Parco Archeologico Religioso CELio

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lunedì, marzo 11, 2024

L’uomo rinasce dal sacro

@ - In realtà, la connessione fra arcaico e postmoderno sarebbe sempre possibile, quando ci fosse un’adeguata decisione politica. Secondo Scaligero, l’attualità non è che l’ultimo sbocco del primordiale. E nessuno può invocare l’incompatibilità fra primordiale e futuristico.

Fonte: Italicum
La virtù del pensiero sarebbe di creare l’azione. Si tratta di vedere se non sia possibile attuare un collegamento fra la sfera interiore, da cui nasce la volontà, e la decisione, da cui prende vita l’agire. Di solito, nella storia, è nei momenti di tracollo civile, di decadenza politica e culturale, che l’uomo si rivolge all’interno della sua anima, interrogandola circa il senso dell’esistere, chiedendo risposte assolute, e indagando la possibilità di attivare solidarismi protettivi. Quando una società è trionfante, affogata nel benessere, difficilmente sorgono mistiche e profeti. Basta la scienza della quotidianità, che sazia ogni domanda. Basta la contraffazione dello spirito, la superficialità, come è accaduto per la New Age nel mondo occidentale. Lo spirito di un popolo, e anche quello del singolo individuo, aleggiano allorquando si agitano inquietudini e vengono poste domande. La vera antitesi creativa al materialismo profano è la cura dell’anima, l’edificazione di uno spirito artefice.

Le scienze spirituali, in questo senso, hanno sempre costituito una contro-cultura atta alla riedificazione della storia come apparizione del sacro. Soprattutto nella modernità, questa convergenza ha spesso assunto significati di resistenza caratteriale e culturale, in grado di incidere linee di roccia sulle quali costruire l’apparato di una volontà antagonista. Il Novecento europeo ha conosciuto figure che, da Schuré a Guénon, da Meyrinck a Steiner ed oltre, hanno contribuito, sul lato per così dire esoterico, a erigere una barriera – comunque la si giudichi – sulla quale alcune derive della modernità si sono a volte infrante, lasciando non solo testimonianze, ma argomenti, gesti mentali, attitudini ed esempi che in ogni epoca sono patrimonio prezioso della “razza indomabile”.

Un personaggio come Massimo Scaligero, oggi ridotto a nume secondario e quasi settario, lui come tanti altri corrente sul pericoloso crinale delle “nuove spiritualità” corrose dal vizio americano, in quell’ambiguo comparto che è il pensiero esoterico, lo prendiamo come esempio di ciò che potrebbe rappresentare la condizione in cui si trova l’uomo che intende opporre ostacoli al dilagare della Cosmopoli materialista. Si direbbe una faccenda di individualità, di singoli, di avanguardie, ma potenzialmente l’evento della rivolta interiore investe le masse, coinvolge l’intera società barcollante. In effetti, la rivoluzione dello spirito creatore, necessaria sia per sostenere il peso della quotidiana degradazione, sia per pensare di abbatterla, è il primo giro di una ruota confuciana in grado di muovere la storia ed anche di rovesciarla.

La ricerca di una verità assoluta si volge a Oriente. È un classico della modernità europea. Dai tempi di Schopenhauer, questo “ex Oriente lux” ha governato più di una stagione. E proprio “l’Uomo di Luce”, sulle tracce persiane della gnosi illuminante, proprio questo ente trasfigurato è il miraggio che tiene in piedi la volontà creatrice. Scaligero ne rilanciò il significato in un momento di grande scompaginamento, l’immediato secondo dopoguerra. Allora si verificò il congiungersi della richiesta di salvezza, di fuga dal mondo della brama, e l’ingresso in una dimensione di alterità e di liberazione dal bisogno. La virtù “consolatoria” della filosofia, applicata alla catastrofe storica, genera la mistica, lo sappiamo. E Mistica di Luce è stato il pensiero di Scaligero.

Il suo è stato il tentativo – uno dei tanti, nel Novecento, ma uno dei pochi, in Italia – di arginare lo sgretolamento modernista e di innestare sul progresso materiale alcuni tra i più frondosi rami della tradizione. Ma è in grado il pensiero di arrestare il crollo della civiltà nell’incultura? Potrebbe una ritirata tra le pieghe dello spirito costruire una verità ancora nuova?

Tutto ruota attorno al concetto di edificazione. Il pensiero attinto dalle profondità del trascendente può costruire, educare, formare. Su questo punto il procedimento di concentrazione interiore esce dalla fase solipsistica individuale e diviene – può divenire – faccenda comunitaria, di ricrescita di nuove tecniche di apprendimento formativo. La solitudine del saggio, da Zarathustra in poi, accade che possa diventare il quadro di valori di un popolo. Ogni pensiero, che scavi in sé energie, ed ogni religione o religiosità, purché messa a contatto col fuoco dell’azione, può diventare e diventa rivoluzione. Questo, pertanto, significa che il ritorno alla cura dell’anima non è una fuga nell’irrealtà, nell’intimità, oppure nel segreto dell’arcano, se svolta con l’intendimento della vera metànoia, la sete di cambiamento che cresce, ogni volta che un uomo legge negli occhi del simile i suoi medesimi sogni.

