Parco Archeologico Religioso CELio

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".... energia rinnovabile UOMO"

giovedì, gennaio 09, 2020

Pensiero N° 6 - Pensieri Gregoriani




Pensieri “gregoriani”



A cura di
Guido Innocenzo Gargano
E
Alessia Brombin


INDICE SEZIONI

  • Su peccato, senso di colpa e redenzione
  • Il discernimento, l’equilibrio e la Parola di Dio
  • Il combattimento degli spiriti
  • Le strategie della vittoria contro il peccato
  • Il cammino delle virtù
  • Esortazioni morali
  • I passi della crescita spirituale
  • I segni del completamento dell’uomo


Su peccato, senso di colpa e redenzione

1 Sempre in quattro modi si consuma il peccato nell'azione. Prima agisce la colpa latente (prius latens culpa agitur); poi il reato si presenta senza confusione anche davanti agli occhi degli uomini (postmodum...ante oculos hominum aperitur); poi diventa abitudine (dehinc et in consuetudinem ducitur); infine si alimenta o con le seduzioni di una falsa speranza o con l'ostinazione di una misera disperazione (ad extremum...vel falsae spei...vel miserae desperationis enutritur).
Commento morale a Giobbe, I, IV, XXVII, 49. Città Nuova Editrice/1. Roma 1992, p.351.
2 In quattro modi si commette il peccato che si compie nel cuore con la suggestione e la compiacenza, con il consenso e l'audace difesa (In corde namque suggestione, delectatione, consensu et defentionis audacia perpetratur).

La suggestione avviene per mezzo dell'avversario, la compiacenza per mezzo della carne, il consenso per mezzo dello spirito e l'audace difesa per mezzo dell'orgoglio... Con questi quattro momenti l'antico nemico infranse la rettitudine del primo uomo. Infatti il serpente insinuò, Eva si compiacque, Adamo acconsentì; lui che, anche interrogato, non volle per alterigia confessare la colpa. Si sa che quanto avvenne nel progenitore del nostro genere, avviene ogni giorno in tutto il genere umano.

Commento morale a Giobbe, I, IV, 49. Città Nuova Editrice/1, Roma 1992, p. 351.

3 E' vizio del genere umano infatti cadere in peccato e nasconderlo negando di averlo commesso e, quando sia evidente, aumentare la colpa scusandola.
Abbiamo appreso questo vizio di aumentare la colpa dalla caduta del primo uomo...Egli infatti dopo aver colto il frutto proibito si nascose dalla faccia del Signore in mezzo agli alberi del Paradiso... Rimproverato dal Signore per aver colto il frutto proibito, rispose: La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell'albero e io ne ho mangiato (Gen 3,12). E la stessa donna, interrogata, rispose: Il serpente mi ha ingannata e io ne ho mangiato (Gen 3,13). Furono interrogati perché con la confessione cancellassero il peccato che con la disobbedienza avevano commesso...Ma entrambi preferirono ricorrere alla consolazione della scusa, anziché a quella della confessione (adhibere sibimet utrique defensionis solatia quam confessionis elegerunt).
Commento morale a Giobbe, IV, XXII, 30. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, pp. 243-245.
4 Non si permette che la colpa arrivi all'azione se si elimina nell’intimo la radice da cui nasce (Neque enim culpa ad opus prodire permittitur, si intus ubi nascitur exstinguatur).
Se invece non si resiste prontamente alla tentazione che nasce nel cuore, essa si rafforza a causa dell'indugio di cui si nutre e, una volta che si sia irrobustita con le opere, si riesce a vincerla con difficoltà, perché rende interiormente prigioniera l'anima che è padrona delle nostre membra (et existens foras in operibus, vinci vix praevalet, quia ipsum intus membrorum dominam mentem captivam tenet).
Commento morale a Giobbe, IV, XXI, 14. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 191.
5 Si tenga presente che il piacere si ammanta della necessità in modo tale che a stento anche l'uomo perfetto se ne rende conto. Mentre la necessità chiede che si paghi il debito, il piacere pretende di soddisfare un desiderio (dum solvi debitum necessitas petit, voluptas expleri desiderium suppetit); e tanto più sicuramente travolge, per esempio, la gola, in quanto si nasconde sotto il titolo onesto della necessità da soddisfare.
Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 62. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p. 213.
6 La colpa non è nel cibo ma nell'avidità. Ecco perché possiamo mangiare abitualmente senza colpa cibi più squisiti, e difficilmente gustiamo senza colpa cibi più pesanti (Neque enim cibus, sed appetitus in vitio est. Unde et lautiores cibos plerumque sine culpa sumimus, et abiectiores non sine reatu conscientiae degustamus). Esaù perse la primogenitura per un piatto di lenticchie; Elia invece, mangiando carne nel deserto, ottenne di avere un corpo vigoroso.
L’antico nemico, avendo compreso che la proibizione non riguardava il cibo, ma l'avidità, assoggettò a sé il primo uomo (Adamo) non con la carne, ma con un frutto, e tentò il secondo Adamo (cioè Gesù) non con la carne, ma col pane...
Quando avidamente prendiamo cibi nocivi, che altro facciamo se non gustare cose proibite? Dobbiamo quindi prendere ciò che la necessiità della natura richiede, ma non bramare ciò che il piacere di mangiare suggerisce (Ea itaque sumenda sunt quae naturae necessitas quaerit et non quae edendi libido suggerit).
Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 60.61. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p. 213.
7 Bisogna stare bene attenti che col pretesto della necessità non s'infiltri la cupidigia, e lo zelo nel difendere i diritti non si esasperi fino a scoppiare in una vergognosa e odiosa contesa. E quando per un interesse terreno la pace con il prossimo scompare dal cuore, risulta chiaro che si ama l'interesse più del prossimo (Dum pro terrena re pax a corde cum proximo scinditur, liquido apparet quia plus res quam priximus amatur).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXI, 23. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.263.
8 E' una proprietà dell'animo umano allontanarsi maggiormente dalla conoscenza di se stesso appena cade nella colpa. Il male che uno compie, coprendo gli occhi della ragione, diventa un impedimento all'anima (Hoc ipsum namque malum quod agit menti se obicem ante oculum rationis interserit). L'anima comincia con l'ottenebrarsi volontariamente e finisce col non sapere più che c'è un bene da cercare. Quanto più aderisce al male tanto meno si rende conto del bene che perde (Quanto enim magis malis adheret, tanto minus intellegit bona quae perdit).
Commento morale a Giobbe, IV, XX, 37. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 123.
9 Ogni peccato che non è immediatamente cancellato dal pentimento o è peccato e causa di peccato o è peccato e pena del peccato. Infatti il peccato che non viene lavato dalla penitenza, trascina col suo stesso peso ad un altro peccato (Omne quippe peccatum, quod tamen citius paenitendo non tergitur, aut peccatum est et causa peccati, aut peccatum et poena peccati. Peccatum namque quod paenitentia non diluit ipso suo pondere mox ad alid trahit)...
La colpa precedente diventa causa di quella successiva e, a sua volta, quella successiva diventa pena di quella precedente....
Così che chi compie il male sapendolo, cade giustamente in seguito in altri peccati anche senza saperlo (ut qui malum sciens perpetrat, deinceps iuste in aliis etiam nesciens cadat).
Commento morale a Giobbe, V, XXV, 22. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 423.
10 Ci sono alcuni che si gloriano di essere stati salvati mediante le proprie forze, e si vantano di essere stati redenti per i loro meriti antecedenti. Tale affermazione si rivela contraddittoria, poiché, dichiarandosi a un tempo innocenti e redenti, rendono vano in loro il concetto stesso di redenzione. Infatti chi è redento, senza dubbio viene liberato da qualche schiavitù.
Come può dunque essere redento chi prima non è stato schiavo di una colpa (Unde ergo quilibet iste redemptus est, si prius non fuit sub culpa captivus)? E' chiaro dunque che vaneggia chi ragiona così. Sì, la grazia divina non è venuta per avere trovato nell'uomo il merito, ma lo produce dopo che è venuta (Hominis quippe meritum superna gratia non ut veniat, invenit, sed postquam venerit, facit). Dio viene nell'anima indegna e rendendola degna di Sé, con la sua venuta.
Trova soltanto la colpa che avrebbe dovuto punire e produce il merito che premierà (Ad indignam mentem veniens Deus, dignam sibi exhibet veniendo. Facit in ea meritum quod remuneret, qui hoc solum invenerat quod puniret).
Commento morale a Giobbe, IV, XVIII, 63. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p.691.
11 L'empio non apre gli occhi se non dopo la caduta, poiché dopo la colpa, quando subisce la pena, comincia a rendersi conto che avrebbe potuto evitare il male che ha compiuto. (Iniquus post casum oculos aperit quoniam post culpam iam in poena sua conspicit, quia malum debuit evitare quod fecit).

Commento morale a Giobbe, III, XV, 58. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p.485.

12 Noi piangiamo le nostre colpe quando cominciamo a valutarle; ma le valutiamo tanto più rigorosamente quanto più siamo pronti a piangerle. (Tunc enim culpas plangimus cum pensare coeperimus. Sed tunc subtilius pensamus, cum sollicitius plangimus).
Commento morale a Giobbe, III, XVI, 36. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p. 533.

13 Se la colpa è ormai lavata dal pianto della penitenza e il male commesso viene pianto in modo tale da non doverlo più piangere, allora nasce nell'anima una grande fiducia e lo sguardo del nostro cuore si alza per contemplare le gioie della superna retribuzione. (Cum vero iam paenitentiae lamentis culpa diluitur, et sic perpetrata planguntur, ut plangenda minime perpetrentur, magna menti fiducia nascitur; et ad conspicienda supernae retributionis gaudia cordis nostri facies levatur).
Commento morale a Giobbe, III, XVI, 25. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p. 525.
14 L'antico nemico (antiquus hostis) è solito tentare il genere umano in due modi: o spezza con le tribolazioni il cuore di quanti rimangono saldi, o rammollisce il loro cuore con l'arte delle insinuazioni.

In ambedue i modi si diede molto da fare con il beato Giobbe...Provò invidia dell'uomo che, da lui reso nudo, era diventato più ricco secondo l'esplicita lode del Creatore (quem exterius nudum reddidit, hunc interius ditiorem fieri per exhibitam laudem conditoris invidit).

L'antico nemico (antiquus hostis), riflettendo con astuzia, si rende conto che l'atleta di Dio, nel momento stesso in cui viene oppresso, si solleva contro di lui; allora, sconfitto, per tentarlo ricorre ad armi più sottili. Ripete le insidie della sua arte antica: sapendo come è solito cadere Adamo, ricorre ad Eva (antiquae artis insidias repetit; et quia scit quomodo Adam decipi soleat, ad Evam recurrit)... Infatti vicino all'uomo e a lui congiunta c'è la donna (vicina est autem viro mulier atque subiuncta).

L'antico nemico (antiquus hostis) si impadronisce del cuore della donna e se ne serve come scala per salire fino al cuore dell'uomo. Si impadronisce della moglie come scala per arrivare al marito. Ma nulla ottenne con quest'arte.
L'antico nemico che sconfisse Adamo nel paradiso, fu sconfitto da Adamo (cioè Giobbe) sul letamaio; e mentre spingeva la donna, sua aiutante, a parole di perversa insinuazione, il nuovo Adamo (cioè Giobbe) la indirizzò alla scuola del santo insegnamento; così che colei che era stata spinta a perdere, fu educata a non perdersi (et quae excitata fuerat ut perderet erudita est ne periret). 

Commento morale a Giobbe, I, III, 12. Città Nuova editrice, Roma 1992, pp.251-253.

