Parco Archeologico Religioso CELio

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venerdì, settembre 15, 2023

Il Papa: "Come benedettini la vostra lingua sia per lodare Dio"

@ - Papa Francesco ha ricevuto in Udienza questa mattina in Vaticano i partecipanti al V Congresso Mondiale degli Oblati Benedettini.

Vatican Media / AI Group

Papa Francesco ha ricevuto in Udienza questa mattina in Vaticano i partecipanti al V Congresso Mondiale degli Oblati Benedettini. "L’oblato benedettino, nel proprio ambiente familiare e sociale, riconosce e accoglie il dono di Dio...ispirando il proprio cammino di fede ai valori della Santa Regola e della Tradizione spirituale monastica", spiega subito il Papa.

"Che bello: un cuore dilatato dall’indicibile sovranità dell’amore! Questo cuore dilatato caratterizza lo spirito benedettino, che ha innervato la spiritualità del mondo occidentale e che si è poi diffuso in tutti i continenti – quell’espressione, “cuore dilatato”, è molto importante. È nei secoli un carisma foriero di grazia, perché le sue radici sono così salde che l’albero cresce bene, resistendo alle intemperie del tempo e porta frutti saporiti di Vangelo. Credo che questo cuore dilatato sia il segreto della grande opera di evangelizzazione che il monachesimo benedettino esercita, e a cui voi vi votate come oblati, offerti sulle orme del grande Santo Abate", il Pontefice accoglie così i presenti.

Gli oblati benedettini sono persone (sacerdoti o laici) che desiderano seguire la Regola benedettina. L'oblazione è l'atto liturgico-spirituale, riconosciuto dalla Chiesa, con il quale l'aspirante oblato, dopo un congruo periodo di formazione, fa l'offerta di se stesso a Dio vincolandosi a una comunità benedettina determinata e con l'appartenenza a una determinata Abbazia o Monastero.

La ricerca di Dio, la passione per il Vangelo e l’ospitalità. Sono tre punti che il Papa lascia
 agli oblati benedettini.

"La vita benedettina si caratterizza prima di tutto per una costante ricerca di Dio, della sua volontà e delle meraviglie che Egli opera. Tale ricerca avviene prima di tutto nella Parola, di cui vi nutrite ogni giorno nella lectio divina. Anche nella contemplazione del creato, nel lasciarsi interrogare dagli eventi quotidiani, nel vivere come preghiera il lavoro. In tutto questo siete chiamati a essere ricercatori di Dio.", dice subito il Papa.

"Un secondo tratto importante è quello della passione per il Vangelo. Sull’esempio dei monaci, la vita di chi si rifà a San Benedetto è donata, piena, intensa. Come i monaci, che bonificano i luoghi dove vivono e scandiscono le giornate con operosità, così anche voi siete chiamati a trasformare, là dove vivete, i contesti di ogni giorno, operando come lievito nella pasta, con competenza e responsabilità, e al tempo stesso con mitezza e compassione", aggiunge ancora Papa Francesco.

Il terzo tratto della tradizione benedettina su cui si sofferma Francesco è quello dell’ospitalità. "Come oblati, il vostro grande monastero è il mondo, la città, il luogo di lavoro, e lì siete chiamati a essere modelli di accoglienza nel rispetto di chi bussa alla vostra porta e nella predilezione per i poveri. Accogliere è questo: la tentazione è chiudersi, e oggi, nella nostra civiltà, nella nostra cultura, anche cristiana, uno dei modi di chiudersi è il chiacchiericcio, che “sporca” gli altri: “Io mi chiudo perché questo è un disgraziato............”. Per favore, come benedettini la vostra lingua sia per lodare Dio, non per chiacchierare degli altri", suggerisce il Papa.

"Se fate la riforma di vita di non sparlare mai degli altri, avrete aperto la porta alla vostra causa di canonizzazione! Andate avanti su questo", conclude il Papa.

sabato, agosto 26, 2023

Immobili degli ordini religiosi una nuova vita oltre i mattoni

@ - «Progetto di recupero dell’ex-convento delle clarisse per la realizzazione di un relais con Spa». Cantieri con cartelli simili se ne trovano ormai molti, soprattutto nei borghi italiani più belli che nei secoli hanno visto sorgere un numero straordinario di conventi, monasteri, chiese, grazie alla grande biodiversità carismatica del bel Paese. 


Il paesaggio italiano non sarebbe patrimonio dell’umanità senza i profili di cattedrali, pievi e chiostri, nelle città e nelle campagne.

La laica spietata analisi dei dati della demografia della vita religiosa ci dice però qualcosa che non ci piace ascoltare: nel giro di uno o due decenni la grande maggioranza, forse il 90%, degli edifici religiosi saranno vuoti, e molti lo sono già. La tendenza è iniziata oltre mezzo secolo fa, ma, anche in questo caso, quando ce ne siamo accorti era già troppo tardi. Che cosa fare concretamente? Le chiese e gli immobili vuoti, venduti o messi in vendita, sono la punta di un iceberg di qualcosa di molto più vasto, trascurato e multidimensionale. Innanzitutto c’è una questione direttamente economica e quindi civile.