L’Oriente ripensato da Massimo Scaligero intendeva essere una medicina per l’Occidente dissestato dalla liberaldemocrazia e gettato a piene mani nelle fauci del brutale materialismo laico. L’ossessione progressista necessita di un lenimento, e questo potere il saggio lo indica nei procedimenti di rinascita dell’Io. Come sfuggire alla morsa del tempo progredito, che incastra individui e masse nell’angoscia dello smarrimento, a contatto con la violenza nichilistica? Come si fa per non sentire nel cervello e nella carne il sopruso del mondo su di noi? Questa civilizzazione fatta di annientamenti ha un solo avversario: noi stessi e la nostra forza. Scaligero si era formato attraverso Nietzsche, Stirner e Steiner: questo ci dice già tutto. L’uomo rompe la sua catena schizofrenica infrangendo l’incantesimo progressista che l’ha forgiata. L’uomo è potenza, forza, lotta. Egli ha in sé gli strumenti della liberazione. Ecco che, dunque, il pensiero può diventare, e diventa, esercizio, cioè ascesi, di contrapposizione. Ognuno può abbeverarsi alla fonte che gli aggrada. Scaligero, come molti altri prima di lui, nel lungo secondo dopoguerra additò l’Oriente tradizionale in quanto bacino di consapevolezza e di edificazione interiore ancora sufficientemente limpido, poi lo fuse con apporti cristici, con intuiti neopagani, con folgori ermetiche. Anche se quell’Oriente si è nel frattempo ulteriormente contratto, per via della disastrosa occidentalizzazione planetaria, col suo corteggio di profitto, regno del denaro, oblìo dei saperi, dominio tecno-scientista, nonostante il grandeggiare dell’insieme che massacra i retaggi e che si chiama potere mondiale, nonostante questo e l’epocale arretramento del pensiero mitico e trascendente, tutto ciò non è ancora abbastanza per dichiarare l’inanità del perseverare.

La civiltà sorta dalla dialettica socratica e dallo scientismo cartesiano è stata a sua volta distrutta e fagocitata da quella tempesta rovinosa che è l’irruzione mondiale del potere economico sui sostrati cognitivi dell’uomo e sui suoi abituali parametri esistenziali. Davanti a questo assalto, l’uomo cosciente chiede armi di fronteggiamento. La “vitalità trascendente” e il “calore degli istinti” erano secondo Scaligero altrettanti momenti di quel “potere d’amore” che, come una nuova gnosi, doveva rimuovere le pesantezze del presente. Ed ecco il farsi luce, l’avvìo di un potere solare che concresce nel distacco dalla rovina e nella ginnastica/ascesi contemplante il simbolo: qualcosa che si muove e che deriva, anch’esso come l’intera nostra vita, dalla “memoria senziente”, quella sorta di atavismo innato comunitario che ogni individuo può dissotterrare da sé, come un’ascia di guerra[1].

In queste proposte non troviamo impotenza passatista. Troviamo invece la calma determinazione di dissotterrare i tesori dell’autocoscienza. Il riandare verso la sorgente non è oggi il vezzo dell’intellettuale disorganico e neppure il lamento impotente del melanconico: chi vede e tocca e assapora la sorgente compie un miracolo comunitario, egli irradia attorno a sé la forza del sacro. “Un risalire i tempi, controcorrente”, se non sbaglio, diceva Evola. Sapendo unire le cose del mondo a quelle dell’idea iperborea si innesca il potere di questa rivoluzione a espansione: cielo e terra. Lo sporgersi verso i pericoli della trascendenza, la decisione di attivare l’ascesi, queste sono vie del mondo, non fughe dal mondo. Si mette in gestazione la formazione di una specie d’uomo antica e rinnovatrice, si invoca l’avvento di un tipo, cui riservare il compito di distruggere la società dell’usura per dar vita alla società del valore. Pensare trascendente e vivere la vita. Due simboli in movimento. Ciò che Scaligero, a un certo punto, ancora giovanile, della sua maturazione intellettuale, aveva anche tratteggiato in chiave di potere politico organico, che, storicamente, unisce sfera privata e sfera cosmica:

La razza che venera le forze del cielo concepisce una relazione simbolica tra il fuoco del focolare, l’atmosfera e il fuoco solare, onde attraverso la fiamma le offerte si bruciano e sono assorbite dall’etere, grande nume celeste; la razza che adora le forze terrestri comunica con le sue divinità recando offerte nelle grotte e precipitandole negli abissi. Nell’unità olimpico – terrestre, d’origine iperborea, rinnovata da Roma, un motivo simbolico dominante è il “fuoco che riscalda la terra”, la fiamma che arde all’interno del tempio di Vesta: qui è evidente l’incontro dei due simboli e delle due spiritualità che sono i fondamenti metafisici dell’Impero.[2]

Il connubio tra tellurico e uranico è la garanzia che non c’è dissociazione fra sacro e profano.

È questa forse una concezione dell’esistere troppo lontana dalla quotidianità banale della società dell’anarco-liberismo mondialista? Soltanto in apparenza, e soltanto per chi ha smarrito ogni capacità di credere nella possibilità di rovesciare il nulla massificato.

In realtà, la connessione fra arcaico e postmoderno sarebbe sempre possibile, quando ci fosse un’adeguata decisione politica. Nulla esiste di ineluttabile, se non la rassegnazione. Gli antichi culti, per dire, potrebbero anche oggi, e anche domani, riapparire come credibili momenti di reciprocità sociale, di nuovo praticabili. Tradizione sacerdotale e tradizione eroica, in questo senso, secondo il linguaggio delle scienze dello spirito, possono ben convivere con la tecnoscienza di massa e la “megamacchina” produttivista.

Secondo Scaligero, così come secondo le grandi vie dell’Oriente ed anche dell’Occidente metafisico, l’attualità non è che l’ultimo sbocco del primordiale. E nessuno può invocare l’incompatibilità fra primordiale e futuristico. Il discorso ci porterebbe lontano, ma la storia ha più volte dimostrato che l’origine rivive nell’attualità, se solo esiste una volontà – non solo culturale, ma proprio politica – che la evoca. Il mondo del Logos e del Mythos trova la strada sbarrata se la trascendenza si rifugia nelle pieghe dell’intimità individuale; vede aprirsi l’orizzonte se, invece, il sacro dilaga nel mondo come obbedienza alla vita. «La memoria del Logos è il principio della rigenerazione dell’uomo», ha scritto Scaligero. «Ogni volta che lo Spirito incontra l’anima per l’espressione del pensiero, il Logos riluce, ma impercepito». Per invertire la tendenza, e far sì che l’apertura al trascendente venga percepita anche nel bel mezzo del fragore modernista, deve sorgere un pensiero che unifica idea ed esperienza, mondo e sovramondo:

Nei nuovi tempi, la via della donazione della Vita passa per il pensiero: che solo potrà ridestare la vita perduta del sentire. Oggi la possibilità diretta dello Spirito è il pensiero. […] Questo pensiero vuole risorgere dalla sua morte, vuole ritornare vita, Luce di Vita: vuole risorgere come melodia, perché la melodia cosmica è la forza da cui in realtà muove.[3]