15 L'anima infelice, una volta resa schiava dei vizi capitali, diventando del tutto pazza col moltiplicarsi dell'iniquità, viene ormai devastata da ferocia bestiale. (Infelix anima, semel a principalibus vitiis capta, dum multiplicatis iniquitatibus in insaniam vertitur, ferali iam immanitate vastatur).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXI, 90. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.325.
16 La Sacra Scrittura riferisce le colpe di persone come Davide e Pietro, affinché la caduta dei più grandi sia cautela dei più piccoli. E per questo richiama la penitenza e il perdono dell'uno e dell'altro, affinché il recupero di quelli che si erano perduti diventi speranza di quelli che cadono. (Ad hoc quippe in scriptura sacra virorum talium, id est David et Petri, peccata sunt indita, ut cautela minorum sit ruina maiorum. Et ad hoc vero utrorumque illic et paenitentia insinuatur et venia, ut spes pereuntium sit recuperatio perditorum).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXIII, 23. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p.441.
17 Tutti i peccatori difendono un altro peccatore nel male in cui sono implicati anche loro (Peccatores quique in quo sibi male sunt conscii, in eo et alium peccantem  defendunt).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXIII, 10. Città Nuova editrice1/4, Roma 2001, p. 419.
18 Gli umili, abbassandosi, raggiungono il cielo, mentre i superbi, che disprezzando gli altri hanno l'aria di elevarsi in alto, volgono il loro desiderio alle cose infime, e quanto più si sforzano di sollevarsi in alto tanto più finiscono per precipitare in basso.
Gli uni, disprezzando se stessi, si uniscono agli spiriti celesti; gli altri, innalzandosi, si separano dai più alti.
Quelli che si innalzano si abbassano e quelli che si abbassano si innalzano.
(Miro et diverso more res agitur, ut humiles caelum petant, dum se infra deiciunt; superbi infima appetant, dum despiciendo ceteros, quasi in altioribus extolluntur. Isti se, dum despiciunt caelestibus iunguntur; illi, dum se erigunt, a superioribus dividuntur, atque ut ita dixerim, illi se elevantes deprimunt, isti deprimentes elevant).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXII, 13. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.363.
19 Chi, pur operando bene, trascura di considerare i meriti degli altri, spegne l'occhio del suo cuore con le tenebre dell'orgoglio. Chi invece valuta attentamente i meriti altrui, rischiara le sue opere con il grande raggio dell'umiltà, poiché, osservando che anche altri di fuori compiono le opere che compie lui, domina interiormente quel vento della superbia che tenta di farsi strada attraverso l'illusione di essere unico.
Commento morale a Giobbe, VI, XXXI, 107. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.341.
20 Se non abbiamo viscere di carità per il prossimo che ci priva di qualcosa, ci facciamo da noi stessi più male dello stesso rapitore, spogliandoci in modo più grave di quanto non abbia potuto fare lui, perché rinunciamo di nostra volontà al bene dell'amore, perdendo ciò che è dentro di noi, mentre lui ci faceva perdere solo beni esteriori. Ma l'ipocrita ignora questa forma di carità, perché amando di più i beni terreni che quelli celesti, dentro di sé s'infiamma di odio implacabile contro chi gli porta via i beni temporali (Sed hanc hypocrita formam caritatis ignorat, quia plus terrena quam caelestia diligens, contra eum qui temporalia diripit sese in intimis immani odio inflammat).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXI, 23. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p.263.
21 Noi piangiamo di autentica compassione per chi è afflitto quando consideriamo nostri i mali altrui e cerchiamo di purificare con le nostre lacrime le colpe di chi sbaglia. E quando facciamo così, di solito troviamo più vantaggio noi di quelli che intendiamo aiutare, poiché davanti a colui che legge nei cuori e ispira la grazia della carità, chi piange sinceramente le colpe altrui lava perfettamente le proprie (apud intimum arbitrem et gratiam caritatis aspirantem, commissa perfecte diluit propria, qui pure plangit aliena).
Commento morale a Giobbe, IV, XX, 71. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, pp. 159-161.


Il discernimento, l’equilibrio e la Parola di Dio

1 Le cose che sono state scritte sotto ispirazione dello Spirito Santo, che ordina mirabilmente tutto, riferiscono il passato e annunciano il futuro (Ea quae scripta sunt dispensatione Sancti Spiritus  cuncta mirabiliter ordinante, et transacta nobis referunt, et futura praedicant).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXV, 42. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.591.

2 La Parola di Dio è come la manna: essa procura subito in bocca, a chi la mangia, il sapore di tutto ciò che di buono desidera chi l'accoglie (Manna quippe est verbum Dei, et quicquid bene voluntas sucupientis appetit hoc profecto in ore comedentis sapit). La Parola di Dio è come la terra, che produce frutto tanto più abbondante quanto più generosa è la fatica di chi la coltiva (Terra est verbum Dei, quam quanto labor inquirentis exigit, tanto largius fructum reddit). Si deve perciò ricercare con cura il molteplice significato della Parola di Dio, poiché anche la terra che viene spesso rivoltata con l'aratro, si prepara ad un frutto più generoso (Debet ergo intellectus sacri eloquii multiplici inquisitione ventilari, quia et terra, quae saepius  arando vertitur, ad frugem uberius aptatur).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXI, 29. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.267.

3 Ci si mette il dito sulla bocca, quando ci si frena col discernimento per non cadere, parlando, nella colpa della stupidità. Giobbe dice: “Mettete il dito sulla vostra bocca” (Gb 21,5), cioè unite alle vostre parole la virtù del discernimento, affinché, se dite cose giuste contro l'ipocrita, sappiate anche capire a chi si debbono dire certe cose. (Digitus ergo ori superponitur cum per discretionem lingua refrenatur, ne per hoc quod loquitur in stultitiae culpam delabatur...id est, locutioni vestrae discretionis virtutem adiungite ut per haec quae recta contra hypocritam dicitis quibus sint dicenda videatis).

Commento morale a Giobbe, III, XV,43. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p. 469.

4 La mente umana è un mare nelle cui profondità Dio penetra, quando conoscendo se stessa rimane turbata dai suoi intimi pensieri e viene sconvolta dal pentimento. (Mare quippe est mens humana cuius profunda Deus ingreditur quando per cognitionem suam ad lamenta paenitentiae ab intimis cogitationibus perturbatur)".
Commento morale a Giobbe, VI, XXIX, 27. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.101.
5 Tra peccato e delitto c'è questa differenza, che ogni delitto è un peccato, ma non ogni peccato è un delitto (omne crimen peccatum est, non tamen omne peccatum crimen). In questa vita molti riescono a vivere senza delitti, ma nessuno senza peccato...Si deve anche osservare che alcuni peccati contaminano l'anima, ma i delitti la estinguono (nonnulla peccata animam polluunt, crimina extinguunt).
Il beato Giobbe definendo il delitto della lussuria, dice: E' un fuoco che divora fino alla distruzione (Gb 31, 12), appunto perché il reato di delitto non solo macchia l'anima contaminandola, ma la divora fino alla distruzione. E poiché, se non si lava la colpa della lussuria, qualsiasi altra opera buona viene sommersa da questo enorme delittto (Et quia quamlibet alia fuerint bona opera, si luxuriae scelus non abluitur, immensitate huius criminis obruuntur), proseguendo ha aggiunto: E che sradica tutti i germogli, cioè tutte le opere buone".
Commento morale a Giobbe, IV, XXI, 19, Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 195.
6 Lucerna del corpo è l'occhio (Lc 11,34) perché il valore dell'azione è illuminato dal raggio della retta intenzione (quia per bonae intentionis radium merita illustrantur actionis). 
Se il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce. Infatti se noi abbiamo un'intenzione retta con un pensiero semplice, compiamo un'opera buona, anche se appare meno buona. Ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso; perché quando si compie un'azione, anche retta, con intenzione perversa, anche se può apparire splendida agli occhi dellgli uomini, al giudizio del giudice è tenebrosa (quia cum perversa intentione quid vel rectum agitur, etsi splendore coram hominibus cernitur, apud examen tamen interni iudicis obscuratur).
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 30, Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.55.
7 Come può giustificarsi un uomo davanti a Dio e apparire puro un nato da donna? (Gb 25,4).  La giustizia umana, di fronte al Creatore, è ingiustizia (humana quippe iustitia auctori comparata, iniustitia est), perché anche quando l'uomo rimane nella sua condizione, non si può mai paragonare la creatura al Creatore. E ad aggravare maggiormente il suo limite si è aggiunta la colpa....E' vero che alcuni, soccorsi dallo Spirito, reagiscono alla debolezza della carne, brillano per virtù, risplendono anche per segni prodigiosi, ma non c'è nessuno che trascorra la vita senza colpa finché si trova nella corruttibilità della carne (nullus tamen est qui sine culpa vitam transeat, quousque carnem corruptionis portat).
Commento morale a Giobbe, IV, XVII, 21. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p.597.
8 In primo luogo bada a non compiere alcun male; in secondo luogo a non compiere il bene incautamente (Primo autem ne mala quaelibet, secundo vero loco considerat ne bona incaute faciat): dopo aver dominato il male, cerca anche di controllare il bene, perché se l'animo se ne impossessa lo trasforma in colpa d'orgoglio. Poiché infatti spesso per nostra incuria dal bene può nascere il male, si deve vigilare attentamente che la dottrina non generi arroganza, la giustizia crudeltà, la pietà debolezza, lo zelo ira, la mansuetudine torpore.
Commento morale a Giobbe, VI, XXXI, 86. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.321.
9 L'astinenza deve estinguere i vizi della carne, non la carne; si deve governare se stessi con tale equilibrio che la carne non cada nella colpa della superbia, e tuttavia sia in grado di fare ciò che è giusto. (Per abstinentiam quippe carnis vitia sunt extinguenda, non caro; et tanto quisque sibimet debet moderamine praeesse, ut et culpam caro non superbiat, et tamen effectum rectitudinis in operatione subsistat).
Commento morale a Giobbe, IV, XX, 78. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 169.
10 Tutti gli arroganti hanno questo di proprio, che se per caso hanno un'idea acuta, subito cadono nella colpa di vantarsene (Habent hoc proprium omnes arrogantes, ut cum fortasse acutum aliquid sentiunt, inde mox ad vitium elationis erumpant), disprezzano il pensiero di tutti confrontandolo con il proprio, e a loro giudizio si pongono al di sopra dei meriti altrui. A questi sventurati capita di ottenebrarsi quanto più vedono, perché mentre sono attenti alle loro idee, non riescono a vedere se stessi (quia dum subtilia attendunt, semetipsos intueri nesciunt) e quanto più acutamente comprendono qualcosa tanto più cadono miseramente per superbia. Riuscirebbero a penetrare bene le realtà profonde, se sapessero riconoscersi in ciò che dicono (Qui bene quidem subtilia conspicerent, si in eo quod proferunt se viderent).
Commento morale a Giobbe, V, XXIV, 50. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.391.
11 Che cosa può talvolta rovinare un'anima più della consapevolezza della propria virtù? Gonfia di questa presunzione, viene svuotata della verità che la riempiva; e mentre le insinua che merita il premio, ne allenta la tensione verso il meglio (Quid enim peius plerumque animam quam conscia virtus interficit? Quae illam dum consideratione sua inflat, a plenitudine veritatis evacuat; et dum se ad percipienda praemia sufficere suggerit, eam a meliorationis intentione distendit).
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII,01, Città Nuova Editrice/4, Roma 2001.
12 Il nostro Creatore permette che l'animo innalzato dalla prosperità sia improvvisamente colpito dalla tentazione, perché veda con maggiore verità la propria debolezza e dalla boria orgogliosa, che aveva assunto a motivo delle virtù, scivoli in basso divenendo migliore in se stesso...Infatti rinunziamo alla grandezza e alle prove di forza quando, sotto la spinta della colpa, siamo costretti a pensare cosa siamo (magnitudinem et robustos motus deponimus quando, pulsante vitio, cogimur pensare quid sumus).
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 82. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 531.
13 Ci sono alcuni che hanno un umile sentimento di sé, poiché, pur trovandosi in mezzo agli onori, ritengono di essere soltanto polvere e cenere, ma davanti agli uomini non vogliono apparire spregevoli e, contrariamente a ciò che pensano di se stessi, si ammantano esteriormente di un rigoroso decoro. E ci sono altri che desiderano apparire vili davanti agli uomini, non tengono conto di quel che sono, mostrandosi spregevoli, ma dentro di loro si gonfiano per il merito stesso dell'ostentata umiltà, e tanto sono superbi nel cuore quanto apparentemente calpestano la superbia.
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 78. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 615.
14 Un'unica e medesima Parola di Dio risuona sulla bocca di chi predica. E mentre alcuni ascoltano con gioia, altri, essendo maldisposti, trasformano per se stessi la luce della stella del mattino in tenebra della stella della sera... Così, per occulto giudizio di Dio, colui che per l'eletto è stella del mattino diventa, per l'uditore mal disposto, stella della sera (Per occultum ergo iudicium is qui electo est lucifer, reprobo auditori fit vesper).
E succede che la stessa santa esortazione faccia ritornare i buoni alla vita, mentre fa morire miseramente i malvagi nella loro colpa (quia exortatione sancta qua boni ad vitam redeunt pravi deterius in culpa moriuntur).
Commento morale a Giobbe, VI, XXIX, 76. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.151.
15 Poiché non sappiamo per merito di chi sia concessa o per colpa di chi sia sottratta la Parola, unico rimedio salutare è di non insuperbire se abbiamo ricevuto più degli altri, né disprezzare un altro perché ha ricevuto meno di noi, ma, con il piede dell'umiltà ben fermo, avanzare con gravità e costanza, perché in questa vita siamo tanto più veracemente dotti quanto più riconosciamo che non possiamo procurarci la dottrina da noi stessi (in hac vita tanto veracius docti sumus, quanto doctrinam nobis a nobismetipsis suppetere non posse cognoscimus).
Come può insuperbire della sua cultura chi ignora per quale occulto giudizio la Parola sia concessa a uno e sottratta ad un altro (Cur ergo quilibet de doctrina superbiat, qui occulto iudicio vel cui quando detur, vel quando cui subtrahatur ignorat)?
Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 83. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.235.
16 Quando una virtù viene usata per vanagloria, non è più virtù, perché è a servizio del vizio. Siccome l'origine della virtù è l'umiltà, germoglia davvero in noi quella virtù che rimane nella sua propria radice, cioè nell'umiltà. Se si stacca da questa inaridisce, perché rimane priva della linfa della carità che intimamente la alimenta.(Quia enim origo virtutis humilitas est, illa in nobis virtus veraciter pullulat, quae in radice propria, id est in humilitate, perdurat. A qua nimirum si abscinditur arescit, quia vivificantem se in intimis humorem caritatis perdit).
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 76. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.613.
17 Eliu, dotto e arrogante, alcune volte proferisce ciò che è profumato, altre volte ciò che punge; perciò bisogna prendere dal suo insegnamento ciò che profuma, stando tuttavia bene attenti a ciò che ferisce per la sua superbia (sumendum est de eius doctrina quod fragrat, ut tamen sollicite cavendum sit de elatione quod vulnerat)... Sappiamo che perfino un'asina ricevette dalla visione di un angelo parole ragionevoli (cum ex visione angeli accepisse verba rationabilia et asinam noverimus).
Spesso succede che un uomo qualunque riceva parole sante per mezzo dello spirito di profezia, senza che tuttavia giunga a meritare la gloria della santità; infatti con la parola succede che si elevi al di sopra di sé e con la vita precipiti al di sotto di sé (ut supra se loquendo et infra se vivendo torpescat).
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 1.2. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.537.
18 Quando correggiamo le colpe degli altri, è giusto che giudichiamo le nostre, affinché la mente mitighi prima la propria eccitazione e calmi prima dentro di sé con serena equità l'impeto del proprio zelo, per non cadere in peccato, volendo correggere il peccato. (Dignum quippe est ut cum aliena corrigimus, prius nostra metiamur, ut prius mens a sua accensione deferveat e prius intra semetipsam zeli sui impetum tranquilla aequitate componat, ne si ad animadvertenda vitia abrepto furore trahimur et, peccatum corrigendo, peccemus).
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 78. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 527.
19 E' evidente che le colpe dei capi e dei popoli si intrecciano in modo tale che spesso la vita delle popolazioni peggiora per colpa dei pastori, e spesso la vita dei pastori cambia a causa del merito delle popolazioni. (Certum vero est quod ita sibi invicem et rectorum merita connectantur et plebium, ut saepe ex culpa pastorum deterior fiat vita plebium, et saepe ex merito plebium mutetur vita pastorum).
Commento morale a Giobbe, V, XXV, Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.441.
20 Geremia, dopo aver deciso di non predicare più...subito aggiunge: Ho sentito dentro di me come un fuoco che mi bruciava le ossa, ho cercato di contenerlo ma non ci sono riuscito...Rendendosi conto che non lo ascoltavano, decise di tacere; ma vedendo che il male cresceva, non rimase in silenzio. Perché di fuori taceva per la ripugnanza che sentiva a parlare, ma dentro avvertiva il fuoco per l'ardore della carità (foris tacuit ex taedio locutionis, intus ignem pertulit de zelo caritatis). I giusti ardono in cuor loro quando vedono aumentare le azioni scorrette dei malvagi e si ritengono complici delle colpe di coloro ai quali permettono con il proprio silenzio di crescere nel male.
Commento morale a Giobbe, V, XXIII, 18. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 299.