Questi conventi e monasteri all’origine erano beni comuni, perché nati dalle comunità civili e perché quei religiosi e religiose si occupavano anche di poveri, dei malati, di scuole, hanno inventato il nostro welfare. Quando oggi un convento viene ceduto ad una multinazionale for-profit che lo trasforma in una Spa, i fruitori non sono più tutti gli abitanti di quel borgo ma solo i “solventi”: quel bene da pubblico diventa privato, con un’estrazione privata di valore un tempo pubblico.

In secondo luogo, queste strutture sono state generate dalla vita, da una vita cristiana comunitaria, da bisogni concreti delle persone, delle comunità, dei poveri. Il loro sottoutilizzo o inutilizzo di oggi segnala una forte diminuzione dei bisogni che li hanno fatti nascere. Nei secoli passati le opere erano sorte per una forza intrinseca del carisma ma anche come risposta concreta alle sfide del loro ambiente. Il mondo cambia, mutano le forme con cui si esprime un dato bisogno, e le opere dei carismi fanno fatica ad inserirsi in questo duplice cambiamento (si pensi solo al tema della messa in regola). Si comprende allora che un primo essenziale lavoro delle comunità religiose dovrebbe consistere nell’attualizzare la domanda carismatica originaria. Se, ad esempio, una congregazione era nata per l’educazione delle ragazze povere di inizio Ottocento, la nascita di scuole fu la risposta normale alla domanda carismatica.

Ma oggi, con la scuola pubblica e universale in molti Paesi, quale risposta dovrebbe generare quella stessa domanda? Forse quella congregazione dovrebbe spostarsi sulle frontiere educative delle ragazze “povere” di oggi (marginalità, migranti, disagio), cambiando quindi le risposte concrete per restare fedeli alle domande; quando invece ci si affeziona alle risposte che il carisma ha dato ieri (scuole) si finisce per dimenticare le domande che le avevano generate: la fedeltà di oggi alle risposte di ieri diventa infedeltà al carisma. Le “case vuote”, gli immobili oziosi e pigri (che si usano, ad esempio, tre settimane l’anno per esercizi spirituali), segnalano quindi non solo una crisi della comunità religiosa ma anche una crisi più ampia dei mondi vitali attorno ad esse – quindi la soluzione può emergere da entrambi i luoghi, perché le vocazioni al carisma che ieri si esprimevano in una sola forma (consacrata) oggi possono assumerne di nuove (es. famiglie). Quando, infatti, accanto alle attuali strutture ci sono comunità vive e dinamiche, si assiste ad autentiche resurrezioni di quelle antiche strutture.

C’è poi un terzo discorso, cruciale, sul famigerato “mercato”. Uno sguardo negativo e prevenuto nei confronti del “mercato” che si interessa agli immobili religiosi non aiuta nessuno. Quando il mercato – una impresa, un fondo, una banca … – si avvicina ad un immobile, questo interesse segnala già qualcosa di serio. Dice che, almeno per il mercato, in quella “casa” c’è un valore. E questo valore rivelato è già un fatto positivo: non sarà un valore spirituale ma è quantomeno un valore economico-finanziario. E se una struttura esprime un qualche valore, quella struttura è ancora viva e può continuare a generare altro valore e valori. Spesso il mercato svolge una funzione analoga a quella che svolgono gli eredi che vendono la preziosa biblioteca di un loro parente illustre studioso.

Mettendoli sul mercato fanno rivivere quei libri polverosi nelle case dei nuovi amatori che li compreranno: i libri vengono liberati dagli scaffali-loculi, la dispersione genera nuova vita. Da qui un messaggio: un immobile venduto è molto preferibile ad un immobile che va in malora e diventa una ferita infetta della comunità, di un territorio, di una città. Dovremmo essere coscienti che il vero problema degli immobili religiosi oggi non è la mancanza di un valore spirituale: il dramma è l’assenza spesso di ogni valore perché quella struttura non vale più nulla, da nessun punto di vista. Certo, non tutti i valori sono uguali e non tutte le nuove destinazioni dell’immobile hanno lo stesso valore in una prospettiva carismatica. Una scuola di suore che continua a fare scuola grazie ad una cooperativa sociale ha un valore carismatico maggiore di una ex-scuola che diventa un centro massaggi; come sono certamente preferibili quei progetti di rivalutazione di un exconvento destinandolo ad un uso pubblico (museo, università, ospedale, carcere …), come sta accadendo con il convento dei Cappuccini di Chiavenna o a Monte Uliveto. Ma – e questo è il punto – molto meglio un centro benessere che le erbacce e i vetri rotti! In questi casi per non vendere ci vogliono ragioni etiche molto forti (sospetti di illegalità, truffe, riciclaggio, immoralità della nuova attività); in tutti gli altri casi anche il mercato “normale” può essere una soluzione possibile, e scartarlo è una scelta irresponsabile. Non è quasi mai la soluzione ottima, ma è in ogni caso migliore dell’abbandono – il discernimento è scelta tra opzioni non ottime.

