@ - «A Gaza c’è una progressione dell’orrore, del disumano, uno spostamento del senso del limite cui non eravamo abituati». Mario Morcellini è professore emerito di comunicazione all’Università La Sapienza di Roma e quando guarda le immagini della disperazione, dei corpi denutriti dei bambini e delle donne che piangono, ammette subito che «gli studi che abbiamo fatto sugli effetti della comunicazione non sono più adatti per leggere quello che sta accadendo.
Tutte le ricerche sostengono che occorre saper dosare la rappresentazione del dolore nei confronti dell’opinione pubblica, ma qui è evidente che siamo andati ben oltre».
Professor Morcellini, la comunicazione è davanti a un doppio cortocircuito. Da una parte giornalisti e media non possono entrare nella Striscia per documentare quanto sta succedendo, perché è loro impedito, dall’altra le immagini choc che i reporter palestinesi, gli unici rimasti sul campo, rimandano di continuo sui circuiti internazionali, tolgono il fiato.
Siamo entrati in una nuova stagione: quella della desensibilizzazione, in cui assistiamo alla consunzione delle parole, che non bastano più, non servono più se un volto, un corpo, un cadavere spiega già tutto. Mai avremmo pensato, in questa fase storica, che l’informazione sarebbe stata posta di fronte a bimbi uccisi perché affamati, colpiti perché in fila per chiedere cibo. Sembra impossibile, ma proprio per questo, adesso siamo chiamati a trovare un linguaggio nuovo. In questo senso, la comunicazione può essere una medicina salvavita: per quante riserve possiamo avere sul sistema dei media, chi mai avrebbe potuto accompagnarci nella cognizione del dolore se non chi può ancora raccontare dal vivo questi drammi?
Tanti reporter hanno pagato questa missione col prezzo della vita…
C’è una colpa culturale enorme di Israele, a mio parere: quella di aver deciso che i media sono pericolosi nel racconto della realtà. È la prima volta che un governo che si autodefinisce democratico racconta con giubilo che si stanno salvando vite di palestinesi perché si inviano pacchi alimentarli per sfamarli. Mi chiedo come faccia la società civile israeliana, che pure ha mostrato forte dissenso verso Netanyahu, a tollerare un sistema informativo così falsificante.
Come ritrovare un filo di verità nel caos?
Innanzitutto, va detto che dietro a tutto questo non può non esserci una strategia. Si sta cercando di trovare un equilibrio nel terrore, ma alla fine si alimenterà soltanto altro odio e nuovo terrorismo. È traumatico che tutto ciò, ovvero il peggio dell’estremismo, arrivi su entrambi i fronti da formazioni politiche che si rifanno a principi religiosi. Chiamare in causa Dio per giustificare comportamenti aberranti è antireligioso.
Gaza nel frattempo è diventata, nella manipolazione dei video deep fake, la riviera dei futuri miliardari, che banchettano nelle immagini create grazie all’intelligenza artificiale in quegli stessi posti in cui oggi si sparge il sangue degli innocenti. Come non accorgersi che si tratta oltreché di un’offesa alla dignità e al buon senso, anche di un clamoroso autogol comunicativo?
L’effetto del trumpismo, cui si deve l’ispirazione di quei video creati con l’Ia, è che non peggiora solo la comunicazione. Peggiora anche la società, perché dà voce a quella parte del sistema politico e dell’opinione pubblica più schierata, che considera il cantico tragico della perdita di umanità alla stregua di una favoletta. Questa costruzione mediatica è destinata a far danni per lungo tempo. Chi mai potrà andare in vacanza in un luogo come Gaza, diventato ormai un marchio, un brand che riunisce in sé tutta la solidarietà residua del mondo? Dai giornalisti ai sindacati, fino ai pacifisti e alle organizzazioni non governative, non c’è pezzo del mondo globalizzato che non si senta coinvolto nella battaglia per fermare le atrocità. Pensate a Papa Leone XIV e alla straordinaria postura che ha assunto nel conflitto. La Chiesa ha capito prima di altri che occorre osare, avere coraggio, quasi imprudenza nel chiedere il cessate il fuoco. A proposito: perché nessuno dice, neppure l’Italia, prima i palestinesi?
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