Il combattimento degli spiriti

1 La prima suggestione del serpente è morbida e tenera, e facile da calpestare con il piede della virtù, ma se per negligenza la si lascia rafforzare e arditamente le si apre la porta del cuore, acquista tanta forza che abbatte e riduce in schiavitù la mente, crescendo fino a raggiungere una violenza irresistibile. (Prima quippe serpentis suggestio mollis ac tenera est, et facile virtutis pede conterenda, sed si haec invalescere neglegenter admittitur, eique ad cor aditus licenter praebetur, tanta se virtute exaggerat, ut captam mentem deprimens usque ad intolerabile robur excrescat).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXII, 33, Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p. 385.
2 La donna vide che l'albero era buono da mangiare, bello agli occhi e piacevole all'aspetto; prese del suo frutto e ne mangiò (Gen 3,6). Da qui si vede con quanta prudenza dobbiamo controllare lo sguardo ... Eva infatti desiderando le cose visibili perse le virtù invisibili. Attraverso l'occhio del corpo subì la preda del cuore, lei che con lo sguardo esteriore perse il frutto interiore. Perciò, per custodire la purezza del cuore è necessario osservare anche la disciplina dei sensi esterni (Unde nobis ad custodiendam cordis munditiam exteriorum quoque sensuum disciplina servanda est). Qualunque sia la virtù che un'anima possiede; qualunque sia la gravità di cui è dotata, i sensi carnali strepitano all'esterno in modo infantile, e se non sono frenati dal peso della gravità e come da un certo vigore giovanile, trascinano l'anima svigorita ad ogni sorta di licenza e superficialità.
Commento morale a Giobbe, IV, XXI, 4. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.177.
3 Quelli che seguono le cose visibili fuggono la loro interiorità, e tanto più esteriormente godono in quanto interiormente si dimenticano di se stessi. Ma il più delle volte alle loro gioie si mescolano tribolazioni e sono tormentati proprio da quelle cose di cui insuperbiscono. (Visibilia scilicet sequentes cor fugiunt; et tanto extrinsecus gaudent, quanto recordationem sui intrinsecus non habent. Miscentur tamen eorum gaudiis plerunque tribulationes, atque ex rebus ipsis ex quibus superbiunt, flagellantur).
Commento morale a Giobbe, IV,XX, 38. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.125.
4 (Il diavolo) porge a ciascuno il sapore della sua dolcezza (gustum suae dulcedinis porrigit): a questo per mezzo della superbia, a quello per mezzo dell'avarizia; a questo per mezzo dell'invidia, a quello per mezzo della falsità; ad un altro, infine, per mezzo della lussuria. I diversi vizi nei quali li trascina sono altrettante dolci bevande che egli propina...Quanti, dunque sono i vizi che insinua nel cuore degli  uomini carnali, altrettante sono le bevande della sua dolcezza che egli somministra. Questa sua dolcezza, tuttavia, non la percepiscono se non coloro che, dediti ai piaceri della vita presente, vengono trascinati verso un pianto senza fine (quam tamen eius dulcedinem non percipiunt nisi qui praesentibus vuptatibus dediti, ad perpetuum luctum trahuntur) ... Egli (il diavolo) pasce infatti delle sue delizie soltanto coloro che sospinge ogni giorno, di caduta in caduta, verso i gemiti.

Commento morale a Giobbe, III, XV, 71. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p.499.

5 Ci sono certi vizi che mostrano in sé un'apparenza di virtù, ma in realtà provengono da una malattia pericolosa (Sunt nonnulla vitia quae ostendunt rectitudinis speciem, sed  ex pravitatis prodeunt infirmitate). Infatti la malizia del nostro nemico si maschera così abilmente che spesso agli occhi dell'anima ingannata fa sembrare virtù le colpe (ut plerunque ante deceptae mentis oculos culpas virtutes fingat) sicché uno quasi si attende dei premi mentre meriterebbe eterni castighi.
Commento morale a Giobbe, VI, XXXII, 45. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p. 395.
6 Il beato Giobbe, che nelle virtù superava la comune degli uomini, vinceva gli amici con la sua parola, ma quando fu ammaestrato in modo più sublime dalla Parola di Dio, conoscendo se stesso, si ridusse al silenzio. (Beatus Iob humanum genus virtutibus transiens, amicos loquendo superavit, sed loquente Deo, sublimius eruditus, semetipsum cognoscendo retinuit).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXII, 1. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p.347.
7 Non tutti i vizi occupano il cuore allo stesso modo. Ma mentre quelli maggiori, che sono pochi, sorprendono l'anima intelligente, quelli minori, più numerosi, l'affollano in massa. La stessa regina dei vizi, la superbia, quando prende pieno possesso del cuore sconfitto, lo consegna subito ai sette vizi capitali come a certi suoi capi, perché la devastino. Cioè l'esercito segue questi capi, perché è chiaro che da essi sorge la moltitudine fastidiosa dei vizi. Questo risulterà più chiaro citando ed elencando per quanto è possibile, i capi e l'esercito distintamente. Radice di ogni male è la superbia...I suoi primi germogli, appunto i sette vizi capitali, provengono da questa velenosa radice, cioè: la vanagloria, l'invidia, l'ira, la tristezza, l'avarizia, la gola, la lussuria.
Commento morale a Giobbe, VI, XXXI, 87. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p. 323.
8 Di questi sette vizi (vanagloria, invidia, ira, tristezza, avarizia, gola, lussuria) cinque sono spirituali e due carnali. Ma tutti questi sono uniti tra loro da tale parentela che uno non viene fuori senza l'altro. Ecco, il primo frutto della superbia è la vanagloria, che quando corrompe la mente che ne è oppressa genera subito l'invidia; appunto perché, aspirando alla potenza di un nome vano, si strugge al pensiero che un altro possa raggiungerla. L'invidia a sua volta genera l'ira, perché nella misura in cui l'animo è colpito dall'interna ferita del livore, smarrisce pure la mansuetudine della tranquillità; e poiché è come toccare un membro dolente, la mano dell'azione opposta viene sentita come più pesante. Dall'ira poi sorge la tristezza, poiché la mente turbata quanto più disordinatamente si agita, tanto più cedendo rimane confusa; e quando abbia perduto la dolcezza della tranquillità, si pasce della tristezza che scaturisce dal turbamento. La tristezza a sua volta conduce all'avarizia, perché quando il cuore confuso perde dentro di sé il bene della letizia, cerca fuori di che consolarsi; e tanto più desidera raggiungere beni esteriori  quanto più interiormente non ha una gioia cui ricorrere. Rimangono i due vizi carnali, la golosità e la lussuria. Ma è chiaro a tutti che la lussuria nasce dalla gola, quando nella posizione stessa delle membra si vedono i genitali posti sotto il ventre. Così, quando si ristora questo in maniera disordinata, si eccita l'altra ad azioni vergognose.
Commento morale a Giobbe, VI, XXXI, 89.Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, pp.323-325.
9 Chi, pur sapendo grandi cose, smarrisce l'umiltà, diventa tanto più insipiente quanto meno conosce se stesso. (Quiquis vel magna sapiendo deserit, eo ipso vehementer decipit, quo semetipsum nescit).
Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 11. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.31.
10 Spesso i germi concepiti nell'anima non giungono a maturità, perché escono anticipando il tempo del parto. E poiché vengono fuori davanti agli occhi degli uomini quando non sono ancora perfettamente formati nel pensiero, muoiono come degli aborti. Ci sono virtù ancora tenere che spesso la lingua degli uomini uccide, quando le loda come se fossero già robuste (Bona quippe adhuc tenera, plerumque humana lingua, dum iam quasi fortia laudat, exstinguit).Scompaiono tanto più celermente quanto più precocemente ottengono una fama lusinghiera".
Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 41. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.195.
11 E' difficile che uno scopra in sé la superbia inveterata, appunto perché questo vizio tanto meno lo si vede quanto più se ne soffre (nimirum hoc vitium quanto magis patimur, tanto minus videmus). La superbia si produce nell'anima come negli occhi la tenebra: quanto più questa si estende, tanto più sensibilmente riduce la luce. L'orgoglio cresce a poco a poco nei sentimenti (paulisper elatio in praecordiis crescit), e quando si estende ampiamente, chiude talmente l'occhio della mente soggiogata, che l'animo schiavo può subire la febbre dell'orgoglio senza tuttavia riuscire a vedere il male di cui soffre (et cum se vastius extenderit, oppressae mentis oculum claudit ut captivus animus elationis typum et pati possit, et tamen id quod patitur videre non possit).
Commento morale a Giobbe, V, XXIV, 50. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.391.
12 Come può l'uomo comprendere la sua via? (Pr 20,24). E' vero che attraverso la testimonianza della coscienza uno può conoscere se fa il bene o il male; ma è detto che non comprende la sua via, perché pur essendo convinto di agire bene, ad un esame rigoroso non sa dove tende...Perché ti lamenti per il disegno della tua vita, tu che non conoscendo te stesso, sei nelle mani del Creatore? Tanto meno quindi devi insuperbirti di ciò che fai, in quanto, chiuso entro il seno dell'eternità, non conosci né la ragione per cui sei venuto qui, né quando né come da qui sarai condotto fuori (intra sinum aeternitatis clausus, nec quo huc ordine veneris, nec quando vel quomodo hinc educaris agnoscis).
Commento morale a Giobbe, VI, XXIX, 34.35. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.109.
13 Viene messo sul cuore il sigillo dello sposo, quando viene impresso il mistero della sua fede a custodia del nostro pensiero, affinché quel servo infedele, cioè il nostro avversario, quando osserva i cuori segnati dalla fede, non osi fare irruzione in essi con la tentazione. (Sponsus ergo in cor signaculum ponitur quando fidei eius mysterium in custodia nostrae cogitationi imprimitur, ut ille infidelis servus, nimirum noster adversarius, cum signata fide corda considerat, temptando ea irrumpere non praesumat).
Commento morale a Giobbe, VI, XXIX, 12. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.87.
14 Anche nel cuore dei buoni possono entrare pensieri illeciti, ma non possono rimanervi, perché essi, onde impedire che la casa della coscienza ne rimanga prigioniera, mettono in fuga il nemico appena tocca la soglia del cuore (Et in bonis enim cordibus cogitationes illicitae veniunt, sed tamen morari prohibentur, quia recti quique ne captivandum domum conscientiae praebeant, ab ipso cordis limine hostem fugant).
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 50. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.589.