Anche per queste scelte vale il principio di sussidiarietà: 1. In primis tentare la soluzione con le comunità più vicine dal punto di vista spirituale e carismatico per vagliare la possibilità che l’immobile possa continuare a vivere nella sua missione originaria, mettendosi insieme con altre comunità simili (per una casa di riposo comune, per un centro per ritiri…), o passando il testimone a nuove comunità con carismi simili. 2: se dopo aver fatto bene e senza fretta questa prima analisi non emerge nessuna soluzione concreta, si passa al secondo livello: istituzioni pubbliche, fondazioni, mondo non-profit, e si cercano progetti che possono essere anche misti con i soggetti del primo livello più vicino, per salvare la “vocazione” dell’immobile. 3: se infine non emerge nulla neanche in questa seconda ricerca, il mercato va preso sul serio, molto sul serio, perché in genere la quarta alternativa che resta è l’abbandono, e quindi spese ingenti per la messa in sicurezza, tristezza quotidiana nel vederlo appassire, pessimismo collettivo… Anche il mercato può trovare a quell’immobile una nuova vita, una nuova vocazione, diversa ma ancora viva.

Quando si sceglie la via del mercato occorre imparare la lingua e le regole del mercato: organizzarsi, studiare, farsi aiutare delle persone giuste (il tema dei consulenti è centrale e delicatissimo), essere prudenti come i serpenti mentre si conserva il candore carismatico delle colombe, evitando che i serpenti eliminino le colombe (e viceversa). Importante è poi decidere subito la destinazione dei profitti della vendita – non è in genere una buona soluzione quella che destina i proventi solo a riserve per le spese future: senza il coraggio di nuovi investimenti il futuro non fiorisce. I nfine, c’è un ragionamento più radicale. Gli immobili non sono fini in sé stessi. Ogni volta che sulla terra è arrivata una grande novità spirituale – da Abramo a Cristo – tutto è iniziato perché qualcuno ha lasciato una casa, un riparo sicuro e si è messo a camminare verso la terra del non-ancora. Le case e le strutture tendono per loro natura a trattenerci nel passato, a farci guardare l’Egitto e i suoi mattoni.

San Francesco intuì che il tempo nuovo sarebbe iniziato rimettendosi a camminare, mendicanti, lungo la strada, tornando “quelli della via”. Sentì talmente forte il desiderio della povertà della strada da vivere con forte disagio la nascita dei conventi immobili dei suoi frati, invitandoli fino alla fine alla sequela povera del “figlio dell’uomo che non sa dove posare il capo”. Per quanto ci piacciono e li amiamo, perché portatori di stigmate di vita e di amore, dobbiamo essere coscienti che i nostri immobili sono quasi sempre vestigia di un cristianesimo che sta tramontando nelle sue forme di culto e di vita; non sta tramontando il messaggio del vangelo con la sua promessa, sta finendo solo la Christianitas come l’abbiamo immaginata. Siamo in un tempo molto simile all’esilio biblico. L’invasione dei babilonesi significò la distruzione del tempio e delle case, e all’inizio dell’esilio sembrava impossibile poter ancora vivere: smisero di cantare, appesero le cetre sui salici lungo i fiumi di Babilonia. Ma un giorno capirono qualcosa di decisivo: che Dio era vivo e presente anche senza tempio e senza le case di ieri, e in quella spoliazione totale riscoprirono il valore dell’arameo errante e la libertà della tenda nomade. In esilio si impara a risorgere, perché si torna finalmente poveri e liberi, come nel primo giorno.

Oggi c’è un vitale bisogno di una nuova e forte capacità di rimettersi a camminare liberi e poveri, e di farlo insieme - ne va il futuro stesso della Chiesa. Se qualche struttura aiuta nel cammino va valorizzata. Delle altre dobbiamo solo liberarci, perché non ci impediscano i nuovi necessari “folli voli”, ad ogni età, e le pietre non diventino i padroni delle persone e dei carismi. Ciò che veramente conta è ripartire con un bagaglio leggero. Le case più importanti sono quelle di domani, che saranno di meno e diverse da quelle che abbiamo costruito ieri: più tende mobili e meno palazzi, più accampamenti e meno templi. Case che poi lasceremo ancora per ritornare pellegrini dell’assoluto.

martedì, agosto 22, 2023

Povertà, in Italia quasi sei milioni di persone vivono nell’indigenza assoluta

@ - Alleanza contro la povertà in Italia denuncia che il numero di persone che vive sotto la soglia di povertà, negli ultimi dieci anni, è triplicato. Il portavoce Antonio Russo: “I poveri non possono essere trattati per categorie differenti, chi è in condizioni di difficoltà lo è e basta”.


