"Che significano le pecore, se non l'innocenza dei pensieri? Che significano le pecore, se non la purezza di cuore dei buoni (quid per oves nisi bonorum cordium munditia designatur)?...Quando dunque la fiamma dell'invidia... irrompe contro la purezza dei nostri pensieri, il fuoco scende dal cielo sulle pecore. I pensieri della nostra mente si infiammano spesso infatti con l'ardore della libidine, e col loro fuoco incendiano per così dire le pecore, quando turbano i nostri sentimenti con le tentazioni della lussuria (Saepe enim mundas mentis nostrae cogitationes ardore libidinis accendunt). Si chiamano fuoco di Dio, perché pur non essendo opera di Dio, tuttavia nascono col suo permesso (etsi non faciente Deo, tamen permittente, generatur). E poiché con il loro impeto improvviso travolgono la vigilanza stessa dell'anima, passano, per così dire, a fil di spada i guardiani. Uno solo tuttavia sfugge incolume, quando il discernimento che ci rimane esamina con lucidità tutto ciò che l'animo soffre e, solo, sfugge al pericolo di morte (unus incolumis fugit dum omne quod mens patitur, perseverans discretio subtiliter respicit, solaque mortis periculum evadit)".
Commento morale a Giobbe, I, II, 74. Città Nuova Editrice, Roma 1992, pp.223-225.
Siamo di fronte ad un esempio - e ne incontreremo tanti - di interpretazione morale del testo biblico che non passa attraverso il riferimento esplicito all'<allegoria> identificata con il mistero di Cristo; ma non dobbiamo dimenticare che Gregorio ha già spiegato che Giobbe è profezia di Cristo in tutta la sua umanità, per cui nulla di ciò che avviene nell'uomo è estraneo a lui tranne, ovviamente, il peccato.
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