15 Se chi intende correggere si lascia vincere dall'ira, anziché correggere opprime. (Si is qui corrigere nititur  ira superatur, opprimit antequam corrigat).
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 78. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 527.
16 Gli arroganti non avendo viscere di misericordia, non solo non patiscono i giusti sofferenti, ma li affliggono maggiormente col pretesto di un giusto rimprovero; e se hanno piccoli difetti li esagerano; se hanno autentici meriti li travisano interpretandoli male. (Arrogantes viri quia caritatis viscera non habent, non solum non compatiuntur etiam iustis dolentibus, sed eos insuper sub specie iustae increpationis affligunt; et vel si qua in eis sunt parva mala exaggerant, vel ea quae vere bona sunt male apud se interpretando commutant).
Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 6. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 455.
17 Non sapere è ignoranza, non voler sapere è superbia (Nescire enim ignorantia est; scire noluisse, superbia).
Commento morale a Giobbe, V, XXV, 29. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.433.
18 Il progresso dell'uomo è simile a quello d'un albero...Viene seminato nell'intelligenza, germoglia nell'azione, si sviluppa fino alla piena espansione. Ma chi si insuperbisce della sua intelligenza, guasta nel seme l'albero destinato a crescere (cum quemlibet sua intellegentia extollit, arbor, quae oriri poterat, in semine putruit) e se, dopo aver operato bene, si lascia corrompere dalla peste dell'orgoglio, secca appena nato (cum vero post operationem bonam elationis peste corrumpitur, quasi iam orta siccatur), chi poi non si lascia corrompere né dall'intelligenza né dal suo operato, ma, crescendo, distoglie l'animo dalla rettitudine, a causa della lode che riceve dagli altri, è come un albero esposto ai venti che l'uragano svelle fino alle radici (tempestas famae radicitus evulsit).
Commento morale a Giobbe, IV, XXII, 16. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.231.
19 L'orgoglio della mente è ostacolo alla verità, perché gonfiandola la obnubila. Se qualche volta sembra che raggiungano la scienza, si pascono per così dire della corteccia e non del midollo della dolcezza interiore (Qui et si quando scientiam videntur adipisci, quasi de quadam rerum cortice, et non de secretae dulcedinis medulla pascuntur). Spesso con tutti i loro lampi di genio rimangono alla superficie e ignorano il gusto del sapore interiore, cioè fuori sono acuti, dentro sono ciechi (Micantibusque ingeniis saepe exteriora tantummodo attingunt, sed interni gustum saporis ignorant, videlicet foris acuti, sed intus caeci sunt). Di Dio non conoscono il sapore della sua dolcezza interiore, ma ciò che risuona esteriormente.
Commento morale a Giobbe, V, XXIII, 31. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, pp.309-311.
20 E mangiavano l'erba e le cortecce degli alberi" (Gb 30,4). L'erba simboleggia le parole più semplici, le cortecce degli alberi le espressioni esteriori dei padri. Essi dunque (gli eretici) desiderano sapere non ciò che li rende veramente dotti, ma ciò che li fa apparire tali. Nei sacri volumi, infatti, non cercano il midollo, cioè la forza della carità verso Dio e verso il prossimo (in sacris voluminibus vim caritatis erga Deum ac proximum medullitus non exquirunt), ma si pascono dell'erba e della corteccia perché le cose che nutrono gli spiriti dei superbi sono basse ed esteriori . Sì, mangiano erba, quando nella Sacra Scrittura osservano i precetti di minor conto e trascurano i più importanti...Così coloro che nei sacri volumi si fermano alla superficie della lettera trascurando il senso spirituale, rosicchiano la corteccia dell'albero, non sospettando neppure che nelle parole di Dio ci sia qualcosa di più di ciò che esteriormente ascoltano (in sacris voluminibus solam litterae superficiem venerantur, nec quicquam de spiritali intellectu custodiunt, cum nihil in verbis Dei amplius nisi hoc quod exterius audierint suspicantur).
Commento morale a Giobbe, IV, XX, 20. Città Nuova editrice/3, Roma 1997, p. 109.
21 Se ci difendiamo con superbia è segno che non eravamo sinceri quando ci dichiaramo peccatori (Si superbe defendimus, liquet quia peccatores nos ex nobis ficte dicebamus) ... E' indice di superbia quando si è disposti a dichiarare una colpa ma non si accetta che ci venga messa davanti dagli altri  (Superbiae quippe vitium est ut quod de se fateri quisque quasi sua sponte dignatur, hoc sibi dici ab aliis dedignetur).
Commento morale a Giobbe, IV, XXII, 33. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.247.
22 Ci sono peccati che i giusti possono evitare e ci sono alcuni peccati che neppure i giusti riescono ad evitare. Chi infatti, finché rimane in questa carne corruttibile, non lascia andare il cuore a qualche pensiero riprovevole, anche se non precipita nella fossa del consenso? Eppure anche il solo pensiero cattivo è peccato. Ma se l'animo resiste al pensiero, non dovrà rimanere confuso (Sed dum cogitationi resistitur, a confusione sua animus liberatur). L'anima dei giusti dunque, anche se libera dall'azione cattiva, tuttavia qualche volta cade nel pensiero cattivo. E scivola nel peccato anche se cede soltanto col pensiero; in compenso però non ha poi motivo di rimproverarsi piangendo, perché si riprende prima di arrivare al consenso (in peccato labitur quia saltim in cogitatione declinatur; et tamen unde semetipsam postmodum flendo reprehendat, non habet, quia ante se reparat quam per consensum cadat). Con ragione quindi, chi si è confessato peccatore dichiara che il suo cuore non gli rimprovera nulla.

Commento morale a Giobbe, IV, XVIII, 11. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p.637.

23 Chi riveste le piume della virtù si sottomette allo Spirito Santo confessando i propri pensieri. Chi non svela le cose vecchie, confessandole, non può produrre opere di vita nuova (Qui enim vetera fatendo non detegit, novae vitae opera minime producit). Chi non sa piangere ciò che lo appesantisce non riesce ad esprimere ciò che lo solleva (Qui nescit lugere quod gravat, non valet proferre quod sublevat). La forza stessa della compunzione dilata i pori del cuore e rafforza le piume della virtù (Ipsa namque compunctionis vis poros cordis aperit, et plumas virtutum fundit) e quando lo spirito premurosamente si rimprovera la pigra vecchiezza, ringiovanisce con vivace novità.
Commento morale a Giobbe, VI, XXXI, 93. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.327.
24 La luce visibile amata fuori misura rende cieco il cuore a quella invisibile, perché quanto più il cuore si espone senza precauzione fuori di sé, tanto più si ottunde, per riflesso, l'occhio che è dentro di sé. (Lux quippe visibilis, si incaute diligitur, a luce invisibili cor caecatur, quia quanto extra se inhanis funditur, tanto amplius in internis obtutibus reverberatur).
Commento morale a Giobbe, IV, XXII, 6. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.219.

Le strategie della vittoria contro il peccato

1 Se non ci liberiamo dall'assillo delle cose esteriori non raggiungeremo mai il culmine della contemplazione. Infatti non riusciremo mai a veder bene noi stessi, per capire che altro è la parte razionale che guida e altro è la parte animale che va guidato, se non faremo tacere ogni perturbazione esteriore, ricorrendo al segreto del silenzio di queste cose (Nequaquam nosmetipsos intuemur, ut sciamus aliud in nobis esse rationale quod regit, aliud animale quod regitur, nisi ad secretum huius silentii recurrentes, ab omni exterius perturbatione sopiamur).
Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 54. Città Nuova Editrice1/4,p. 207.
2 Prega in modo vero chi da un cuore compunto emette gemiti amari e non chi compone parole ridondanti. (Veraciter namque orare est amaros in compunctione gemitus et non composita verba resonare).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXIII, 43, Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p.467.
3 Nessuno che lascia le cose infime diventa eccellente tutto d'un colpo, perché chi vuol raggiungere la vetta della perfezione, vi arriva solo se ogni giorno tende in alto, come salendo per determinati gradini. (Nemo autem infima deserens repente fit summus, quia ad optinendum perfectionis meritum, dum cotidie mens in altum ducitur, ad hoc quod procul dubio velut ascensionis quibusdam gradibus pervenit).
Commento morale a Giobbe, IV, XXII, 45. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.261.
4 L'inizio della conversione è un misto di opere buone e cattive, perché l'intenzione è di fare cose nuove, ma l'abitudine conserva ancora la vita vecchia (Conversionum quippe initia, bonis moribus malisque permixta sunt, dum et nova iam per intentionem agitur, et vetus adhuc ex usu retinetur). Ma frattanto il male mescolato al bene non ci nuoce più di tanto, se non cessiamo di combattere ogni giorno contro di esso. Né il peccato può più vantare diritti su di noi, se il nostro animo reagisce con impegno alla perversa abitudine. E così a noi che cominciamo non recano gran danno le opere terrene, se facciamo in modo che non rimangano a lungo in noi. All'inizio della nostra conversione il Signore sopporta con bontà certe nostre debolezze, per condurci poi a compiere con perfezione opere celesti (In ipso nostrae conversionis initio infirma quaedam pie de nobis Dominus tolerat, ut nos quandoque ad caelestia ex perfectione conducat).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXI,75. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p. 311.
5 C'è chi desidera e vuole e può giungere al culmine della perfezione, ma un altro né lo vuole, né lo può; un terzo vuole e non può; un quarto può e non vuole. Chi potrà mai discutere il segreto di questi giudizi celesti? Chi potrà comprendere la bilancia differente di questa misteriosa equità? Nessuno può raggiungere i meandri di questi occulti giudizi di Dio. Si dica perciò all'uomo che riconosca di non sapere e, riconoscendo di non sapere, tema; e temendo si umilii, e umiliandosi non presuma di sé; e non presumendo cerchi l'aiuto del suo Creatore.

Commento morale a Giobbe, VI, XXIX, 77. Città Nuova Editrice 1/4. Roma 2001, p.153.