La povertà è una realtà drammatica e in costante aumento. Sono 5,6 milioni le persone che in Italia vivono sotto in indigenza. Un numero che, Antonio Russo, portavoce di Alleanza contro la povertà in Italia racconta a Radio Vaticana – Vatican News, è cresciuto costantemente nel corso degli ultimi anni, soprattutto a causa delle conseguenze economiche legate alla pandemia. “In Italia - spiega Russo - dieci anni fa, erano due milioni e 135.000 i poveri assoluti. Oggi siamo di fronte a una popolazione che ne conta quasi il triplo”.

La realtà delle fasce più fragili
L'indigenza è stata aggravata dall’aumento dei prezzi e dell’inflazione, arrivata quasi al 6% in Italia. Una tassa che, per il portavoce di Alleanza contro la povertà,è praticamente una tassa piatta su chi non ce la fa. Quando aumenta l'inflazione, gli economisti insegnano, i beni di consumo sono quelli più colpiti ma sono anche quelli dei quali non si può fare a meno". A questo quadro generale, secondo Russo, andrebbe anche aggiunta “la sospensione da agosto del reddito di cittadinanza per 160.000 famiglie, alla quale si aggiungerà, entro la fine di quest'anno, la sospensione totale del sussidio". Molto probabilmente, è l'amara considerazione di Russo, "la fascia dei poveri assoluti aumenterà, e questo non inciderà solo sull'alimentazione delle famiglie, ma anche sulla possibilità di studiare e di curare i suoi componenti".

Le famiglie in povertà relativa
A destare preoccupazione sono soprattutto le famiglie in povertà relativa che, come spiega il portavoce di Alleanza contro la povertà, "sono quelle famiglie che fino a qualche tempo fa conducevano una vita assolutamente normale e che prima del Covid avevano una situazione reddituale nella norma e un lavoro dignitoso che, spesso a causa della pandemia, hanno perso e mai più ritrovato". Sempre più spesso però si parla di famiglie in povertà relativa anche riferendosi a quei nuclei “che un reddito ce l'hanno, ma che si trovano in difficoltà perché composti da più di tre persone- spiega ancora Russo- il che è un altro dato che vale la pena sottolineare, infatti, purtroppo, la linea di confine tra povertà relativa e assoluta si fa sempre più sottile, delineando un futuro molto difficile per la popolazione.”

Le misure per combattere il fenomeno
Secondo Alleanza contro la povertà, per riuscire a combattere concretamente il fenomeno servono misure modellate sui bisogni del cittadino, “partendo dal reintrodurre il principio dell'universalismo selettivo, ovvero una misura di contrasto alla povertà -continua Russo - che sia destinata a tutte le persone e le famiglie in difficoltà, a prescindere dall’età”. Le proposte di Alleanza, nate dopo un’attenta analisi della nuova legge 85/2023 hanno portato alla nascita di un documento programmatico, che verrà presentato in Senato il prossimo 24 settembre, “perché l’attuale legge ragiona per categorie – spiega Russo- e i poveri purtroppo non possono essere trattati per categorie differenti, chi è in condizioni di difficoltà lo è e basta”. Tra le 8 proposte contenute nel testo, spiccano la richiesta di reintrodurre a 9.360 euro annui la soglia reddituale di accesso differenziato per coloro che sono in locazione e la domanda di far allentare il vincolo di residenza per gli stranieri dai 5 anni previsti dalla legge ai 2 di residenza effettiva, affinché possano accadere ai sussidi. “Secondo noi si dovrebbe migliorare anche la cumulabilità reddito - lavoro per non disincentivare le persone a cercare un impiego – conclude Russo- siamo poi molto preoccupati per il ruolo che i comuni ricopriranno una volta concluso il reddito di cittadinanza, perché da soli non possono affrontare una crisi così profonda e radicata”.

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lunedì, agosto 14, 2023

La gioventù di San Massimiliano Kolbe

@ - A colloqui con padre Raffaele Di Muro, Preside della Facoltà Teologica San Bonaventura-Seraphicum di Roma e direttore della cattedra kolbiana


Il 14 agosto 1941, vigilia della Festa dell’Assunta, nel campo di concentramento di Auschwitz, al Blocco 11, con una iniezione di acido fenico, un uomo che aveva impresso sul petto il numero 16670 veniva ucciso. Quell’uomo si chiamava Massimiliano Kolbe. Era un frate conventuale francescano e diverrà santo. Il religioso polacco rappresenta una delle più belle figure di santità del secolo scorso. Visionario per diversi aspetti (importante la sua diffusione della devozione mariana grazie alla carta stampata e addirittura la radio); pioniere del Messaggio evangelico fino al Giappone, terra da lui amata e vissuta; martire perché donò la vita in quel campo di concentramento nazista, prendendo il posto di un padre di famiglia, Franciszek Gajowniczek che nel processo di canonizzazione, rilasciò una testimonianza nella quale vedeva il santo polacco dire a Hans Bock, capoblocco dell'infermeria dei detenuti, incaricato di effettuare l'iniezione mortale nel braccio:Lei non ha capito nulla della vita. L'odio non serve a niente. Solo l'amore crea!”. Le ultime parole di San Massimiliano Kolbe, porgendo il braccio all’iniezione letale, furono: “Ave Maria”. Ma facciamo un passo indietro, cercando di comprendere da dove era venuto quel frate: quale le sue origini? che tipo di bambino era? come arrivò ad essere religioso francescano? E per rispondere a queste domande, AciStampa ha intervistato un testimone d’eccezione: è padre Raffaele Di Muro, Preside della Facoltà Teologica San Bonaventura-Seraphicum di Roma e direttore della cattedra kolbiana della stessa istituzione universitaria. Padre Di Muro è inoltre autore di innumerevoli saggi su Kolbe.