Queste non sono cavalcate a briglia sciolta nelle praterie dell’illusione o della sognante divagazione esoterica, ma il prodotto di una fatica anche empirica, fisica, senza la quale non è possibile attaccare il mondo nel quale viviamo, così imponente, così monolitico, neppure dal lato dell’utopia. Tutto si riduce, in fondo, a dar voce a quella particolare razza d’uomini che, nella storia mondiale di ogni epoca, hanno sempre costituito il motore immobile del mutamento e dell’evento: coloro che, per educazione, personale edificazione, santificazione provvidenziale o che altro, custodiscono sempre in sé, in ogni frangente, anche il più apparentemente disperato, il «coraggio dell’impossibile».[4]

[1] Cfr. Scaligero, L’immaginazione creatrice [1964], introd. di Pio Filippani Ronconi, F.lli Melita Editori, Roma 1989, p. 27, in cui, richiamandosi alla sostanza di luce dell’essere eterico, Scaligero afferma che nell’uomo si producono immagini che «si traducono in lui immediatamente in sensazioni e in pensieri conformi alla memoria senziente: che è la memoria della razza e del sangue».

[2] Scaligero, La razza di Roma, ed. Mantero, Tivoli 1938, p. 49.

[3] Scaligero, Iside-Sophia, la dea ignota, Edizioni Mediterranee, Roma 1980, pp. 62-63.

[4] Cfr. Aa. Vv., Massimo Scaligero. Il coraggio dell’impossibile, Tilopa, Teramo 1982.

Parco Archeologico Religioso del CELio - PARCEL: Kiev al Papa: "Mai bandiera bianca"

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domenica, marzo 10, 2024

Papa Francesco, l’annuncio è arrivato in queste ore: “dimissioni imminenti” | I polmoni sono malandati

@ - Arriva un tremendo annuncio dal Vaticano, il futuro di Papa Francesco in queste ore è in bilico, i polmoni sono molto compromessi.

                                                                  Papa Francesco dimissioni imminenti
Nelle ultime ore, molta preoccupazione si è abbattuta su piazza San Pietro, poiché un annuncio sconcertante proveniente dal Vaticano ha scosso il mondo cattolico. Le notizie che circolano riguardo allo stato di salute del Santo Padre, Papa Francesco, sono pervase da una tensione palpabile.

I polmoni del Pontefice sono stati dichiarati molto compromessi, e il futuro del carismatico leader della Chiesa cattolica sembra essere in bilico. Circolano voci intense riguardanti l’imminenza di dimissioni che potrebbero cambiare il corso della storia ecclesiastica moderna.

Gli osservatori vaticani, solitamente riservati, stanno ora discutendo apertamente sulla possibilità che il Papa possa rassegnare le dimissioni, aprendo la strada a un periodo di transizione delicato per la Chiesa.

L’annuncio proveniente dal Vaticano ha lasciato la comunità cattolica sgomenta, mentre la preoccupazione cresce sulle sorti del Papa amato in tutto il mondo. I polmoni compromessi di Papa Francesco sono diventati il centro di attenzione, con molte persone che si interrogano sulle implicazioni di questa fragilità per il suo ruolo di guida spirituale.

Il Papa: un mediante di pace in mezzo alle crisi globali
Il Pontefice attualmente si impegna con grande dedizione nel monitorare le molteplici crisi che affliggono il pianeta, con particolare attenzione rivolta verso le tensioni in corso (Ucraina e Israele). L’obiettivo del Papa è quello di mediare e cercare soluzioni pacifiche per coinvolgere le parti in conflitto in discussioni più concilianti.

Tuttavia, nonostante i suoi sforzi, sembra che i suoi consigli non siano sempre accolti con la dovuta considerazione. Il Vaticano, con la sua forte influenza su diversi aspetti della vita sociale, si trova spesso al centro delle critiche, soprattutto per gli abusi commessi da alcuni membri del clero su minori. Papa Francesco affronta coraggiosamente questi scandali, nonostante le critiche provenienti anche dall’interno del Vaticano.

Cambiamenti nell’ambito ecclesiastico: nuova leadership della conferenza episcopale spagnola
In queste settimane, il Vaticano è testimone di significativi cambiamenti, tra cui l’elezione di monsignor Luis Argüello come Presidente della Conferenza Episcopale Spagnola. L’ex segretario generale della SEC, dal 2018 al 2022, ha ottenuto una vittoria schiacciante con 32 voti, distanziando di 19 voti il secondo vescovo più quotato, José Cobo, considerato da molti il candidato di Papa Francesco.

Tuttavia, nonostante la sua elezione, sembra che ci sia un malcontento all’interno del Vaticano, con voci che suggeriscono l’ipotesi di una sostituzione. Il Fatto Quotidiano riporta che questa situazione svela tensioni interne, con Francesco che combatte ancora con i suoi polmoni malandati, “ma aprire un dibattito pubblico sulla successione tradisce l’ansia di rivincita dei suoi feroci oppositori della destra clericale”.

martedì, marzo 05, 2024

San Gregorio I, detto Magno Papa e dottore della Chiesa 3 settembre Roma, 540 - 12 marzo 604

@ - (Papa dal 03/09/590 al 12/03/604)
 

Nacque verso il 540 dalla famiglia senatoriale degli Anici e alla morte del padre Gordiano, fu eletto, molto giovane, prefetto di Roma. Divenne poi monaco e abate del monastero di Sant'Andrea sul Celio. Eletto Papa, ricevette l'ordinazione episcopale il 3 settembre 590. Nonostante la malferma salute, esplicò una multiforme e intensa attività nel governo della Chiesa, nella sollecitudine caritativa, nell'azione missionaria. Autore e legislatore nel campo della liturgia e del canto sacro, elaborò un Sacramentario che porta il suo nome e costituisce il nucleo fondamentale del Messale Romano. Lasciò scritti di carattere pastorale, morale, omiletico e spirituale, che formarono intere generazioni cristiane specialmente nel Medio Evo. 

Morì il 12 marzo 604.

