"Finisce con l'essere privato del lume della ragione, chi si rende colpevole di una prolungata e deplorevole consuetudine della propria iniquità (Quandoque et lumen rationis clauditur ei qui pravo usu ex iniquitatis suae multitudine gravatur)...Perciò di solito accade che, stanchi, ritornano alle proprie abitudini e dalla tensione spirituale si adagiano ai piaceri della carne; pensano soltanto alle cose che passano e non si curano di nessuna delle cose che rimangono (sola quae transeunt cogitent, nulla quae secum permaneant curent)...Uno si affanna a raggiungere onori, un altro è preso dalla febbre di accumulare ricchezze, un terzo aspira a meritare lodi; ma siccome tutte queste cose quando si muore si lasciano qui...chi non provvede vivendo bene a meritarsi il premio della vita eterna, si presenta davanti al Signore a mani vuote (qui pro promerendae vitae mercedem bene agendo non providet, in conspectu Domini vacuus apparet)"
Commento morale a Giobbe, II, VII, 37-38. Città Nuova Editrice/1, Roma 1992, p. 581.
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