Padre Raffaele, partiamo proprio dai primi anni di vita di Massimiliano, o meglio di Raimondo, questo il nome prima di prendere i voti. Quali sono i primi passi di Raimondo? Da dove nasce questa sua spiritualità così ricca?

Raimondo Kolbe nasce a Zduńska Wola, un piccolo paesino non lontano dalla capitale della Polonia, Varsavia. E’ l’8 gennaio del 1894. Fin da picccolo Raimondo respira nella sua famiglia - i genitori sono Julius Kolbe e Maria Dąbrowska, di lavoro facevano i tessitori - una religiosità piena, molto ricca. La casa dove abita il piccolo Raimondo è molto modesta, di legno, come vuole la migliore tradizione polacca. E’ una casa a due piani e ancora oggi è possibile visitarla: al primo piano c’è il laboratorio tessile con i telai e tutti gli strumenti di lavoro; il secondo, invece, ha un’unica stanza da letto. I genitori erano terziari francescani e si narra che tutti e due, in giovane età, avessero pensato di sposare la vita religiosa. Poi, invece, le due rispettive famiglie d’origine decisero diversamente facendoli convolare a nozzde. Un desiderio, il loro che, in fondo, potremmo dire sarà quasi un’eredità spirituale per i loro tre figli (tre, almeno sono quelli che sopravviveranno): Francesco, il primo; il secondo, Raimondo, e poi viene Giuseppe. Tutti e tre saranno frati. Francesco e Raimondo entreranno in convento insieme. Poi saranno seguiti da Giuseppe. Tutto ciò riesce a darci l’idea di quanto fosse santa questa famiglia.

Nei primi anni di Raimondo, troviamo un episodio biografico che potremmo definire “un seme” di quella che sarà poi la sua santità. A dieci anni, infatti, Kolbe ha la visione dell’Immacolata: può raccontarci come andò quest’episodio così determinante nella vita del santo polacco?

Il racconto è della madre, Maria Dąbrowska, che depositò come testimone al processo di canonizzazione. San Massimiliano Kolbe non ci lascia nulla di scritto in merito a ciò. Quando avvenne l’episodio, Kolbe aveva all’incirca dieci anni. All’epoca, la famiglia si era trasferita in un altro piccolo paese della Polonia, Pabianice. Qui, vi era una chiesetta dedicata a San Matteo. La casa dei Kolbe non era molto lontana dalla piccola chiesetta. In questa parrocchia è presente un bellissimo altare dedicato all’Immacolata: un quadro bellissimo è posto sopra l’altare. Bisogna premettere un fatto: il piccolo Raimondo, dei tre figli, era il più vulcanico, il più irrequieto. Era così vispo tanto che la madre, un giorno, quasi esasperata dal suo comportamento gli disse: “Che ne sarà di te, piccolo Raimondo?”. Davanti a questa domanda, il piccolo rimase un po’ male. Lo prese, ovviamente, come un aspro rimprovero e così andò a piangere proprio in quella chiesetta vicino casa. E fu proprio qui che avvenne la visione dell’Immacolata recante due corone: Lei, la Vergine, offriva la possibilità di scegliere fra due corone che aveva in mano. Una rossa, il martirio; l’altra bianca, la purezza, la castità. Kolbe accolse entrambe: ovviamente non sapeva cosa stava facendo, cosa avesse scelto. L’episodio lo racconterà alla madre che aveva compreso quale sarebbe stata la vita del figlio:custodì tutte queste cose nel suo cuore”, così come la Vergine con Cristo. Solamente nel momento del processo racconterà tutto.

Facciamo un salto di tempo e di luogo: 1917, Roma. Massimiliano è nella Città Eterna presso il collegio San Bonaventura, vicino ai Fori Imperiali. Ed è proprio in questo collegio che avverrà un fatto storico che determinerà la vita di Massimiliano Kolbe: la fondazione della Milizia dell’Immacolata.