Patronato: Cantanti, Musicisti, Papi

Etimologia: Gregorio = colui che risveglia, dal greco

Emblema: Colomba, Gabbiano

Martirologio Romano: Memoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l’incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre. Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale. Morì il 12 marzo.
(12 marzo: A Roma presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto Magno, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione).

Fu uno dei più grandi Padri nella storia della Chiesa, uno dei quattro dottori dell’Occidente: Papa san Gregorio, che fu Vescovo di Roma tra il 590 e il 604, e che meritò dalla tradizione il titolo di Magnus/Grande. Gregorio fu veramente un grande Papa e un grande Dottore della Chiesa! Nacque a Roma, intorno al 540, da una ricca famiglia patrizia della gens Anicia, che si distingueva non solo per la nobiltà del sangue, ma anche per l’attaccamento alla fede cristiana e per i servizi resi alla Sede Apostolica. Da tale famiglia erano usciti due Papi: Felice III (483-492), trisavolo di Gregorio, e Agapito (535-536). La casa in cui Gregorio crebbe sorgeva sul Clivus Scauri, circondata da solenni edifici che testimoniavano la grandezza della Roma antica e la forza spirituale del cristianesimo. Ad ispirargli alti sentimenti cristiani vi erano poi gli esempi dei genitori Gordiano e Silvia, ambedue venerati come santi, e quelli delle due zie paterne, Emiliana e Tarsilia, vissute nella propria casa quali vergini consacrate in un cammino condiviso di preghiera e di ascesi.

Gregorio entrò presto nella carriera amministrativa, che aveva seguito anche il padre, e nel 572 ne raggiunse il culmine, divenendo prefetto della città. Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell’ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili. Questa vita tuttavia non lo doveva soddisfare se, non molto dopo, decise di lasciare ogni carica civile, per ritirarsi nella sua casa ed iniziare la vita di monaco, trasformando la casa di famiglia nel monastero di Sant’Andrea al Celio. Di questo periodo di vita monastica, vita di dialogo permanente con il Signore nell’ascolto della sua parola, gli resterà una perenne nostalgia che sempre di nuovo e sempre di più appare nelle sue omelie: in mezzo agli assilli delle preoccupazioni pastorali, lo ricorderà più volte nei suoi scritti come un tempo felice di raccoglimento in Dio, di dedizione alla preghiera, di serena immersione nello studio. Poté così acquisire quella profonda conoscenza della Sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa di cui si servì poi nelle sue opere.

Ma il ritiro claustrale di Gregorio non durò a lungo. La preziosa esperienza maturata nell’amministrazione civile in un periodo carico di gravi problemi, i rapporti avuti in questo ufficio con i bizantini, l’universale stima che si era acquistata, indussero Papa Pelagio a nominarlo diacono e ad inviarlo a Costantinopoli quale suo “apocrisario”, oggi si direbbe “Nunzio Apostolico”, per favorire il superamento degli ultimi strascichi della controversia monofisita e soprattutto per ottenere l’appoggio dell’imperatore nello sforzo di contenere la pressione longobarda. La permanenza a Costantinopoli, ove con un gruppo di monaci aveva ripreso la vita monastica, fu importantissima per Gregorio, poiché gli diede modo di acquisire diretta esperienza del mondo bizantino, come pure di accostare il problema dei Longobardi, che avrebbe poi messo a dura prova la sua abilità e la sua energia negli anni del Pontificato. Dopo alcuni anni fu richiamato a Roma dal Papa, che lo nominò suo segretario. Erano anni difficili: le continue piogge, lo straripare dei fiumi, la carestia affliggevano molte zone d’Italia e la stessa Roma. Alla fine scoppiò anche la peste, che fece numerose vittime, tra le quali anche il Papa Pelagio II. Il clero, il popolo e il senato furono unanimi nello scegliere quale suo successore sulla Sede di Pietro proprio lui, Gregorio. Egli cercò di resistere, tentando anche la fuga, ma non ci fu nulla da fare: alla fine dovette cedere. Era l’anno 590.

Riconoscendo in quanto era avvenuto la volontà di Dio, il nuovo Pontefice si mise subito con lena al lavoro. Fin dall’inizio rivelò una visione singolarmente lucida della realtà con cui doveva misurarsi, una straordinaria capacità di lavoro nell’affrontare gli affari tanto ecclesiastici quanto civili, un costante equilibrio nelle decisioni, anche coraggiose, che l’ufficio gli imponeva. Si conserva del suo governo un’ampia documentazione grazie al Registro delle sue lettere (oltre 800), nelle quali si riflette il quotidiano confronto con i complessi interrogativi che affluivano sul suo tavolo. Erano questioni che gli venivano dai Vescovi, dagli Abati, dai clerici, e anche dalle autorità civili di ogni ordine e grado. Tra i problemi che affliggevano in quel tempo l’Italia e Roma ve n’era uno di particolare rilievo in ambito sia civile che ecclesiale: la questione longobarda. Ad essa il Papa dedicò ogni energia possibile in vista di una soluzione veramente pacificatrice. A differenza dell’Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell’Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. Abbiamo celebrato ieri la memoria liturgica di sant’Agostino di Canterbury, il capo di un gruppo di monaci incaricati da Gregorio di andare in Britannia per evangelizzare l’Inghilterra.

Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo - era un vero pacificatore - , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 - 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli dimostra la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l’importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l’espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all’influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un’azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l’annuncio della vera fede tra le popolazioni.

Accanto all’azione meramente spirituale e pastorale, Papa Gregorio si rese attivo protagonista anche di una multiforme attività sociale. Con le rendite del cospicuo patrimonio che la Sede romana possedeva in Italia, specialmente in Sicilia, comprò e distribuì grano, soccorse chi era nel bisogno, aiutò sacerdoti, monaci e monache che vivevano nell’indigenza, pagò riscatti di cittadini caduti prigionieri dei Longobardi, comperò armistizi e tregue. Inoltre svolse sia a Roma che in altre parti d’Italia un’attenta opera di riordino amministrativo, impartendo precise istruzioni affinché i beni della Chiesa, utili alla sua sussistenza e alla sua opera evangelizzatrice nel mondo, fossero gestiti con assoluta rettitudine e secondo le regole della giustizia e della misericordia. Esigeva che i coloni fossero protetti dalle prevaricazioni dei concessionari delle terre di proprietà della Chiesa e, in caso di frode, fossero prontamente risarciti, affinché non fosse inquinato con profitti disonesti il volto della Sposa di Cristo.

