"Agli occhi altrui noi stiamo nel segreto dell'anima come dietro una parete costituita dal corpo; quando decidiamo di comunicare qualcosa di noi stessi usciamo da questo nascondiglio utilizzando la lingua come fosse una porta per mostrarci fuori come siamo dentro (cum manifestare nosmetipsos cupimus, quasi per linguae ianuam egredimur, ut quales sumus intrinsecus ostendamus). Non è la stessa cosa per un essere spirituale, non composto di anima e corpo come noi ...Dio, per esempio, parla agli angeli santi manifestando i suoi segreti invisibili direttamente ai loro cuori, così che essi, contemplando la Verità, vi leggono tutto ciò che debbono fare (loquitur Deus ad angelos sanctos eo ipso quo eorum cordibus occulta sua invisibilia ostendat, ut quicquid agere debeant, in ipsa contemplatione veritatis legant). Le gioie della contemplazione corrispondono perciò ai precetti dati a viva voce (velut quaedam praecepta vocis sint ipsa gaudia contemplationis)...Si può dunque dire che Dio parla agli angeli manifestandosi ad essi con una visione interiore, e gli angeli parlano al Signore contemplandolo con uno sguardo che li trascende, permettendo loro di elevarsi in un trasporto di ammirazione. Avviene qualcosa di simile nei santi, per cui si può dire che altro è il modo con cui parla Dio alle anime dei santi e altro è il modo con cui i santi parlano a Dio (aliter Deus ad sanctorum animas, aliter sanctorum animae loquuntur ad Deum)".
Commento morale a Giobbe, I, II, 8.9.10.11. Città Nuova Editrice, Roma 1992, pp.169-171.
C'è in queste spiegazioni di Gregorio la base stessa della tensione dei monaci medioevali a voler raggiungere la condizione angelica. Non si trattava di <disprezzo> del corpo, ma di desiderio cocente di ottenere, restando nel corpo, le stesse possibilità di comunicare con Dio che sono proprie degli angeli.
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