Sì, a Roma nasce la Milizia. Nella città dei Santi Pietro e Paolo, Kolbe giunge nel 1912. E’ giovanissimo: ha soli 18 anni. Questo è un tempo particolare per la Chiesa: da poco c’è stata l’unità d’Italia; molti manifestano ancora apertamente contro la Chiesa. Kolbe vive tutto questo periodo con grande sofferenza. Ed è a questo punto che nasce in lui una domanda: cosa posso fare io, giovane frate, per la Chiesa? Nasce così il 16 otttobre 1917 la Milizia dell’Immacolata: cercare di diffondere la devozione a Maria con ogni mezzo per contrastare chi è contro la fede e la Chiesa. Un’idea geniale!

Roma e il giovane Kolbe. Ci sono, infatti, altri due luoghi romani importanti per il giovane San Massimiliano.
Il primo è la chiesa di Sant’Andrea della Valle. Qui, il 28 aprile 1918, la quarta domenica dopo Pasqua, le mani del cardinale vicario Basilio Pompilj si stendono sul capo di Fra Massimiliano: Kolbe diventa sacerdote. Ma anche un altro luogo, profondamente legato alla Vergine, è presente nella vita di Massimiliano: è la chiesa di Sant’Andrea delle Fratte. Qui, il giorno dopo l’ordinazione, celebra la sua prima messa. In una sua lettera aveva scritto, infatti: “La conversione di Ratisbonne in quella chiesa, grazie alla visione della Vergine Maria, e l’influenza che la medaglia miracolosa ha avuto su di lui mi hanno sempre affascinato. Tutti i membri della Milizia dell’Immacolata portano la medaglia miracolosa. La conversione di Ratisbonne attraverso questa medaglia e la visione della Vergine Maria sono collegate con questa chiesa. Questo è il luogo appropriato per la mia prima Messa”. Nel retro del ricordino di questa messa vi è scritto: “Chi sono io, Signore Dio, e che cos’è mai la mia casa, perché tu mi abbia fatto arrivare fino a questo punto?” (2Sam 7,18). “Mio Dio e mio tutto”. Ricordo della prima Messa celebrata da padre Massimiliano Maria Kolbe, francescano all’altare dove Maria l’Immacolata si è degnata di apparire a Ratisbonne. Concedimi di lodarti, o Vergine santa. Dammi forza contro i tuoi nemici. Roma, 29 aprile 1918”.

E a questi due luoghi, succede un terzo: la basilica di San Pietro.
Questo è il luogo scelto da San Massimiliano per la sua seconda messa. A Padre Giuseppe Maria Pal, cofondatore della Milizia, alla sua domanda “Dove celebrerai la tua seconda Messa, padre Massimiliano?”, Kolbe rispose senza indugio: “In basilica, sulla tomba del martire San Pietro e primo vicario del Signore. L’intenzione della mia seconda Messa sarà per la grazia dell’apostolato del martirio”. E il suo è stato, quel 14 agosto del 1941, un dono della propria vita per i fratelli attraverso proprio il martirio.

sabato, agosto 12, 2023

Linguaggi pontifici, i riti scomparsi: una memoria da tenere viva

@ - L’incoronazione. Lo stocco e il berrettone, Gli Agnus Dei. Sono tre dei riti scomparsi, che pure avevano una grande tradizione


Dall’ultima incoronazione di un Papa, avvenuta ormai sessanta anni fa, allo stocco e il berrettone, fino agli Agnus Dei di cera benedetti: sono tutti “riti scomparsi”, ovvero riti che erano parte della liturgia del Romano Pontefice e che ora non si fanno più. Ma sono importanti, ed è importante conoscerli, perché questi riti erano un altro modo in cui la Santa Sede si rappresentava, raccontava se stessa, diceva al mondo il senso del suo esistere.

È per questo che monsignor Stefano Sanchirico, officiale della Archivio Apostolico Vaticano, e già prelato d’anticamera e cerimoniere pontificio, ci accompagnerà alla scoperta di questi riti scomparsi, dando seguito e completamento alle conversazioni sui “Linguaggi pontifici” che svolgiamo per il terzo anno di fila.

Nella prima serie di questi colloqui, ci si era concentrati più sul cerimoniale vaticano, sul modo in cui la Santa Sede si raccontava quando riceveva capi di Stato e capi di governo, sul senso del vestire del Papa di bianco e di rosso, colori che venivano direttamente dall’impero e che venivano mutuati in un lavoro di imitatio imperii, ma anche – oserei dire – resignificatio imperii: dall’impero secolare a quello celeste, dal governo delle cose temporali alla preparazione per le cose del cielo, con un amore presente, fortissimo, sin dagli inizi della Chiesa, per i poveri e gli emarginati.

In fondo, c’è un senso teologico in tutto ciò che si fa, e il fatto che Gesù Cristo sia entrato nella storia, con corpo e sangue, e abbia donato la sua vita, ha reso visibile un dato di fatto: che siamo tutti fratelli perché veniamo da uno stesso Padre.

