha una dimensione trascendente. Saremo giudicati secondo la misura con cui abbiamo misurato gli altri. «Come la Chiesa è missionaria per natura, così sgorga inevitabilmente da tale natura la carità effettiva per il prossimo, la compassione che comprende, assiste e promuove» (n. 179).

Non si tratta però soltanto di porre in atto singoli gesti personali nei confronti dei bisognosi, come una specie di «carità à la carte» per tranquillizzare la propria coscienza. Si tratta di amare il Regno di Dio e di affrettarne la venuta sulla Terra, impegnandosi in tutti gli aspetti della natura e della vita umana. «La vera speranza cristiana, che cerca il Regno escatologico, genera sempre storia» (n. 181), perché Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa Terra, pur sapendo che la pienezza qui non sarà mai raggiunta.

Non potendo soffermarsi su ogni aspetto della vita sociale e non volendo al tempo stesso limitarsi ai princìpi generali, il Papa si concentra su due soli problemi: l’inclusione sociale dei poveri e la pace e il dialogo sociale.

L’inclusione sociale dei poveri
Lo spunto per il primo argomento viene ripreso da un passo del libro dell’Esodo: «Ho udito il grido del mio popolo» (Es 3,7). Rimanere sordi a quel grido, quando Dio ci ha chiamato a essere gli strumenti per ascoltare il povero, ci pone fuori dal progetto di Dio. Non si tratta infatti di una missione riservata soltanto ad alcuni, perché la solidarietà indica molto più di qualche atto sporadico di generosità. Richiede piuttosto di creare una nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni da parte di alcuni.

La proprietà (il Papa parla anche di semplice possesso) privata dei beni si giustifica per custodirli e accrescerli, ma in modo che servano al bene comune, restituendo, ad esempio, al povero quello che gli spetta. Il solo fatto di essere nati e di vivere in un luogo con minori risorse o minore sviluppo non giustifica il fatto che alcune persone vivano con minore dignità. Citando la Populorum progressio, il Papa afferma: «Abbiamo bisogno di crescere in una solidarietà che “deve permettere a tutti i popoli di giungere con le loro forze a essere artefici del loro destino”, così come “ciascun essere umano è chiamato a svilupparsi”»[4]. Ci deve scandalizzare il sapere che, ad esempio, c’è cibo sufficiente per tutti e che la fame è dovuta piuttosto alla cattiva distribuzione del cibo e del reddito necessario ad acquistarlo. Non si tratta però di assicurare soltanto il cibo o il sostentamento, ma anche la prosperità, il benessere in tutti i suoi aspetti.

Papa Francesco aggiunge significativamente: «Non preoccupiamoci solo di non cadere in errori dottrinali, ma anche di essere fedeli a questo cammino luminoso di vita e di sapienza» (n. 194), fatto di servizio umile e generoso, pieno di misericordia verso il povero. Quando san Paolo si recò dagli apostoli a Gerusalemme per discernere se stava correndo o aveva corso invano (cfr Gal 2,2), il criterio di autenticità che gli apostoli gli indicarono fu che non si dimenticasse dei poveri. Non è escluso che, scrivendo questo pensiero, Papa Francesco pensasse a quanto uno dei cardinali suoi elettori, anch’egli latinoamericano, gli aveva detto a elezione avvenuta: «Non ti dimenticare dei poveri». È un criterio da tenere presente nel contesto attuale, in cui tende a svilupparsi un nuovo paganesimo individualista.

Il Papa non si stanca di ripetere ogni giorno, e anche nel testo, che tutto il cammino della nostra redenzione è segnato dai poveri. «L’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica» (n. 198). La Chiesa ha fatto un’opzione per i poveri intesa come una forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana. Tutta la tradizione della Chiesa sta a testimoniarlo. «Per questo — aggiunge il Papa — desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente» (ivi). Ciò che si chiede è anzitutto l’attenzione all’altro, considerato come un’unica cosa con se stessi. La peggiore discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale.

Con un certo disincanto il Papa aggiunge: «Temo che anche queste parole siano solamente oggetto di qualche commento senza una vera incidenza pratica. Nonostante ciò confido nell’apertura e nelle buone disposizioni dei cristiani» (n. 201). Ciò che Papa Francesco chiede è di rimuovere le cause strutturali della povertà, ad esempio rinunciando all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria. L’esperienza ha dimostrato che non ci si può fidare delle forze cieche e della mano invisibile del mercato. «La crescita in equità richiede qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga: richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri», aggiungendo ad cautelam: «Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile» (n. 204); e: «Se qualcuno si sente offeso dalle mie parole, gli dico che le esprimo con affetto e con la migliore delle intenzioni, lontano da qualunque interesse o ideologia politica. La mia parola non è quella di un nemico, né di un oppositore» (n. 208).