6 Sono corporei il cielo, la terra, le acque, gli animali e tutte le cose visibili che abbiamo sempre davanti agli occhi. Quando la mente si proietta tutta in queste cose, deliziandosene, perde la finezza dell'intelligenza interiore (in quibus dum totam se delectata mens proicit, ab internae intellegentiae subtilitate grossescit) e, non essendo più capace di levarsi alle realtà superiori, si accontenta delle cose di quaggiù (in his infirma libenter iacet). Quando poi con ammirevoli sforzi cerca di risollevarsi (cum vero nimis conatibus ab his exsurgere nititur), è già tanto se staccandosi dalle apparenze corporee arriva a conoscere se stessa, a pensare se stessa senza l'immagine corporea e, pensando se stessa, aprirsi la via a meditare la realtà dell'eternità. In questo modo fa di se stessa come una scala, per la quale ascendendo dalle cose esteriori passa in sé, e da sé tende verso il suo Creatore (Hoc autem modo quasi quandam scalam sibi exhibet semetipsam per quam ab exterioribus ascendendo in se transeat, et a se in auctorem tendat).
Commento morale a Giobbe, I, V, 61-2.Città Nuova Editrice/1, Roma 1992, p.445.
7 Se infatti eliminiamo il piacere della carne, troviamo subito il diletto dello spirito. (Si enim a carne hoc quod libet abscidimus, mox in a spiritu quod delectet, inuenimus). Se alla tensione dell’anima si preclude l’evasione esteriore, si apre il segreto interiore. Quanto più la disciplina impedisce all’anima di disperdersi fuori di sé, tanto più progredisce nella sua elevazione sopra di sé. Così è l’albero che, impedito di espandersi nei rami, è costretto a crescere verso l’alto; e se si ostruiscono i rivi della fonte, si costringono i torrenti a salire più in alto.
Commento morale a Giobbe, XXX, 40.Città Nuova Editrice/5, Roma 1992, p.195.
8 Spesso, mentre si accondiscende alla necessità, si segue il desiderio, ma qualche volta, mentre ci sforziamo in modo esagerato di vincere i desideri, aumentiamo le miserie della necessità. E' infatti necessario che uno occupi la fortezza della continenza in modo tale da estinguere non la carne, ma i vizi della carne. Succede infatti spesso che, mortificando la carne più del giusto, le si tolga il vigore di compiere azioni virtuose (Nam plerumque dum plus iusto caro restringitur, etiam ab exercitatione boni operis enervatur), e così può succedere che chi ha fretta di soffocare in sé fino alle radici gli stimoli dei vizi, non sia neppure in grado di pregare e di predicare (ut ad orationem quoque vel praedicationem non sufficiat, dum incentiva vitiorum in se funditus suffocare festinat).
Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 63. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p.215.
9 Se è vero che  una continenza esagerata riduce le forze dei vizi è anche vero che, con la debolezza, la virtù stessa può venir meno (Cum vero immensa continentia vitiorum vires extenuat, etiam virtus deficiens anhelat). Pertanto è necessario che il nostro uomo interiore adempia la funzione di arbitro imparziale tra sé e l'uomo esteriore, cosicché il suo uomo esteriore sia sempre in grado di rendergli un doveroso servizio e di sua testa non si metta superbamente contro di lui ... Sopportando che i vizi repressi recalcitrino, impediamo che essi vengano a patto con noi: i vizi non prevalgano né la virtù a sua volta soccomba insieme con la totale estinzione dei vizi (nec vitia contra virtutem praevaleant, nec rursum virtus cum vitiorum omnimoda exstintione succumbat). In questo caso si estingue totalmente soltanto l'orgoglio; il quale serve sì alla vittoria, tuttavia ci lascia la lotta continua per domare la superbia dei pensieri. Ogni uomo continente, da una parte si adatta alla doverosa necessità e dall'altra non subisce la violenza del piacere (unusquisque vir continens, et debitae necessitati congruit, et violentae voluptati contradicit).
Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 63. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p. 215.
10 Si distende l'arco appunto per poterlo utilmente tendere al momento opportuno. Se non c'è una pausa di distensione, a causa della stessa tensione l'arco perde la forza di colpire. Così la virtù si mantiene in esercizio se qualche volta per discrezione si sospende, e tanto più validamente colpisce poi i vizi, quanto più, per un certo tempo, smette di colpire per discrezione. (Ex studio namque arcus distenditur, ut in suo tempore cum utilitate tendatur. Qui si otium relaxationis non accipit, feriendi virtutem ipso usu tensionis perdit. Sic aliquando in exercitatione virtus, cum per discretionem praetermittitur, reservatur ut tanto, post, vitia valenter feriat, quanto a percussione interim prudenter cessat).

Commento morale a Giobbe, VI, XXVIII, 29. Città Nuova Editrice/4, Roma 2001, p.53.

11 Si deve tener presente che per obbedienza non si deve mai fare il male ma anche che, qualche volta, per obbedienza si deve interrompere il bene che si fa (Sciendum est quia numquam per oboedientiam malum fieri, aliquando autem debet per oboedientiam bonum quod agitur, intermitti) ... Infatti il Signore concesse di mangiare di tutti gli alberi del paradiso, vientandone uno solo, per educare la creatura che non intendeva sopprimerla ma piuttosto promuoverla, tanto è vero che le concedeva  tutti gli altri con estrema facilità e con larghezza.
Commento morale a Giobbe, VI, XXXV, 28. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.579.
12 Tutto quello che soffri lo devi sopportare con tanta maggiore pazienza in quanto, ignaro dei segreti celesti, non sai perché soffri tutto questo (Cuncta quae pateris, tanto tolerare patientius debes, quanto secretorum caelestium ignarus, cur haec pateris nescis).
Commento morale a Giobbe, VI, XXIX, 77. Città Nuova Editrice 1/4. Roma 2001, p.153.

13 Quando parliamo a Dio, che conosce il cuore anche di chi tace, non manifestiamo con la voce della bocca ciò che sentiamo, ma aneliamo a lui con desiderio intenso. E poiché chi interroga lo fa per imparare ciò che non sa, l'uomo interroga Dio ogni volta che davanti a lui riconosce di non sapere. Dio risponde quando con occulte ispirazioni istruisce chi umilmente riconosce di non sapere (homini Deum interrogare, est in conspectu eius nescientem se cognoscere. Respondere  autem Dei, est eum qui se humiliter nescientem cognoverit, occultis inspirationibus erudire).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXV, 4. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.555.
14 Il beato Giobbe, che nelle virtù superava la comune degli uomini, vinceva gli amici con la sua parola, ma quando fu ammaestrato in modo più sublime dalla parola di Dio, conoscendo se stesso, si ridusse al silenzio. (Beatus Iob humanum genus virtutibus transiens, amicos loquendo superavit, sed loquente Deo, sublimius eruditus, semetipsum cognoscendo reticuit).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXII, 1. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p.347.
15 Il cavallo e il cavaliere. Cavallo è il rispettivo corpo di ogni anima santa, che sa trattenere mediante il freno della continenza le azioni illecite e dare libero corso con l'impulso della carità all'esercizio dell'opera buona. Per cavaliere si intende dunque l'anima del santo, che regge il giumento di un corpo disciplinato. Così anche l'apostolo Giovanni, dopo aver contemplato il Signore, dice nell'Apocalisse: Gli eserciti del cielo lo seguivano su cavalli bianchi (Ap 19, 14). Con ragione chiama esercito la moltitudine dei santi che si era impegnata in questo combattimento del martirio (in hoc martyrii bello sudaverat), e perciò riferisce che sedevano su cavalli bianchi, appunto perché i loro corpi risplendevano della luce della giustizia e del candore della castità (luce iustitiae et castimoniae candore claruerunt).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXI, 27. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p.265.
16 Si riferisce che Isacco scavò dei pozzi presso gente straniera. E' un esempio che c'insegna a penetrare in profondità i nostri pensieri; finché ci troviamo in questo triste esilio; e fintanto che non scopriamo l'acqua della vera intelligenza, la mano della nostra ricerca non smetta di scavare la terra del cuore (cogitationum nostrarum profunda penetremus; et quousque nobis verae intellegentiae aqua respondeat, nequaquam nostrae inquisitionis manus abexhaurienda, cordis terra torpescat). Ma gli stranieri insidiosi riempiono questi pozzi, appunto perché gli spiriti immondi, quando ci vedono impegnati a scavare pozzi, ci sommergono con i pensieri delle tentazioni. Perciò occorre svuotare sempre la mente e continuamente scavare, perché se si smette di sorvegliarla, la terra dei pensieri si accumula sopra di noi fino alla proliferazione di azioni deplorevoli (Semper mens evacuanda est, incessanterque fodienda, ne si indiscussa relinquitur, usque ad tumorem perversorum operum cogitationum super nos terra cumuletur).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXI, 53. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, pp.291-293.
17 Chi intende condurre un'autentica vita cristiana, per prima cosa deve curare il deserto dello spirito (primumn solitudo mentis tribuitur) per dominare dentro di sé ogni strepito di desiderio terreno, per spegnere con la grazia dell'amore di Dio ogni preoccupazione del cuore che ribolle verso le cose infime (ut ebullientes ad infima curas cordis per superni gratiam restinguant amoris), e scacciare dagli occhi della mente, con la mano della riflessione, tutti i moti dei pensieri futili che si presentano fastidiosi come mosche che ci svolazzano attorno; e deve cercare dentro di sé un luogo segreto con il Signore dove, al riparo dallo strepito esteriore, poter parlare silenziosamente con lui per mezzo dei desideri interiori (et quoddam sibi cum Domino intra se secretum quaerant, ubi cum illo exteriore cessante spiritu per interna desideria silenter loquantur).
Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 52. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p.205.

18 A che serve il deserto del corpo se manca il deserto del cuore (Quid prodest solitudo corporis, si solitudo defuerit cordis)? Chi vive appartato con il corpo, ma con il pensiero dei desideri terreni prende parte ai tumulti delle vicende umane, non vive nel deserto (non est in solitudine). Se invece è immerso col corpo nella folla, ma senza subire nel cuore alcun tumulto di preoccupazioni secolari non vive in città (non est in urbe).

Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 52. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p. 205.

19 Rimane libero chi, calpestando i desideri terreni, si libera con serenità dal desiderio delle cose temporali.
(Liber dimittitur, qui calcatis terrenis desideriis, ab appetitione rerum temporalium securitate mentis exoneratur).

Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 50. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p. 205.

20 Sono certamente cose elevatissime quelle che veniamo a conoscere ascoltando la parola del Signore, ma Lui non lo vediamo ancora nonostante che ci istruisca con le sue segrete ispirazioni. Egli fa giungere ai nostri cuori la sua parola ma ci tiene nascosto il suo volto (sed tamen adhuc eum in secreta inspiratione qua instruimur non videmus). Perciò è come se facesse sentire la sua voce nella nube. Sentiamo già le parole di Dio che ci parla di sé nell'intimo del cuore, sappiamo già con quanta assiduità e con quanto impegno dobbiamo aderire al suo amore, e tuttavia, per la mutabilità stessa della condizione mortale, dal cumine dell'intima contemplazione ricadiamo nelle nostre abituali occupazioni (et tamen ab internae considerationis culmine ad consueta nostra ex ipsa mortalitatis huius mutabilitate relabimur).

Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 4. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.157.

Il cammino delle virtù

1 E' già grande superbia desiderare alcunché oltre i limiti del bisogno. (Valde iam superbire est, extra metas inopiae aliquid desiderare).
Commento morale a Giobbe, IV, XXI, 25. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.201.
2 Quando concepiamo nel cuore (corde concipimus) i precetti divini, non partoriamo (parturimus) subito in modo già completo ciò che abbiamo pensato...Dapprima infatti i semi del timore di Dio, accolti nell'utero del cuore con l'impegno della meditazione (superni timoris semina utero cordis excepta), si coagulano per rimanervi; poi, fissati con seria intenzione nel pensiero, se tendono al discernimento della ragione (ad discretionis rationem tendunt), si formano come in membra distinte; in seguito, confermati da un impegno costante, arrivano come alla solidità delle ossa; finalmente, rafforzati da matura decisione, giungono come al parto (perfecta auctoritate roborata, quasi in partum procedunt). Questa maturazione dei semi divini nessuno può osservarla nell'animo di un altro, se non colui che la crea. Sebbene da certi indizi possiamo conoscere se uno ha già concepito un forte desiderio di Dio, tuttavia non sappiamo quando arriverà al parto (quando tamen in partu erumpat, ignoramus).

Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 39. Città Nuova Editrice1/4, p.195.

3 Porre fiducia nelle cose  incerte è come porre un fondamento sull'acqua corrente. Tutto passa, Dio solo rimane per sempre ... Chi dunque non vuole scorrere via come l'acqua, deve fuggire tutto ciò che passa per non finire da ciò che ama a ciò che vorrebbe evitare (Quisquis ergo defluere devitat, superest ut quod defluit fugiat, ne per hoc quod amat in hoc cogatur pervenire quod evitat).
Commento morale a Giobbe, IV, XXII, 4. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.215.