Questa intensa attività Gregorio la svolse nonostante la malferma salute, che lo costringeva spesso a restare a letto per lunghi giorni. I digiuni praticati durante gli anni della vita monastica gli avevano procurato seri disturbi all’apparato digerente. Inoltre, la sua voce era molto debole così che spesso era costretto ad affidare al diacono la lettura delle sue omelie, affinché i fedeli presenti nelle basiliche romane potessero sentirlo. Faceva comunque il possibile per celebrare nei giorni di festa Missarum sollemnia, cioè la Messa solenne, e allora incontrava personalmente il popolo di Dio, che gli era molto affezionato, perché vedeva in lui il riferimento autorevole a cui attingere sicurezza: non a caso gli venne ben presto attribuito il titolo di consul Dei. Nonostante le condizioni difficilissime in cui si trovò ad operare, riuscì a conquistarsi, grazie alla santità della vita e alla ricca umanità, la fiducia dei fedeli, conseguendo per il suo tempo e per il futuro risultati veramente grandiosi. Era un uomo immerso in Dio: il desiderio di Dio era sempre vivo nel fondo della sua anima e proprio per questo egli era sempre molto vicino al prossimo, ai bisogni della gente del suo tempo. In un tempo disastroso, anzi disperato, seppe creare pace e dare speranza. Quest’uomo di Dio ci mostra dove sono le vere sorgenti della pace, da dove viene la vera speranza e diventa così una guida anche per noi oggi.

Nonostante i molteplici impegni connessi con la sua funzione di Vescovo di Roma, egli ci ha lasciato numerose opere, alle quali la Chiesa nei secoli successivi ha attinto a piene mani. Oltre al cospicuo epistolario – il Registro a cui accennavo nella scorsa catechesi contiene oltre 800 lettere – egli ci ha lasciato innanzitutto scritti di carattere esegetico, tra cui si distinguono il Commento morale a Giobbe - noto sotto il titolo latino di Moralia in Iob -, le Omelie su Ezechiele, le Omelie sui Vangeli. Vi è poi un’importante opera di carattere agiografico, i Dialoghi, scritta da Gregorio per l’edificazione della regina longobarda Teodolinda. L’opera principale e più nota è senza dubbio la Regola pastorale, che il Papa redasse all’inizio del pontificato con finalità chiaramente programmatiche.

Volendo passare in veloce rassegna queste opere, dobbiamo anzitutto notare che, nei suoi scritti, Gregorio non si mostra mai preoccupato di delineare una “sua” dottrina, una sua originalità. Piuttosto, egli intende farsi eco dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, vuole semplicemente essere la bocca di Cristo e della sua Chiesa sul cammino che si deve percorrere per giungere a Dio. Esemplari sono a questo proposito i suoi commenti esegetici. Egli fu un appassionato lettore della Bibbia, a cui si accostò con intendimenti non semplicemente speculativi: dalla Sacra Scrittura, egli pensava, il cristiano deve trarre non tanto conoscenze teoriche, quanto piuttosto il nutrimento quotidiano per la sua anima, per la sua vita di uomo in questo mondo. Nelle Omelie su Ezechiele, ad esempio, egli insiste fortemente su questa funzione del testo sacro: avvicinare la Scrittura semplicemente per soddisfare il proprio desiderio di conoscenza significa cedere alla tentazione dell’orgoglio ed esporsi così al rischio di scivolare nell’eresia. L’umiltà intellettuale è la regola primaria per chi cerca di penetrare le realtà soprannaturali partendo dal Libro sacro. L’umiltà, ovviamente, non esclude lo studio serio; ma per far sì che questo risulti spiritualmente proficuo, consentendo di entrare realmente nella profondità del testo, l’umiltà resta indispensabile. Solo con questo atteggiamento interiore si ascolta realmente e si percepisce finalmente la voce di Dio. D’altra parte, quando si tratta di Parola di Dio, comprendere non è nulla, se la comprensione non conduce all’azione. In queste omelie su Ezechiele si trova anche quella bella espressione secondo cui “il predicatore deve intingere la sua penna nel sangue del suo cuore; potrà così arrivare anche all’orecchio del prossimo”. Leggendo queste sue omelie si vede che realmente Gregorio ha scritto con il sangue del suo cuore e perciò ancora oggi parla a noi.

Questo discorso Gregorio sviluppa anche nel Commento morale a Giobbe. Seguendo la tradizione patristica, egli esamina il testo sacro nelle tre dimensioni del suo senso: la dimensione letterale, la dimensione allegorica e quella morale, che sono dimensioni dell’unico senso della Sacra Scrittura. Gregorio tuttavia attribuisce una netta prevalenza al senso morale. In questa prospettiva, egli propone il suo pensiero attraverso alcuni binomi significativi - sapere-fare, parlare-vivere, conoscere-agire -, nei quali evoca i due aspetti della vita umana che dovrebbero essere complementari, ma che spesso finiscono per essere antitetici. L’ideale morale, egli commenta, consiste sempre nel realizzare un’armoniosa integrazione tra parola e azione, pensiero e impegno, preghiera e dedizione ai doveri del proprio stato: è questa la strada per realizzare quella sintesi grazie a cui il divino discende nell’uomo e l’uomo si eleva fino alla immedesimazione con Dio. Il grande Papa traccia così per l’autentico credente un completo progetto di vita; per questo il Commento morale a Giobbe costituirà nel corso del medioevo una specie di Summa della morale cristiana.