Si invoca una corresponsabilità per il bene comune di tutti, cioè mondiale, perché nessun Governo può agire al di fuori di una comune responsabilità. Occorre una forma di interazione che, fatta salva la sovranità delle nazioni, assicuri il benessere economico di tutti i Paesi, e non solo di pochi.

In particolare, il Papa vorrebbe che si fosse attenti alle nuove fragilità, che determinano nuove povertà, come i migranti, le vittime della tratta delle persone, le donne, i nascituri, «che sono i più indifesi e innocenti di tutti»[5], e lo stesso ambiente naturale: la perdita di una specie andrebbe vissuta come una mutilazione.

Il bene comune e la pace sociale
Oltre che di gioia e di amore, la Parola di Dio parla anche di pace, che avrà futuro solo se sarà frutto di uno sviluppo integrale di tutti.

L’Esortazione ricorda il dovere di partecipare alla vita politica, ma diventare popolo è qualcosa di più e richiede un costante processo nel quale ogni nuova generazione deve venire coinvolta. A questo proposito, il Papa richiama quattro princìpi a lui molto cari che aiutano a risolvere alcune tensioni bipolari che si riscontrano in ogni realtà sociale. Di questi princìpi abbiamo già parlato in un precedente articolo[6]. Li ricordiamo, in quanto il Papa li ritiene elementi portanti sulla via della pace:

a) Il tempo è superiore allo spazio, che richiama la necessità di concedere tempo ai processi in modo che possano svilupparsi adeguatamente, senza preoccuparsi dei risultati immediati. Occorre, nell’attività socio-politica, dare il tempo necessario ai processi più che occupare spazi di potere.

b) L’unità prevale sul conflitto: i conflitti non sono evitabili, ma vanno accettati, sopportati e gestiti, risolvendoli in modo da trasformarli in un anello di collegamento con un nuovo processo di pace. In questo modo è possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che non significa annullare le differenze, ma risolverle su un piano superiore che conserva le preziose potenzialità delle posizioni in contrasto. Cristo ha unificato, o ricapitolato tutto in sé, e il segno di questa unità è la pace. Nel Vangelo l’annuncio inizia sempre con il saluto di pace, che corona e cementa le relazioni tra i discepoli. E l’annuncio di pace non è quello di una pace negoziata, ma «la convinzione che l’unità dello Spirito armonizza tutte le diversità».

c) La realtà è più importante dell’idea. «La realtà semplicemente è, l’idea si elabora» (n. 231). Le idee sono strumenti per cogliere, comprendere e dirigere la realtà, ma è pericoloso vivere nel mondo della sola parola, dell’immagine, se non addirittura del sofisma. Spesso le proposte dei politici sembrano logiche e chiare, ma non sono accolte, perché gli autori si sono collocati nel mondo delle pure idee e riducono la politica alla retorica. Non per nulla Gesù, la Parola di Dio, si è incarnata, si è trasformata in realtà sensibile. E questo non va mai perso di vista come elemento fondamentale dell’evangelizzazione.

d) Il tutto è superiore alla parte. Ci può essere, e spesso c’è, tensione tra la globalizzazione e la localizzazione. Occorre evitare che ci si perda o in un universalismo astratto e globalizzante, oppure in un museo folkloristico di eremiti localisti, che ripetono sempre le stesse cose e non vedono la bellezza che Dio diffonde fuori dai loro confini. Il tutto è più della parte ed è anche superiore alla semplice somma delle diverse parti. Si lavora nel piccolo, ma senza perdere di vista la prospettiva più ampia. L’immagine, ormai già diventata popolare, che il Papa propone è quella non della sfera, nella quale tutti i punti sono uguali, ma del poliedro, «che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» (n. 236).

Ma l’evangelizzazione, secondo il Pontefice, comporta anche un percorso di dialogo a vari livelli: con gli Stati, con la società (incluse le culture e le scienze) e con gli altri credenti che non fanno parte della Chiesa cattolica. Affermando questo, il Papa intende dire che «la nuova evangelizzazione sprona ogni battezzato a essere strumento di pacificazione e testimonianza credibile di una vita riconciliata» (n. 239). Occorre progettare una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro, senza separarla dalla preoccupazione per una società giusta. L’autore principale, cioè il soggetto storico di questo processo, è la gente, con la sua cultura, non un’élite. Ma non è la Chiesa, come già ripetuto, che può offrire soluzioni per tutti i casi particolari. Quanto alle scienze, purché non vengano usate a servizio di un’ideologia, «la Chiesa non pretende di arrestare il mirabile progresso delle scienze. Al contrario si rallegra e perfino gode riconoscendo l’enorme potenziale che Dio ha dato alla mente umana» (n. 243). Il dialogo sociale, infine, va intrapreso con coraggio anche in un’epoca, come la nostra, che vede il pluralismo religioso e la libertà di scegliere la religione che si considera vera e di manifestarla pubblicamente.
Qualche osservazione