Da qui nasce il secondo ciclo di linguaggi pontifici, dedicato ai cerimoniali della povertà e della carità. Come dicevamo, i Papi hanno da sempre dedicato parte della loro missione proprio a prendersi cura degli emarginati e dei più poveri. Ma questa funzione primaria del Papa come “padre dei poveri” si ritrovava in antichi riti e paramenti, come il succintorio, in alcuni casi caduti in disuso. Non è caduto in disuso, però, lo spirito e il senso di quei cerimoniali, ed è per questo che vanno raccontati.

Quest’ultima serie è dedicata ai riti scomparsi. Riti che, improvvisamente, sono finiti nel dimenticatoio, non più utilizzati dai Papi. Se per il cerimoniale vaticano uno spartiacque decisivo è dato dalla cattività avignonese, perché quell’accidente della storia porta a ridefinire cerimoniali e tradizioni che il Papa generalmente compiva in tutta la città di Roma, per i riti scomparsi un punto di riferimento è il Concilio Vaticano II.

Dopo il Concilio, infatti, alcune cose caddero semplicemente in disuso, non furono più riproposte, con l’idea che fossero antiquate. Un po’, forse, ha contribuito anche una narrativa che si era creata già ai tempi del post-Concilio riguardante Paolo VI. Già l’anno successivo al pontificato, Paolo VI rinuncia al triregno. Ma dispone, alla fine, che questo si continui ad usare nelle celebrazioni di incoronazione successiva. Non avverrà più.

E questo anche perché si pensava che Paolo VI avesse abolito il passato, riformando la Casa Pontificia, lasciando da parte alcuni paramenti, rinunciando a volte ai simboli propri di un potere più secolare che spirituale. Ma Paolo VI non abolì nulla, perché mai un uomo che conosceva così bene Roma avrebbe pensato di dover mettere da parte un patrimonio straordinario di storia e simboli. Paolo VI riformò, nel senso di cambiare forma, a volte eliminando, ma nella maggior parte dei casi integrando, ri-sviluppando, dando nuovo significato e a volte nome, ma senza cancellare nulla della tradizione.

Forse i riti scompaiono semplicemente per un equivoco della storia, forse ci sono altri motivi. La verità, però, è che tutto merita di essere ricordato. E deve essere ricordato soprattutto quando si guarda alla storia della Chiesa. In effetti, l’ossessione della Chiesa per il passato, per i simboli come furono pensati all’inizio della sua storia, nasce da un dato di fatto: che la rivelazione di Gesù è sempre viva e sempre nuova. Sta qui l’universalità della Chiesa. Ed è per questo che, nonostante si vada avanti con gli anni, non ci si può discostare troppo da quell’evento originario che è l’incarnazione di Cristo.

Vale la pena, dunque, andare a conoscere questi riti scomparsi. Servirà anche per ricomprendere la nostra storia e i nostri simboli.

venerdì, agosto 11, 2023

L'intelligenza artificiale nel messaggio del Papa per la prossima Giornata della pace

@ - Il tema che Francesco svilupperà nella ricorrenza del primo gennaio 2024 è stato reso noto oggi dal Dicastero per il Servizio allo Sviluppo Umano integrale: necessario un dialogo aperto sul significato di queste nuove tecnologie, "dotate di potenzialità dirompenti e di effetti ambivalenti”, perché il loro utilizzo sia a tutela della casa comune e non dia adito a disuguaglianze

"Intelligenza artificiale e pace" il tema del messaggio del Papa 
 per la Giornata del primo gennaio 2024"

I progressi nel campo dell’ AI (Artificial Intelligence) hanno “un impatto sempre più profondo sull’attività umana, sulla vita personale e sociale, sulla politica e l’economia” e per questo il tema del messaggio di Papa Francesco per la prossima Giornata mondiale della pace del primo gennaio 2024, annunciato dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale avrà per titolo “Intelligenze artificiale e pace”.

Orientare le AI in modo responsabile
Papa Francesco”, si legge nel comunicato del Dicastero, “sollecita un dialogo aperto sul significato di queste nuove tecnologie, dotate di potenzialità dirompenti e di effetti ambivalenti”, richiamando, “la necessità di vigilare e di operare affinché non attecchisca una logica di violenza e di discriminazione nel produrre e nell’usare tali dispositivi, a spese dei più fragili e degli esclusi: ingiustizia e disuguaglianze alimentano conflitti e antagonismi”. L’urgenza, è quindi quella “di orientare la concezione e l’utilizzo delle intelligenze artificiali in modo responsabile, perché siano al servizio dell’umanità e della protezione della nostra casa comune”, con l’esigenza di estendere questa riflessione etica “all’ambito dell’educazione e del diritto”. “La tutela della dignità della persona e la cura per una fraternità effettivamente aperta all’intera famiglia umana”, infatti, “sono condizioni imprescindibili perché lo sviluppo tecnologico possa contribuire alla promozione della giustizia e della pace nel mondo”.