Di notevole rilievo e bellezza sono pure le Omelie sui Vangeli. La prima di esse fu tenuta nella basilica di San Pietro durante il tempo di Avvento del 590 e dunque pochi mesi dopo l’elezione al Pontificato; l’ultima fu pronunciata nella basilica di San Lorenzo nella seconda domenica dopo Pentecoste del 593. Il Papa predicava al popolo nelle chiese dove si celebravano le “stazioni” - particolari cerimonie di preghiera nei tempi forti dell’anno liturgico - o le feste dei martiri titolari. Il principio ispiratore, che lega insieme i vari interventi, si sintetizza nella parola “praedicator”: non solo il ministro di Dio, ma anche ogni cristiano, ha il compito di farsi “predicatore” di quanto ha sperimentato nel proprio intimo, sull’esempio di Cristo che s’è fatto uomo per portare a tutti l’annuncio della salvezza. L’orizzonte di questo impegno è quello escatologico: l’attesa del compimento in Cristo di tutte le cose è un pensiero costante del grande Pontefice e finisce per diventare motivo ispiratore di ogni suo pensiero e di ogni sua attività. Da qui scaturiscono i suoi incessanti richiami alla vigilanza e all’impegno nelle buone opere.

Il testo forse più organico di Gregorio Magno è la Regola pastorale, scritta nei primi anni di Pontificato. In essa Gregorio si propone di tratteggiare la figura del Vescovo ideale, maestro e guida del suo gregge. A tal fine egli illustra la gravità dell’ufficio di pastore della Chiesa e i doveri che esso comporta: pertanto, quelli che a tale compito non sono stati chiamati non lo ricerchino con superficialità, quelli invece che l’avessero assunto senza la debita riflessione sentano nascere nell’animo una doverosa trepidazione. Riprendendo un tema prediletto, egli afferma che il Vescovo è innanzitutto il “predicatore” per eccellenza; come tale egli deve essere innanzitutto di esempio agli altri, così che il suo comportamento possa costituire un punto di riferimento per tutti. Un’efficace azione pastorale richiede poi che egli conosca i destinatari e adatti i suoi interventi alla situazione di ognuno: Gregorio si sofferma ad illustrare le varie categorie di fedeli con acute e puntuali annotazioni, che possono giustificare la valutazione di chi ha visto in quest’opera anche un trattato di psicologia. Da qui si capisce che egli conosceva realmente il suo gregge e parlava di tutto con la gente del suo tempo e della sua città.

Il grande Pontefice, tuttavia, insiste sul dovere che il Pastore ha di riconoscere ogni giorno la propria miseria, in modo che l’orgoglio non renda vano, dinanzi agli occhi del Giudice supremo, il bene compiuto. Per questo il capitolo finale della Regola è dedicato all’umiltà: “Quando ci si compiace di aver raggiunto molte virtù è bene riflettere sulle proprie insufficienze ed umiliarsi: invece di considerare il bene compiuto, bisogna considerare quello che si è trascurato di compiere”. Tutte queste preziose indicazioni dimostrano l’altissimo concetto che san Gregorio ha della cura delle anime, da lui definita “ars artium”, l’arte delle arti. La Regola ebbe grande fortuna al punto che, cosa piuttosto rara, fu ben presto tradotta in greco e in anglosassone.

Significativa è pure l’altra opera, i Dialoghi, in cui all’amico e diacono Pietro, convinto che i costumi fossero ormai così corrotti da non consentire il sorgere di santi come nei tempi passati, Gregorio dimostra il contrario: la santità è sempre possibile, anche in tempi difficili. Egli lo prova narrando la vita di persone contemporanee o scomparse da poco, che ben potevano essere qualificate sante, anche se non canonizzate. La narrazione è accompagnata da riflessioni teologiche e mistiche che fanno del libro un testo agiografico singolare, capace di affascinare intere generazioni di lettori. La materia è attinta alle tradizioni vive del popolo ed ha lo scopo di edificare e formare, attirando l’attenzione di chi legge su una serie di questioni quali il senso del miracolo, l’interpretazione della Scrittura, l’immortalità dell’anima, l’esistenza dell’inferno, la rappresentazione dell’aldilà, temi tutti che abbisognavano di opportuni chiarimenti. Il libro II è interamente dedicato alla figura di Benedetto da Norcia ed è l’unica testimonianza antica sulla vita del santo monaco, la cui bellezza spirituale appare nel testo in tutta evidenza.

Nel disegno teologico che Gregorio sviluppa attraverso le sue opere, passato, presente e futuro vengono relativizzati. Ciò che per lui conta più di tutto è l’arco intero della storia salvifica, che continua a dipanarsi tra gli oscuri meandri del tempo. In questa prospettiva è significativo che egli inserisca l’annunzio della conversione degli Angli nel bel mezzo del Commento morale a Giobbe: ai suoi occhi l’evento costituiva un avanzamento del Regno di Dio di cui tratta la Scrittura; poteva quindi a buona ragione essere menzionato nel commento ad un libro sacro. Secondo lui le guide delle comunità cristiane devono impegnarsi a rileggere gli eventi alla luce della Parola di Dio: in questo senso il grande Pontefice sente il dovere di orientare pastori e fedeli nell’itinerario spirituale di una lectio divina illuminata e concreta, collocata nel contesto della propria vita.

Prima di concludere è doveroso spendere una parola sulle relazioni che Papa Gregorio coltivò con i Patriarchi di Antiochia, di Alessandria e della stessa Costantinopoli. Si preoccupò sempre di riconoscerne e rispettarne i diritti, guardandosi da ogni interferenza che ne limitasse la legittima autonomia. Se tuttavia san Gregorio, nel contesto della sua situazione storica, si oppose al titolo di “ecumenico” assunto da parte del Patriarca di Costantinopoli, non lo fece per limitare o negare la sua legittima autorità, ma perché egli era preoccupato dell’unità fraterna della Chiesa universale. Lo fece soprattutto per la sua profonda convinzione che l’umiltà dovrebbe essere la virtù fondamentale di ogni Vescovo, ancora più di un Patriarca. Gregorio era rimasto semplice monaco nel suo cuore e perciò era decisamente contrario ai grandi titoli. Egli voleva essere - è questa la sua espressione - servus servorum Dei. Questa parola da lui coniata non era nella sua bocca una pia formula, ma la vera manifestazione del suo modo di vivere e di agire. Egli era intimamente colpito dall’umiltà di Dio, che in Cristo si è fatto nostro servo, ci ha lavato e ci lava i piedi sporchi. Pertanto egli era convinto che soprattutto un Vescovo dovrebbe imitare questa umiltà di Dio e così seguire Cristo. Il suo desiderio veramente era di vivere da monaco in permanente colloquio con la Parola di Dio, ma per amore di Dio seppe farsi servitore di tutti in un tempo pieno di tribolazioni e di sofferenze; seppe farsi “servo dei servi”. Proprio perché fu questo, egli è grande e mostra anche a noi la misura della vera grandezza.