4 Se contamino la mia mente col pensiero non posso in alcun modo essere parte di chi è l'autore della purezza. Nulli sono gli altri beni agli occhi del giudice segreto, se non ho il sigillo che attesta la castità (Nulla enim bona sunt cetera, si occulti iudicis oculis castitatis testimonio non approbantur). Tutte le virtù si elevano al cospetto del Creatore sostenendosi a vicenda, dimodoché non esiste una virtù, sia pur minima, senza l'altra, se non si sorreggono congiunte insieme (una virtus sine alia vel nulla est omnino, vel minima). Se infatti l'umiltà trascura la castità e la castità trascura l'umiltà, che vale una castità superba o un'umiltà contaminata davanti all'autore dell'umiltà e della purezza ? Perciò il santo, per meritare di appartenere al suo Creatore negli altri beni, custodendo la purezza del cuore dice:Ho stretto un patto con i miei occhi (Gb 31, 2).
Commento morale a Giobbe,IV, XXI, 6. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.179.
5 Una virtù è tanto più debole quanto più mancano le altre. (Unaquaeque enim virtus tanto minor est, quanto desunt ceterae).
Commento morale a Giobbe, IV, XXII, 2. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.213.
6 Chi perde l'occhio dell'amore non sa dove mettere il piede per ben operare. (Nec videt iam quo tendat pedem boni operis, qui oculum perdidit dilectionis).
Commento morale a Giobbe, IV, XXI, 34. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 209.
7 La Sapienza [...] lungo la via, nei crocicchi delle strade, essa si è posta (Pr 8, 1-2). Se la Sapienza in persona non si fosse posta negli angoli delle strade, avremmo forse potuto percorrere la strada della vita nel tempo ignorandola. Se avesse deciso di rimanere nascosta, si sarebbe dovuta rivelare. Ma dopo che essa ha manifestato pubblicamente i misteri della sua incarnazione (incarnationis suae mysteria publice ostendit), dopo che ha offerto esempi di umiltà ai superbi, si è come piantata in mezzo alla strada dove noi passiamo,sicché anche se non vogliamo cercarla, ci imbattiamo in essa (semetipsam nobis quasi transeuntibus in mediis  semitis fixit, ut videlicet in eam quam quaerere nolumus, impingamus), anche se passando evitiamo di guardarla, andiamo a sbatterci contro...Via della Sapienza incarnata è ogni azione che essa ha compiuto nel tempo (Via quippe est incarnatae Sapientiae omnis actio quam temporaliter gessit).
Commento morale a Giobbe, V, XXV, 29.30. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 433.
8 Chi non cerca di conservare la pazienza, si taglia subito fuori dalla vita sociale con la sua impazienza (Qui patientiam servare contemnit socialem vitam citius per impatientiam deserit).
Commento morale a Giobbe, IV, XXI, 33. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.209.
9 Nulla valgono agli occhi di Dio onnipotente le opere della giustizia e della pietà che risultano impure per il contagio della corruzione. Che giova partecipare piamente alle necessità del prossimo, se uno empiamente distrugge se stesso come abitazione di Dio (Quid enim prodest si pie quisquam necessitati compatitur proximi, quando impie semetispum destruit habitationem Dei)? Se non si estingue la fiamma della libidine con la purezza del cuore, invano sorgono le altre virtù...la fiamma della corruzione brucia tutto ciò che il germe della rettitudine produce (Nam quidquid prodit ex fruge rectitudinis, hoc nimirum concremat flamma corruptionis).
Commento morale a Giobbe, IV, XXI, 19. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.195.
10 Giobbe frenò col vigore giovanile della sapienza ogni pensiero licenzioso e infantile che la carne potesse concepire in lui, estinguendo in sé non solo l'atto ma anche il pensiero licenzioso ... Sapeva infatti che la lussuria la si deve frenare nel cuore (Sciebat nimirum luxuriam esse in corde refrenandam).
Commento morale a Giobbe, IV, XXI, 5. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.177.

11 Esistono due categorie di uomini schiavi dell'ambizione: quelli che spinti dall'avarizia ricorrono sempre alle lusinghe della lingua; e quelli che tendono alla rapina con aperta violenza. (Duo quippe sunt genera hominum ambitioni suae servientium: unum videlicet quod semper ad avaritiam blandimentis utitur linguae; aliud vero quod aperta vi intendit rapinae).
Commento morale a Giobbe, IV, XX, 27, Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.115.
12 In mezzo a nemici spirituali  o a contatto con chi vive secondo la carne, familiarizzando con il loro stile vita, invecchia il fervore dello spirito e si offusca la bellezza di una vita nuova. Ma se ci si sforza ogni giorno di essere vigili e attenti, pregando, leggendo, e vivendo bene, è possibile rinnovarci in continuità. (Cotidie si studia circumspectionis invigilent orando, legendo et bene vivendo, renovamur), perché se la nostra vita, purificata dalle lacrime, si esercita nelle opere buone e si eleva meditando la parola di Dio, si rinnova in continuazione (quia vita nostra dum lacrimis lavatur, bonis operibus exercetur, sanctis meditationibus tenditur, ad novitatem suam sine cessatione reparatur).
Commento morale a Giobbe, IV, XIX, 53, Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 81.
13 Tutto ciò che si fa  va perduto, se non si custodisce con cura l'umiltà (Perit omne quod agitur, si non sollicite in humilitate custoditur).
Commento morale a Giobbe, IV, XIX, 34. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.59.
14 E' più leggero della superficie dell'acqua (Gb 24,18). La superficie dell'acqua è sospinta qua e là dalla brezza ed essa è priva di ogni stabilità e si muove in ogni direzione. L'anima di chi agisce male è più leggera della superficie dell'acqua, perché ogni brezza di tentazione che la sfiora la trascina senza incontrare la minima resistenza. Se pensiamo al cuore fluttuante di ogni malvivente, che cosa notiamo se non una superficie d'acqua esposta al vento?. Ora è la brezza dell'ira, che lo sospinge, ora la brezza della superbia, ora la brezza della lussuria, ora la brezza dell'invidia, ora è la brezza della menzogna che lo trascina. Più leggero della superficie è colui che si lascia trascinare dal primo colpo di vento dell'errore (super faciem aquae levis est is quem quilibet erroris ventus cum venerit impellit).

Commento morale a Giobbe, III, XVI,79. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p. 571. 

15 Per il fatto stesso che uno occupa dignità mondane, è tanto più facilmente sollecitato dai vizi quanto maggiori sono le sue responsabiltà (tanto facilioribus vitiis premitur, quanto maioribus curis gravatur). Potesse l'animo umano vedere ed evitare i peccati almeno quando è tranquillo! Ma ormai è costretto a constatare che non è possibile attendere alle alte cariche desiderate senza peccare, né sottrarsi all'ira divina per tutto ciò che compie di illecito nel suo operare (Vidit desideratas rerum celsitudines absque peccatis ministrari non posse, et divinae irae non absconditur quicquid illicitum perpetratur).

Commento morale a Giobbe, IV, XVII, 32. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p.605.

16 Salgono in alto per un poco, poi non sono più (Gb 24,24). Quando la gloria di gente cattiva si prolunga per molti anni, per lo più viene considerata dalle menti deboli come lunga e quasi stabile. Ma se una fine improvvisa la interrompe, sicuramente la fa ritornare breve perché, rivelandosi limitato, ciò che ha potuto finire è stato di breve durata. Salgono dunque in alto per un poco, poi non sono più, poiché, per il fatto stesso che aspirano a sembrare alti, a cusa dell'orgoglio si allontanano dalla vera essenza di Dio e, a causa della gloria egoistica ricadono su se stessi...Così le bollicine spumose dell'acqua, che si formano quando comincia a piovere, si levano tumultuose una dopo l'altra dal basso, ma una volta esplose scompaiono tanto più rapidamente quanto più in alto erano state sollevate dal vento. E mentre crescono per apparire, crescendo finiscono per scomparire (Cumque crescunt ut appareant, crescendo  peragunt ne subsistant).

Commento morale a Giobbe, IV, XVII, 10, Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, pp.585-567.

17 Non bisogna dimenticare che la bontà di Dio concede tempo ai peccatori per far penitenza. Ma siccome questi impiegano il tempo concesso per far penitenza per compiere azioni cattive, perdono l'occasione che la misericordia di Dio aveva offerto loro per  meritarsela. (Sciendum tamen quia benignitas Dei est peccatoribus spatium paenitentiae largiri. Sed quia accepta tempora non ad fructum paenitentiae, sed ad usum iniquitatis vertunt, quod a divina misericordia mereri poterant amittunt).

Commento morale a Giobbe, III, XVI,14, Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p. 513.

Esortazioni morali

1 Sentiero stretto è vivere in questo mondo senza alcuna cupidigia delle cose del mondo (in hoc mundo vivere, sed de huius mundi concupiscentia nihil habere); non desiderare le cose altrui...per amore di Dio amare gli obbrobri...perdonare di cuore a chi ci fa del male e conservare intatto nel cuore l'amore per il Signore...Scienza perfetta poi è compiere tutte queste cose e sapere che in base ai nostri meriti siamo nulla (Perfecta scientia est haec cuncta sollicite agere et se, de suis meritis, scire nihil esse) ... Scienza perfetta è anchde sapere tutto e tuttavia non sapere di essere sapiente (Perfecta scientia est scire omnia, et tamen scientem se esse nescire).

Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 61.62. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.601.

2 Il primo ascolto della voce divina avviene nella paura, per poi convertirsi in dolcezza. Prima ci raggiunge con il timore del severo giudizio per poi ristorarci, dopo averci fatto soffrire, consolandoci con superna dolcezza (Auditio igitur vocis Dei prius in terrore fit, ut post vertatur in dulcedinem, quia ante nos districti iudicii timore castigat, ut iam castigatos supernae dulcedinis consolatione reficiat).

Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 33, Città Nuova Editrice /3. Roma 1997, p.569.

3 Da poco le avevo oltrepassate, quando trovai l'amato del mio cuore (Ct 3,4). Se l'anima che è avida di vederlo non va oltre la misura di tutti gli uomini, non trova colui che è al di sopra di tutti gli uomini. Oltrepassare le guardie significa posporre, al confronto di lui, anche quelli che l'anima ammira (Transire ergo est vigiles, etiam eos quos miratur anima in eius comparatione postponere). E finalmente vede colui che cercava, se crede che è sì uomo, ma oltrepassa la misura degli uomini (Et tunc is qui quaerebatur cernitur, si homo quidem, sed tamen extra mensuras hominum credatur).

Commento morale a Giobbe, V, XXVIII, 4. Città Nuova Editrice/3 Roma 1997, p. 539.

4 Altro è ciò che la sacra Scrittura prescrive in generale a tutti, e altro è ciò che comanda in particolare a chi è più avanti sul cammino della perfezione. Giustamente quindi non sottostanno al giudizio quelli che, con la loro vita, hanno superato ciò che viene prescritto in generale a tutti. (Aliud est quod per Scripturam sacram generaliter omnibus praecipitur, aliud quod specialiter perfectioribus imperatur. Hi ergo recte sub generali iudicio non tenentur, qui et praecepta generalia vivendo vicerunt).

Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 51. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 503.

5 L'anima ritorna in alto con quello stesso evento con cui è scesa in basso. Essa si alza infatti con quei medesimi passi per cui è caduta. Infatti ci richiamano a Dio quelle stesse cose osservate bene che, scelte male, ci hanno separato da Lui. (Ut quo casu anima venit ad infima, eo gradu revertatur ad summa; atque eiusdem quibus corruit passibus surgat, dum illa nos ad Deum bene considerata revocant, quae nos ab eo, male electa, diviserunt).

Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 18. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.465.

6 Dove siamo caduti, là ci appoggiamo per rialzarci (Ubi enim lapsi sumus ibi incumbimus ut resurgamus); e lì, quasi risorgendo, abbiamo fissato l'opera della contemplazione, là dove giacevamo cadendo per trascuratezza col piede dell'amore lascivo. E poiché siamo caduti dalle cose invisibili a causa di quelle visibili, è giusto che ancora ci appoggiamo alle cose visibili per raggiungere le invisibili. E così con quell'evento per cui è scesa in basso, l'anima con questo in alto (Quia enim ad invisibilibus per visibilia cecidimus, dignum est ut ad invisibilia ipsis rursum visibilibus innitamur ut quo casu anima venit ad infima, eo gradu revertatur ad summa). Si alza con quei medesimi passi per cui è caduta, poiché ci richiamano a Dio quelle cose osservate bene che, scelte male, ci hanno separato da Lui.

Commento morale a Giobbe, V, XXVI, 18. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.465.