L'impegno della Santa Sede nell'"algoretica"
La Santa Sede è sempre stata attenta alle implicazioni etiche dell’uso dell’intelligenza artificiale, coinvolgendo nella sua riflessione quanti più attori possibili sia a livello scientifico e tecnologico sia collaborando con le altre religioni. Lo scorso 10 gennaio, la Pontificia Accademia per la Vita ha promosso l’allargamento del documento "Rome Call for AI Ethics", sottoscritto nel 2020 da aziende come Microsoft e Ibm a rappresentanti dell’ebraismo e dell’islam. L’obiettivo è quello di promuovere un “algoretica” perché, come ha ricordato il presidente dell’Accademia, monsignor Vincenzo Paglia, queste nuove tecnologie “possono portare a uno sviluppo enorme, ma anche a una tragedia altrettanto enorme, perché rischiano di sopprimere l’umano in una sorta di dittatura della tecnica che sconvolge l’umanità stessa”. Costante è anche l’impegno in questo senso della Santa Sede, anche nelle grandi organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, in cui sono stati spesso sottolineati i rischi e gli abusi dell’uso dell’intelligenza artificiale nel settore degli armamenti e nei conflitti.

venerdì, agosto 04, 2023

Il Papa a pranzo con i giovani a Lisbona, dialogo sulle sfide del mondo e l'invito alla gioia

@ - Dieci ragazzi e ragazze di diversa età e provenienti da differenti zone del mondo, seduti a tavola con Francesco nella Nunziatura apostolica. Il Pontefice ha risposto alle loro domande e sollecitazioni su temi come la pace, la difesa della vita, le sfide delle nuove generazioni. E ha esortato tutti a non perdere mai la gioia. Al Papa consegnati anche dei regali.

Vatican News
Sebastião, Clara Ysabel, Joana, Luis Carlos, Beatriz, Pedro, Audrey, Hannah, Karam, Maria Magdalena. 

Sono i dieci giovani - sei ragazze e quattro ragazzi - che hanno pranzato oggi, 4 agosto, nella Nunziatura Apostolica di Lisbona nell'ambito della Gmg. Si tratta di giovani di diversa età (dai 34 ai 24 anni) e di diversa nazionalità: tre dal Portogallo, una dal Perù, una dalle Filippine, una ragazza dalla Guinea Equatoriale; e ancora Usa, Palestina, Colombia, Brasile. Sono stati scelti per rinnovare una tradizione che ormai da anni si ripete in ogni Giornata Mondiale della Gioventù. Al pranzo, insieme ai giovani, era presente pure il cardinale Manuel José Macário do Nascimento Clemente, patriarca di Lisbona, e il vescovo ausiliare Amèrico Aguiar, presidente della Fondazione Gmg Lisbona 2023, cardinale nel prossimo Concistoro. Pasta, carne, gelato, nel menù del pranzo.

Dialogo a tavola
Con i ragazzi e le ragazze, il Papa ha intessuto un dialogo. Non ha posto domande, ma ha ascoltato le loro storie, rispondendo alle loro sollecitazioni, chiarendo dubbi e offrendo spunti di riflessione. E incoraggiandoli anche ad essere sempre "felici", come i santi che non sono mai tristi. Diversi sono stati i temi sui quali il Francesco e i giovani ospiti si sono confrontati: la pace, la difesa della vita con un riferimento anche alle questioni di aborto ed eutanasia, le sfide che attendono i giovani, le loro aspettative. Lo hanno raccontato, emozionatissimi, otto degli stessi giovani nella sala stampa allestita a Lisbona per la Gmg.

Domande al Papa
Abbiamo presentato i nostri regali – ha raccontato Audrey - e durante il pranzo abbiamo avuto modo di fargli alcune domande. Gli ho chiesto come essere un buon amico, soprattutto con i giovani, in un momento in cui ci sono tanti falsi suggerimenti su come essere felici. Sono stato davvero toccato dalla risposta. Ha detto che la gioia non si insegna, ma si mostra, ed è quello che mi porto a casa da questo incontro. Ha anche parlato della gioia del Vangelo e dell'importanza di agire in modo da ispirare gioia. Anche i miei compagni giovani hanno fatto domande, ma non sono mie da condividere”.

Speranze
Gli ho detto che per noi giovani la speranza è così importante – ha spiegato invece Luis Carlos, che ha lavorato alla grafica per questa Gmg -, che possiamo trovare la speranza per combattere tutte le cose negative della vita, specialmente quelle che toccano i giovani, come la droga. La speranza ti permette di combattere e quindi di essere felice. Da tutto il lavoro che ho svolto per prepararmi alla Gmg con la grafica, questa è stata una conclusione meravigliosa per tutto il mio lavoro dietro le quinte. Quando ho visto il Papa ho sentito la pace interiore. Pensavo che avrei pianto, ma mi ha solo calmato. Sono stato il primo a salutarlo. Alla fine del pranzo abbiamo anche bevuto caffè colombiani. Dio si manifesta in modi strani”.

Ognuno dei giovani ha consegnato un regalo a Francesco. Da Pedro Luis anche una lettera, in cui scrive: “Voglio consegnare la mia vita alla Chiesa”.