sabato, marzo 02, 2024

I cristiani vivano da risorti: l'eredità di Zizioulas, l'ortodosso amico del Papa

@ - A un anno dalla scomparsa del metropolita Ioannis Zizioulas (1931-2023) vede la luce la sua sintesi teologica finale. Allievo di Florovsky, risoluto e sistematico, una vita tra università greche e angloamericane, Zizioulas era approdato a prestigiosi incarichi ecumenici.
I cristiani vivano da risorti: l'eredità di Zizioulas, l'ortodosso amico del Papa
© Fornito da Avvenire

Negli ultimi anni, era il più onorato intellettuale del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, tanto da presiedere autorevolmente, per la parte ortodossa, il dialogo ufficiale con la Chiesa cattolica. Il suo pensiero, radicato nella patristica da autentico ortodosso, percorreva e discuteva senza limiti tematici né diacronici l’intero vissuto teologico, fosse ortodosso, cattolico o protestante.

Lo testimonia il ponderoso volume postumo – in inglese ma preannunciato in edizione italiana – dal titolo Remembering the Future. Toward an Eschatological Ontology (St. Sebastian Orthodox Press, pagine 336). Un’opera dedicata all’escatologia, che Zizioulas considerava sommo fondamento della vita cristiana. Nella sua visione, solo il destino ultimo, segnato dal Cristo risorto e dalla resurrezione di tutti gli esseri umani, consentiva di vivere con fede nel presente. Parafrasando san Paolo col suo «se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra fede» (1 Corinzi 15, 14), sosteneva che senza fondarsi sulle “cose ultime”, vana era la fede.

Remembering the Future afferma dunque con serrato argomentare filosofico e teologico come il futuro determini il presente. Il libro chiede ai lettori la fede nella resurrezione, intesa come evento escatologico, perché possano decifrare religiosamente il presente. Per Zizioulas, la stessa teologia cristiana ha una sola fonte: la resurrezione, posta dinanzi a noi nel futuro come seconda e definitiva venuta di Cristo.

Ben lo spiega, nella prefazione al volume, papa Francesco, che aveva voluto Zizioulas suo consulente per la Laudato si’. Il Papa sottolinea come il metropolita scorga la liberazione dal passato in forza dell’eschaton, cioè di un futuro in cui «Dio sarà tutto in tutti» (1 Corinzi, 15, 28): occorre «credere che quel futuro stia già operando, causa di tutto l’essere; un futuro che viene alla storia e non viene dalla storia», colorandola «con i colori della resurrezione», avvertendo «il pericolo che avere lo sguardo fisso al passato possa renderci prigionieri degli errori compiuti, dei tentativi falliti, accumulando zavorre pessimistiche». Era la preoccupazione di Zizioulas confidata agli amici: i cristiani non dovevano restare prigionieri del passato.

Escatologia, sostiene Zizioulas, non è una dottrina ma un orientamento di vita. È l’essenza del cristianesimo, agli antipodi della sua riduzione a principi morali come tentato dal protestantesimo liberale. Essere cristiani è aspirare a essere santi ossia a vivere nella luce della resurrezione quale si manifesterà nella seconda venuta di Cristo. La Parusia, che sperimentiamo già ora nel culto, e soprattutto nell’Eucaristia, indica a partire dal futuro come dovremmo vivere oggi. Secondo Zizioulas, ogni liturgia dovrebbe svolgersi nel segno della gioia, in chiese piene di luce, in atmosfere non mistiche e tantomeno penitenziali, che riportino lo splendore della resurrezione. Se la liturgia rammemora il sacrificio di Cristo sulla croce, deve farlo a partire dalla resurrezione: non è facile, lamenta Zizioulas, allorché tutti i manuali dogmatici sull’Eucaristia, ortodossi, cattolici e protestanti, hanno per tema dominante il sacrificio del Calvario.

Si tratta di rovesciare la direzione del tempo, facendolo scorrere dal futuro verso il passato. Così la speranza investirà la storia e gli esseri umani, sottraendoli al pessimismo indotto dalla logica. Questa sarebbe l’operazione fatta dalla patristica nei confronti del pensiero forte dell’epoca antica, ossia la filosofia ellenistica, infondendo speranza in una cultura che era raffinata ma foriera di sconforto.

Remembering the Future è intriso di riferimenti patristici, che Zizioulas intende come esclusivamente greci (cita sì Agostino, ma considera i padri latini un sottoinsieme della patristica greca). Peraltro il volume spazia tra autori di tutte le epoche, con forse maggiore considerazione per Florovsky e per i protestanti Pannenberg e Moltmann.

Impossibile sintetizzare il volume e la rassegna di grandi questioni teologiche, affrontate senza innovare ad ogni costo. Ad esempio, Zizioulas contesta in un significativo passaggio le teorie di antichi e moderni (da Origene, Gregorio di Nissa, Isacco il Siro, fino a Bulgakov, Berdiaev, Clément) tendenti a negare l’«eternità degli inferi». Difende la posizione ufficiale della Chiesa ortodossa, per cui l’amore divino che vorrebbe annientare il male non può annullare la libertà degli esseri umani, arbitri di scegliere tra bene e male. E del resto, per compiere il percorso spirituale verso Dio, la volontà umana deve «liberamente» sottomettersi alla volontà di Dio. Scegliesse di andarvi contro, pregiudicherebbe la salvezza eterna, condannandosi agli inferi, qualsiasi cosa si celi dietro questo termine.