7 Quando (la coscienza) cerca se stessa e, pentendosi, si esamina rigorosamente, purificata dalla vecchiezza mediante le lacrime  e la tristezza del fuoco interiore, si rinnova; ed essa, che era diventata quasi fredda, arde di nuovo grazie a un supplemento di amore interiore. Perciò l'apostolo Paolo dice ai discepoli: Rinnovatevi nello spirito della vostra mente (Ef 4,23). (Cum vero semetipsam (mens) quaerit, et subtiliter paenitendo se discutit, a vetustate sua lota lacrimis et maerore incensa renovatur, et quae iam paene inveterata frixerat, per subministrata interni amoris studia novum calet. Unde Paulus apostolus discipulos admonet dicens:Renovamini spiritu mentis vestrae).

Commento morale a Giobbe, V, XXV, 14, Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.411.

8 Lo spirito è il pensiero profondo; il soffio, che viene attratto per mezzo del corpo, è l'attività esteriore. Dio trae a sé lo spirito e il soffio dell'uomo, quando trasforma la nostra attività interiore ed esteriore e la converte nel desiderio di lui (Deo ergo spiritum hominis et flatum ad se trahere est ad conversionem sui desiderii et interiora nostra et exteriora commutare), così che nulla di esteriore piace di più all'anima e nulla di inferiore la carne cerca di raggiungere, anche se lo desidera; ma l'uomo, con tutto ciò che è, tende verso di lui dal quale viene, ardendo interiormente per il desiderio di lui, e in lui si raccoglie dominando esteriormente se stesso (Omne quod homo est ad eum videlicet a quo est et interius desiderando ferveat, et exterius se edomando constringat).

Commento morale a Giobbe, V, XXIV, 44. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, pp.385.387).

I passi della crescita spirituale

1 Il cuore comincia a penetrare la sapienza di Dio allorquando è scosso dal timore del giudizio finale. La Parola di Dio si adegua dunque alla nostra piccolezza (ad parvitatem igitur nostram divinus sermo se attrahit), come quando il padre parla al suo bambino e, per farsi capire, si mette volentieri a balbettare come lui (sicut pater cum parvulo filio loquitur, ut ab eo possit intellegi, sponte balbutit). Non potendo noi penetrare cos'è in se stessa la natura della sapienza, possiamo, per divina condiscendenza, ascoltare ciò che la sapienza è in noi.

Commento morale a Giobbe, IV, XIX, 14, Città Nuova Editrice/3, Roma 1997. p.35.

2 Se mediante la grazia della conversione la folla delle preoccupazioni viene allontanata dalla strada del cuore (si autem per conversionis gratiam a via cordis curarum turba removetur), così che nessuna attività frenetica la calpesti e nessun pensiero tumultuoso la soffochi, allora si viene a conoscere la radice di ciò che rimaneva nascosto (tunc quod accultum latebat agnoscitur) ... Contro di essa interviene la mano di chi vive bene, il quale, per quanto è possibile, non la lascia nascosta ma la strappa alla radice (non tegatur occulta, sed radicitus evellatur).

Commento morale a Giobbe, V, XXIV, 30. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 369.

3 Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò (Mt 11, 28). Il Signore invita a interrompere le fatiche del mondo per gustare la dolcezza di una santa quiete; e tuttavia la mente insana dei malvagi gode più a seguire gli aspri sentieri di una vita secondo la carne che a mantenersi su quelli pianeggianti di una vita secondo lo spirito; preferisce pascersi dell'asprezza della fatica che della dolcezza della quiete (plus acerbitate fatigationis quam quietis dulcedine pascitur). Ne è un chiaro esempio il popolo di Israele che, mentre riceveva dall'alto il cibo della manna, rimpiangeva le pentole di carne dell'Egitto. Che significa infatti la manna, se non il cibo della grazia, dal sapore soave, donato dal cielo per nutrire la vita ineriore di quelli che sono ben disposti (Quid enim signatur in manna, nisi esca gratiae suave sapiens, ad refectionem interioris vitae bene vacantibus desuper data)?

Commento morale a Giobbe, IV, XX, 40, Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.127.

4 Nella tranquillità si riceve la grazia  del dono celeste, ma solo nell'avversità del turbamento si dimostra il progresso che si è fatto. (Unusquisque superni doni gratiam in tranquillitate quietis percipit, sed quantum perceperit, in adversitate perturbationis ostendit).

Commento morale a Giobbe, V, XXIII, 52. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.335.

5 Se i compiti esterni non vengono ambiti con amore disordinato, si possono gestire non con animo confuso ma ordinato (exteriores curae si perverso animo amore non appetuntur, non confuso sed ordinato animo ministrari queunt). I santi non li ambiscono affatto e gemono quando, per un ordine misterioso, vengono loro imposti ... ma temendo le occulte disposizioni di Dio, tengono ciò che fuggono, e praticano ciò che evitano. Rientrando nel loro cuore consultano quel che vuole la volontà di Dio (timentes occultas dispensationes Dei, tenent quod fugiunt, exercent quod vitant. Intrant enim ad cor suum, et ibi consulunt quid velit occulta voluntas Dei)... Ma di questa sapienza si riempiono non già i cuori inquieti e confusi, bensì quelli tranquilli.

Commento morale a Giobbe, IV, XVIII, 70. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p.701.

6 La vera scienza affascina, non leva in superbia; non rende superbi quelli che riempie, ma li fa gemere (Vera autem scientia afficit, non extollit; nec superbientes quos impleverit, sed lamentantes facit). La prima cosa che desidera chi ne viene riempito, è conoscere se stesso (Qua quisque cum repletus fuerit, primo loco se scire appetit); e quando comincia a conoscere se stesso, diventa tanto più vigorosamente saggio quanto più, grazie a questa conoscenza di sé, riconosce di essere debole . L'umiltà stessa gli apre una via più ampia a questa conoscenza (Ampliorem viam huius scientiae ipsa ei humilitas aperit). Egli riconosce la propria debolezza, e questa conoscenza dei segreti sublimi gli apre aditi nascosti. Spinto da questa conoscenza, diventa infatti più acuto nella comprensione dei segreti nascosti. (Qua cognitione pressus, subtilior redditur, qui ad occulta capiatur).

Commento morale a Giobbe, V, XXIII, 31. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 311.

7 La fede, che ci guida a raggiungere in modo perfetto le altre virtù, all'inizio è spesso ad un tempo esitante e solida (Fides plerumque in exordiis suis et nutat, et solida est): si ha già certezza e tuttavia la sua fiducia è ancora travagliata dal dubbio (et iam certissime habetur, et tamen de eius fiducia adhuc sub dubitatione trebidatur). Prima se ne riceve una parte e poi si compelta in noi perfettamente (Pars namque eius prius accipitur, ut in nobis postmodum perfecte compleatur) ... Il padre che nel vangelo chiese la guarigione del figlio, diceva:Credo Signore, aiutami nella mia incredulità (Mc 9, 23); diceva a gran voce nello stesso identico momento che già credeva e che ancora dubitava per incredulità. Vuol dire che stava ancora salendo verso la fede che aveva già ricevuto... E' in tal senso che anche i discepoli dicono al nostro redentore: Aumenta la nostra fede (Lc 17, 5), chiedendo che quella fede, che aveva già iniziato i primi passi, giungesse, attraverso una crescita graduale, alla sua perfezione (ut quae iam accepta per initium fuerat, quasi per augmenta graduum ad perfectionem veniret).

Commento morale a Giobbe, IV, XXII, 49. Città Nuova Editrice/3Roma 1997, p.265.

8 Il nostro progresso spirituale avviene per gradi: prima mettiamo il piede della nostra mente  in basso col timore, ma poi lo spostiamo in alto per portarlo, mediante la carità, al livello dell'amore, in modo che venga represso l'orgoglio col timore e così, dopo aver fatto esperienza del timore, possa elevarsi in alto fino a sperimentare la fiducia. (Appositis igitur quasi quibusdam gradibus profectus, nostrae mentis pedem prius per timorem in immo ponimus; et postmodum per caritatem ad alta amoris levamus, ut ab eo quo quisque tumet, reprimatur ut timeat, et ab eo quod iam metuit, sublevetur ut praesumat).

Commento morale a Giobbe, IV, XXII, 48. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 265.

9 Non è perfetta letizia conoscere nelle pagine divine molte cose profonde, bensì custodire quelle che si sono conosciute. Chi infatti le intende bene, sa anche cosa deve fare (Nam qui bene intellegit, quid intellegendo debeat agnoscit). E quanto più ampia e profonda è l'intelligenza che se ne ha, maggiore è l'impegno che ne deriva a metterle in pratica (Quanto enim in intellectum latius extenditur, tanto ad explenda opera enixius logatur). Così nel vangelo Gesù dice: A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà chiesto molto di più (Lc 12,48).

Commento morale a Giobbe, IV, XXII, 8. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.221.

10 Io grido a te, ma tu non mi esaudisci, insisto, ma non mi dai retta (Gb 30,20). Sì, il ritardo con cui i santi ottengono ciò che chiedono fa crescere la loro sapienza; poiché il ritardo fa crescere il desiderio e il desiderio aumenta l'intelletto. Quando l'intelletto poi diventa più acuto apre la via ad un amore più ardente verso Dio (postulata tarde percipiunt, ut ex dilatione crescat desiderium et ex desiderio intellectus augeatur. Intellectus vero cum intenditur, ei in Deum ardentior affectus aperitur). L'amore poi diventa tanto più capace di raggiungere i beni celesti quanto più diventa longanime nell'attesa. Ma intanto la sofferenza spinge i santi a gridare. Pur traendo vantaggio dal ritardo, essi temono che, venendo meno le loro forze, possano essere trascurati e abbandonati da Dio (Sed tamen inter haec sanctorum patientiam dolor urget ad vocem, et cum dilati proficiunt, metuunt ne deficientibus viribus despecti reprobentur).

Commento morale a Giobbe, IV, XX, 61. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 149.

11 Conosciamo nel progresso interiore quel che abbiamo ricevuto nel limite esteriore quel che noi siamo.
(Cognoscimus in interiore profectu quid accipimus, in exteriore defectu quid sumus).

Commento morale a Giobbe, IV, XIX, 12. Città Nuova Editrice/, Roma1997, p. 33.

10 Non è arbitrario identificare la via di Dio con il fatto stesso che egli viene nel nostro cuore e si comunica a noi intimamente. Il suo luogo diventa infatti il nostro cuore, nel quale egli viene e rimane. (Via eius non inconvenienter accipitur hoc ipsum quod venit ad cor seseque nobis intrinsecus infundit. Locus vero eius fit cor, ad quod veniens permanet).

Commento morale a Giobbe, IV, XIX, 6. Città Nuova Edtrice/3, Roma 1997, p.25.

I segni del completamento dell’uomo

1 E' bello aprire gli occhi della fede e contemplare quel convito finale della santa Chiesa che accoglierà il popolo d'Israele. Quando verrà quel grande Elia, si metterà ad invitare i commensali a questo convito; allora i vicini e i conoscenti verranno con doni a colui che poco prima, quando si trovava nella dura prova, disprezzavano. Infatti, avvicinandosi il giorno del giudizio, risplenderà ormai in qualche modo in mezzo ad essi la potenza stessa del Signore che verrà, sia mediante la parola del precursore, sia con certi segni che appariranno; affrettandosi a prevenire la sua ira, accelereranno il tempo della loro conversione. Convertiti verranno allora con doni. Offriranno come doni le loro opere virtuose, e adoreranno colui che poco prima, nella passione, derisero. Certo con questa loro offerta si compirà quella profezia che in ogni parte vediamo già compiuta e che crediamo debba compiersi in modo perfetto.
Commento morale a Giobbe, VI, XXXV, 34. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, pp. 583-585.

2 I fratelli e le sorelle di Gesù secondo la carne allora mangeranno pane in casa di lui quando, messa da parte l'osservanza esteriore della lettera, si nutriranno nella Santa Chiesa del midollo di frumento  della parola mistica (Tunc in domo eius panem comedunt, cum, postposita observatione superiacentis litterae, in Santa Ecclesia mystici eloquii quasi frugis medulla pascuntur).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXV, 26. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p.575.