Ci siamo limitati a illustrare un solo aspetto della lunga Esortazione apostolica, ma nel pensiero del Papa, più volte esplicitato nel testo, si tratta di un aspetto intimamente connesso con l’evangelizzazione (tema principale del testo). In questo si rivela anche la sua radice latinoamericana. La teologia e la pastorale latinoamericane infatti si sono sempre preoccupate dell’efficacia concreta, nella storia, dell’annuncio evangelico. Un Vangelo che non si traduce in avvenimento non è Vangelo. Quel continente, abitato da popolazioni da secoli in gran maggioranza cattoliche, non è riuscito a tradurre in istituzioni, strutture e organizzazioni sociali giuste il messaggio di fraternità e di equità espresso dal cristianesimo. E ha sempre rimproverato alla teologia europea il suo limitarsi alla teoria. Anche quando trattano di cosa fare, i teologi europei, secondo i latinoamericani, discutono su quanto sarebbe opportuno fare, ma non fanno. È quindi un invito alla concretezza della fede quello che Papa Francesco, argentino, rivolge ai fedeli di tutto il mondo.

Anche le critiche che il testo rivolge al sistema economico sono soprattutto un messaggio che presta la propria voce ai poveri, ai vinti della globalizzazione. Mai come oggi milioni di persone sono uscite dalla povertà e intere nazioni prima emarginate sono diventate protagoniste della scena economica mondiale: basti pensare all’India e alla Cina. Come il Pontefice riconosce nel Messaggio per la Pace (1° gennaio 2014), al n. 5, dove afferma: «Se da un lato si riscontra una riduzione della povertà assoluta, dall’altro lato non possiamo non riconoscere una grave crescita della povertà relativa».

Ma il Papa ricorda che i successi non devono far dimenticare quanti sono rimasti esclusi da questa corsa al benessere e le crescenti disparità, documentate da tutte le statistiche, che si creano e aumentano sia all’interno delle singole nazioni, sia tra un Paese e l’altro, aumentando la povertà relativa. Indubbiamente Papa Francesco ha in mente (e più ancora nel cuore) le difficoltà della sua Argentina e di altri Paesi dello stesso continente che, nonostante le loro grandi risorse, faticano ancora ad uscire dai circoli viziosi della povertà, del debito, della corruzione, dell’esclusione di intere classi sociali. Il Papa non vuole fare analisi economiche (già elaborate con cura dai suoi predecessori), ma lanciare un messaggio pastorale di allarme e di liberazione che parta da una visione evangelica e dalle distorsioni non eque presenti nel nostro mondo: vuole appunto evangelizzare.

Vorremmo poi sottolineare il tono eminentemente positivo, costruttivo di tutto il testo. Il Papa non si stanca di ripetere che possiamo farcela, unendo le forze e attingendo dal Vangelo le motivazioni e la forza per cambiare in meglio il nostro mondo, fidando sulla speranza di Dio, non sulla nostra. Già il titolo Evangelii gaudium dà il tono al documento, ma espressioni come «l’entusiasmo dell’evangeliz-zazione» (n. 265), o equivalenti, si ripetono lungo tutto il documento, che vuole incoraggiare, e lottare contro il pessimismo. «Siamo invitati a dare ragione della nostra speranza, ma non come nemici che puntano il dito e condannano» (n. 271), consapevoli della missione che ci è stata affidata, anzi ciascuno deve pensare: «Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere se stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare» (n. 273).

Ci pare che la Evangelii gaudium inviti a pensare in grande e ad allargare il proprio orizzonte, senza con questo perdersi nel generico. Soprattutto si percepisce l’invito al dinamismo, ben espresso dall’invito a curare più i processi, il continuo cammino nella giusta direzione, che non gli spazi da occupare (e che hanno creato tanti dolorosi casi di immobilismo mentale e sociale). Interessante è anche l’accenno alle culture dei grandi spazi urbani, che si diffondono in tutto il mondo, ma che in America Latina hanno avuto e hanno tuttora effetti talvolta allarmanti e difficilmente gestibili. La grande Buenos Aires sino a non molti anni fa riuniva circa metà della popolazione di tutta l’Argentina, che dispone di una superficie comparabile a quella dell’India.

Una volta ancora ci viene ricordato che la fede è un sì personale detto a Dio, ma la verifica della sua autenticità è l’incontro con il prossimo e, in epoca di globalizzazione, la nostra capacità di rendere il nostro mondo più degno di essere abitato e vissuto.

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[2]. Espressione della Evangelii nuntiandi (1975) di Paolo VI, citata al n. 51 della EG.

[3]. Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 52, cit. al n. 178.

[4]. Paolo VI, Populorum progressio, nn. 65 e 15, citati al n. 190.

[5]. Il Papa ci tiene a ricordare che «non ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua posizione su questa questione. Questo non è un argomento soggetto a presunte riforme o a “modernizzazioni”» (n. 214).

[6]. Cfr A. Spadaro, «Evangelii gaudium…», cit., 430, 432.

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