Ma qui, aggiunge Zizioulas, entrano in gioco la misericordia di Dio, la preghiera della Chiesa, i santi incontrati in vita. Ogni Eucaristia è un sacrificio d’intercessione per i defunti, per cancellarne i peccati. Vi si ricorda il rapporto sviluppato in vita con il sacrificio e la redenzione di Cristo, nella convinzione che l’amore di Dio «troverà, nell’ora del giudizio, nei frammenti terreni delle loro vite anche il più tenue volgersi verso Dio e la sua volontà. Così la Chiesa s’interpone tra la giustizia e l’amore di Dio per annullare ogni determinismo storico che renderebbe l’eschaton schiavo del nostro tempo storico».

Parole compassionevoli, tutt’altro che metafisiche. Rammentano la favola della cipollina raccontata da Grúšen’ka nei Fratelli Karamazov: «Me la raccontava quand’ero bambina la mia Matrëna […] C’era una volta una donna cattiva che morì. Non lasciò dietro a sé neppure una buona azione. I diavoli la presero e la gettarono in un lago di fuoco. Ma il suo angelo custode stava lì e pensava: “Quale sua buona azione posso ricordare da riferire a Dio?”. Se ne ricordò e disse a Dio: “Ha sradicato una cipollina nell’orto e l’ha data a una mendicante”. E Dio gli rispose: “Prendi quella cipollina e porgigliela nel lago perché vi si aggrappi: se la tirerai fuori dal lago, che vada pure in paradiso; ma se la cipollina si spezzerà, la donna dovrà restare dov’è ora”. L’angelo corse dalla donna e le porse la cipollina: “Tieni, donna: aggrappati, reggiti forte”. E prese a tirarla fuori; vi era quasi riuscito quando gli altri peccatori che si trovavano nel lago, vedendo che la tiravano fuori, cominciarono ad attaccarsi a lei per essere trascinati fuori anche loro. Ma la donna era cattiva cattiva e prese a dar calci agli altri: “È me che tirano fuori, non voi! la cipollina è mia, non vostra!” Aveva appena finito di dirlo che la cipollina si ruppe e la donna cadde nel lago, dove sta ancora bruciando. L’angelo si mise a piangere e si allontanò».

mercoledì, febbraio 28, 2024

Papa Francesco: "I Vescovi di domani, siano dediti al gregge e mai arrivisti"



@ - Questa mattina, prima dell'Udienza Generale, il Papa ha ricevuto in Udienza i Membri del Sinodo dei Vescovi della Chiesa Patriarcale di Cilicia degli Armeni

Papa Francesco durante un'udienza generale | | Vatican Media / ACI Group

Questa mattina, prima dell'Udienza Generale, il Papa ha ricevuto in Udienza i Membri del Sinodo dei Vescovi della Chiesa Patriarcale di Cilicia degli Armeni. Il discorso del Pontefice, a causa della sua malattia respiratoria, è stato letto da Mons. Filippo Ciampanelli.

"Cari Fratelli, una delle grandi responsabilità del Sinodo è proprio quella di dare alla vostra Chiesa i Vescovi di domani. Vi prego di sceglierli con cura, perché siano dediti al gregge, fedeli alla cura pastorale, mai arrivisti. Non vanno scelti in base alle proprie simpatie o tendenze, e bisogna stare molto attenti agli uomini che hanno “il fiuto degli affari” o a quelli che “hanno sempre la valigia in mano”, lasciando il popolo orfano. Un Vescovo che vede la sua Eparchia come luogo di passaggio verso un’altra più “prestigiosa” dimentica di essere sposato con la Chiesa e rischia – permettetemi l’espressione – di commettere un “adulterio pastorale”, dice subito il Papa ricevendo i Membri del Sinodo dei Vescovi della Chiesa Patriarcale di Cilicia degli Armeni.

"I figli del vostro caro popolo hanno bisogno della vicinanza dei loro Vescovi. So che in grandissimo numero sono dispersi nel mondo e talvolta in territori molto vasti, dov’è difficile che siano visitati. Ma la Chiesa è Madre amorevole e non può che cercare tutti i mezzi possibili per raggiungerli, perché ricevano l’amore di Dio nella loro propria tradizione ecclesiale. Voi, Fratelli, insieme con i sacerdoti, i diaconi, le consacrate e i consacrati, e tutti i fedeli della vostra Chiesa, avete una grande responsabilità. San Gregorio l’Illuminatore portò la luce di Cristo al popolo armeno ed esso è stato il primo, in quanto tale, ad accoglierla nella storia. Dunque voi siete testimoni e, per così dire, “primogeniti” di questa luce, siete un’alba chiamata a irradiare la profezia cristiana in un mondo che spesso preferisce le tenebre dell’odio, della divisione, della violenza, della vendetta", spiega il Pontefice nel suo discorso.

"Vorrei condividere con voi un altro aspetto che avverto come prioritario: pregare molto, anche per custodire quell’ordine interiore che permette di operare in armonia, discernendo le priorità del Vangelo, quelle care al Signore. I vostri Sinodi siano dunque ben preparati, i problemi studiati con cura e valutati con saggezza; le soluzioni, sempre e solo per il bene delle anime, siano applicate e verificate con prudenza, coerenza e competenza, assicurando soprattutto la piena trasparenza, anche nel campo economico. Le leggi vanno conosciute e applicate non per formalismo, ma perché sono strumenti di un’ecclesiologia che permette anche a chi non ha potere di appellarsi alla Chiesa con pieni diritti codificati, evitando gli arbitrii del più forte", un altro pensiero del Papa.

"Fratelli carissimi, come non evocare infine, con le parole ma soprattutto con la preghiera, l’Armenia, in particolare tutti coloro che fuggono dal Nagorno-Karabakh, le numerose famiglie sfollate che cercano rifugio! Tante guerre, tante sofferenze. La prima guerra mondiale doveva essere l’ultima e gli Stati si costituirono nella Società delle Nazioni, “primizia” delle Nazioni Unite, pensando che ciò bastasse a preservare il dono della pace. Eppure da allora, quanti conflitti e massacri, sempre tragici e sempre inutili. Tante volte ho supplicato: “Basta!”, Echeggiamo tutti il grido della pace, perché tocchi i cuori, anche quelli insensibili alla sofferenza dei poveri e degli umili", conclude infine il Pontefice.