3 Visitando la tua immagine non peccherai (Gb 5,24). Immagine dell'uomo è un altro uomo. Giustamente si dice che il nostro prossimo è la nostra immagine perché in lui vediamo quello che siamo noi (Recte species nostra dicitur proximus noster, quia in illo cernimus quid ipsi sumus)...per visitarlo spiritualmente andiamo a lui col passo dell'affetto (spiritali visitatione non gressu sed affectu ducimur). Visita dunque la propria immagine, chi si dirige con i passi dell'amore verso colui che egli riconosce simile a sé per natura (Speciem ergo suam visitat, quisquis ad eum quem sibi similem per naturam cospicit, passibus amoris tendit) ... cioè chi pensa se stesso nell'altro (qui se in altero pensat).
Commento morale a Giobbe, II,VI,54. Città Nuova Editrice/1. Roma 1992, p. 527.
4 Vediamo Dio se siamo partecipi di Lui ed essendone partecipi lo imitiamo (et videntes participamur et participantes imitamur). Questa visione comincia ora mediante la fede, ma si perfezionerà nella visione quando berremo alla sua stessa fonte la sapienza coeterna a Dio che adesso attingiamo come dalla corrente che ci è trasmessa dalla bocca dei predicatori (Quae nimirum visio nunc fide inchoatur, sed tunc in specie perficitur, quando coaeternam Deo sapientiam, quam modo per ora paredicantium quasi per decurrentia flumina sumimus, in ipso fonte suo biberimus).
Commento morale a Giobbe, IV, XVIII, 93. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p. 729.

5 Dio dice: Chi ha infuso nel cuore dell'uomo, che gusta solo le cose terrene, la grazia della sapienza divina? E chi, se non io, ha dato intelligenza agli stessi portatori della parola perché sappiano quando e a chi devono annunziare il giorno che viene? Essi infatti sentono che cosa devono fare, appunto perché lo apprendono interiormente dalla mia rivelazione. Nelle viscere dell'uomo viene posta la sapienza ispirata da Dio, proprio perché viene loro concesso quanto spetta al numero degli eletti, non solo con la parola, ma anche col pensiero; e questo perché la loro coscienza viva secondo quanto la dice la lingua e la luce risplenda tanto più chiaramente di fuori quanto più veramente arde nel cuore (ut iuxta quod loquitur lingua, vivat conscientia; et lux eius tanto clarius resplendeat in superficie, quanto verius inardescit in corde).
Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 10. Città Nuova Editrice1/4, Roma 2001, p. 165.

6 Il bene che facciamo è di Dio ed è nostro: di Dio che ci previene con la sua grazia, nostro perché l'assecondiamo con la nostra libera volontà (Bonum quippe quod agimus, et Dei est et nostrum; Dei per praevenientem gratiam, nostrum per obsequentem liberam voluntatem). Se infatti non è di Dio, di che cosa lo ringrazieremo in eterno? E se non è nostro, a quale titolo speriamo di ricevere un premio?Se dobbiamo ringraziarlo è perché sappiamo di essere stati prevenuti dal suo dono; se è giusto che cerchiamo la ricompensa è perché sappiamo d'aver scelto di compiere il bene assecondando la grazia con il nostro libero volere (scimus quod subsequente libero arbitrio bona elegimus quae ageremus).
Commento morale a Giobbe, VI, XXXIII, 40, Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, pp. 463-465.
7 Sentire la voce dello sposo significa elevarsi mediante la forza dell'intima compunzione verso l'amore del Creatore invisibile. Ma nessuno sa da dove viene, perché non si sa in quali occasioni si effonda in noi mediante la bocca di coloro che predicano. E nessuno sa dove va, perché, quando molti ascoltano la medesima predicazione, non si può certo comprendere chi egli respinge, abbandonandolo, e nel cuore di chi entri, per riposarvi. Unico è ciò che avviene fuori, ma non è unico il modo con cui per mezzo di lui sono penetrati i cuori di quelli che sono in ascolto, perché colui che modifica le cose visibili in modo invisibile, pianta in modo incomprensibile i germi delle cause nei cuori umani (Una quippe res foris agitur, sed non per hanc uno modo intuentium corda penetrantur, quia qui invisibiliter visibilia modificat in humanis cordibus causarum semina, incomprehesibiliter plantat).
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 41. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 577.
8 Si ode la voce del Signore quando l'anima percepisce l'ispirazione della sua grazia e viene rotta l'insensibilità dell'interiore sordità, mentre il cuore, provocato a cercare l'amore più alto, è penetrato dal clamore dell'intima virtù. Ma questa voce dello Spirito, che sopraggiunge e s'insinua all'orecchio del cuore, non la può indagare neppure l'anima da essa illuminata. (Vox Domini auditur cum gratiae eius aspiratio mente concipitur, cum insensibilitas occultae surditatis rumpitur et cor ad studium summi amoris excitatum virtutis intimae clamore penetratur. Sed istam vocem supervenientis Spiritus, quae se in aurem cordis insinuat, nec ipsa mens, quae per hanc illustrata fuerit, investigat).
Commento morale a Giobbe, V, XXVII, 41. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.577.
9 Quale tristezza, quale ansietà di cuore quando da una parte lo spirito chiama, dall'altra la carne richiama (Quis ibi maeror, quae anxietas cordis, quando hinc spiritus vocat, hinc caro revocat) ... ma poiché la grazia divina non permette che siamo afflitti a lungo da queste difficoltà, una volta spezzate le catene, ci conduce presto, consolandoci, alla libertà del nuovo genere di vita, e la gioia che ne segue placa la precedente tristezza (et praecedentem tristitiam subsequens laetitia refovet). Infatti l'animo di ogni convertito gode di aver realizzato il suo voto, tanto meglio quanto più si ricorda di avere per esso faticato e sofferto. Nasce nel cuore un'immensa letizia, quando ci si avvicina con sicura speranza a colui che si desidera (Fit cordi immensa laetitia, quia ei quem desiderat, iam per spem securitatis propinquat).

Commento morale a Giobbe, V, XXIV, 26. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, pp. 363.365.

10 Il cuore umano preferisce il piacere della vita presente. Ma quando l'ispirazione divina tocca il posto del nostro cuore vi suscita l'amore per l'eternità (cum divina ispiratione tangitur locus  nostri cordis, fit amore aeternitatis). Contemplando la patria eterna, l'anima balza fuori dal suo posto, perché lasciando le cose infime si trasferisce nel pensieri celesti. Prima infatti non sapeva quali fossero le cose eterne e perciò si era appiattita nella soddisfazioni delle cose presenti...ma dopo avere scoperto le cose eterne e aver visto i raggi della luce superna, contemplandola in un lampo, elevò se stessa (Sed postquam quae essent aeterna cognovit, postquam supoernae lucis radios raptim contemplando contingit, ipsa admiratione summorum sese ab infimis suscitatus elevavit).
Commento morale a Giobbe, V, XXVII 32. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, pp.367-369.
11 I santi, sebbene per noi escano fuori dal cospetto del loro Creatore, di cui con la mente cercano di scorgere lo splendore, verso il ministero della vita attiva, tuttavia ricorrono di nuovo immediatamente al santo impegno contemplazione. E quindi sebbene nella loro predicazione si effondano fuori con parole sensibili alle nostre orecchie, tuttavia nel silenzio del loro spirito ritornano sempre a contemplare la fonte stessa della luce.
Commento morale a Giobbe, VI, XXX, 8. Città Nuova Editrice 1/4, Roma 2001, p.161.
12 Siccome Dio misericordioso permette che siamo provati, non riprovati dalle tentazioni (Quia Misericors Deus probari nos permittit temptationibus non reprobari) ben presto soccorre con la sua consolazione (citius consolationis ope succurrit), mitiga l'impero delle tentazioni che assalgono e con la pace interiore rasserena i moti insorgenti dei pensieri. E subito l'anima percepisce un'immensa letizia derivante dalla speranza celeste, vedendo sconfitto il male che ha sopportato (Moxque anima immensam de spe caelesti laetitiam percipit, dum devictum malum respicit quod toleravit).

Commento morale a Giobbe, V, XXIV, 31. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 371.

13 Finché viviamo in questa abitazione terrena, non possiamo in alcun modo penetrare con l'occhio della mente attraverso questo, chiamiamolo così, muro della nostra corruzione, e non possiamo vedere i segreti gli uni degli altri. Perciò la santa Chiesa, che vorrebbe vedere la bellezza divina del suo Sposo, ma non può, perché l'umanità da Lui assunta nasconde l'aspetto della sua eternità che brama contemplare, rammaricandosi dice, nel Cantico dei Cantici: Eccolo, egli sta dietro il nostro muro (Ct 2,9). Come a dire chiaramente: Io desidero ormai vederlo nel suo aspetto divino, ma di questa visione mi priva il muro della carne da Lui assunta. E così, finché viviamo in questa carne corruttibile, anche noi non vediamo reciprocamente i nostri pensieri.

Commento morale a Giobbe, IV, XVIII, 78. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p. 709.

14 Quando, nel nostro dialogo con Dio, scendiamo alle espressioni della nostra condizione mutevole, ci serviamo di queste come di gradini per salire verso l'immutabilità di Dio, per contemplare Lui che è geloso senza gelosia, che si adira senza ira, che si pente senza dolore e pentimento, che è misericordioso senza avere un cuore misero, che conosce prima senza prevedere. In Lui infatti non esiste né passato né futuro, ma tutto ciò che cambia rimane immutabile (In illo enim nec praeterita, nec futura reperiri queunt, sed cuncta muabilia immutabiliter durant): e tutte le cose che in se stesse non possono esistere insieme, per lui sono tutte presenti insieme, per lui nulla passa di ciò che è transitorio, perché nella sua eternità l'intero svolgimento dei secoli rimane in modo incomprensibile passando ed è stabile scorrendo (quia in aeternitate eius modo quodam incomprehensibili, cuncta volumina saeculorum transeuntia manent, currentia stant).

Commento morale a Giobbe, IV, XX, 63, Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p.153.

15 Vediamo Dio se  siamo partecipi di Lui ed essendone partecipi lo imitiamo (et videntes participamur et participantes imitamur). Questa visione comincia ora mediante la fede, ma si perfezionerà nella visione quando berremo alla sua stessa fonte la sapienza coeterna a Dio che adesso attingiamo come dalla corrente che ci è trasmessa dalla bocca dei predicatori (Quae nimirum visio nunc fide inchoatur, sed tunc in specie perficitur, quando coaeternam Deo sapientiam, quam modo per ora paredicantium quasi per decurrentia flumina sumimus, in ipso fonte suo biberimus).

Commento morale a Giobbe, IV, XVIII, 93. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p. 729.

16 Quando l'anima comincia a gustare l'abbondanza delle delizie interiori, non trova più gusto ad occuparsi delle cose terrene; ma presa dall'amore di Dio, e libera ormai dalla propria schiavitù, sospira e viene meno per il deisiderio di contemplare la sua bellezza; e proprio dalla sua stanchezza attinge il vigore, poiché incapace ormai di portare pesi così gravosi, grazie alla quiete si affretta verso colui che interiormente ama. (Anima, cum internis deliciis abundare coeperit, terrenis iam operibus incubare minime consentit; sed amore conditoris capta et sua captivitate iam libera, ad contemplandam eius speciem deficiendo suspirat; et quasi lassescendo convalescit, quia dum sordida onera portare iam non valet, ad illum per quietem properat, quem intus amat).

Commento morale a Giobbe, III, XVI,24. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p.523. 

17 Genera una meravigliosa tranquillità di cuore il non cercare le cose degli altri, accontentandosi di quel che arriva ogni giorno. 
Da tale tranquillità sgorga la pace che non ha fine, perché si giunge alla gioia eterna grazie a pensieri buoni e pacifici. (Mira est securitas cordis, aliena non quaerere sed uniuscuiusque diei contentum manere. Ex qua videlicet securitate etiam perennis requies nascitur, quia bona et tranquilla cogitatione ad gaudia aeterna transitur).

Commento morale a Giobbe, III, XV, 28. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p. 455.

18 Spesso l'anima di chi ama è talmente ricolma del dono della contemplazione che riesce a vedere ciò che le parole non possono esprimere. Infatti fiume torrenziale è l'inondazione dello Spirito Santo che si riversa con sovrabbondante effusione nell'anima contemplativa, colmata al di là di ciò che essa stessa può contenere. (Saepe amantis animus tanto contemplationis munere repletur, ut videre valeat quod loqui non valet. Nam fluvius torrens est ipsa inundatio Spiritus Sancti, quae in contemplantis animum exuberanti infusione colligitur, cum mens plus quam intellegere sufficit, repletur).

Commento morale a Giobbe, III, XV,20. Città Nuova Editrice/2, Roma 1994, p.449.

19 Nulla al di fuori di Dio basta all'anima che cerca veramente Dio (Nil extra Deum sufficit menti quae veraciter Deum quaerit).

Commento morale a Giobbe, IV, XXII, 5. Città Nuova Editrice/3, Roma 1997, p. 217. 


                                                                                                        
                                                                                                                                        


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